L’equipaggio della Flotilla ha violato il codice penale italiano?

La questione giuridica riguarda se la missione possa essere considerata un “atto ostile” contro Israele
ANSA/ORIETTA SCARDINO
ANSA/ORIETTA SCARDINO
Nella mattinata di mercoledì 1° ottobre le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, un’iniziativa internazionale di attivisti che vuole rompere il blocco navale imposto da Israele a Gaza, si sono avvicinate a un’area dove in passato operazioni simili erano già state fermate dall’esercito israeliano.

Nei giorni precedenti, sui social network si è diffusa la tesi secondo cui i membri italiani dell’equipaggio della Flotilla stiano violando il codice penale italiano, in particolare l’articolo 244, che prevede il carcere per chi commette il reato di “atti ostili verso uno Stato estero”.

Ma quanto è solida questa accusa? Gli attivisti della Flotilla rischiano davvero di essere processati e incarcerati in Italia? Proviamo a fare chiarezza.

Da dove nasce la missione

Alla spedizione della Global Sumud Flotilla, diretta a Gaza, partecipano associazioni, movimenti civili e organizzazioni non governative (ONG) di oltre 40 Paesi.

Secondo quanto riportato sul suo sito ufficiale, la Flotilla è una «flotta coordinata e non violenta, composta da piccole imbarcazioni che partono dai porti del Mediterraneo per rompere l’assedio imposto a Gaza». L’operazione nasce con l’obiettivo di affrontare direttamente il blocco navale stabilito da Israele nel 2009. Gli organizzatori sostengono che non si tratti soltanto di trasportare aiuti, ma di mandare un messaggio politico: «L’assedio e il genocidio devono finire».

In base alle testimonianze dei naviganti, il viaggio è stato ostacolato da droni, interferenze elettroniche e guasti sospetti. Una barca, per esempio, si è fermata per problemi ai motori, altre hanno segnalato danni alle attrezzature, ma la rotta verso Gaza è proseguita. 

Nel frattempo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rivolto un appello ai partecipanti, invitandoli a considerare l’offerta del Patriarcato Latino di Gerusalemme (l’istituzione che rappresenta la Chiesa di Roma in una parte del Medio Oriente) di farsi garante della consegna degli aiuti per ridurre i rischi. Gli attivisti però hanno replicato che accettare quella proposta significherebbe annullare la valenza simbolica della missione.

Da parte loro, le autorità israeliane hanno ribadito che manterranno il blocco navale, senza usare la «forza letale» contro la Flotilla.

Quando scatta il reato

L’articolo 244 del codice penale – quello che, secondo alcuni, starebbero violando gli attivisti della Flotilla – stabilisce che «chiunque, senza l’approvazione del governo, compie atti ostili contro uno Stato estero, esponendo l’Italia al pericolo di guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni». Se la guerra inizia davvero, la condanna può arrivare fino all’ergastolo.

Se invece gli atti ostili «turbano solo le relazioni con un governo estero» o mettono lo Stato italiano e i suoi cittadini «al pericolo di rappresaglie o ritorsioni», la pena varia «da tre a dodici anni», che diventano «da cinque a quindici» in caso di rottura diplomatica o di effettive ritorsioni.

Escludiamo l’ipotesi dell’arruolamento – inteso dal codice penale come «un atto di ingaggio di soggetti armati, che ponga in essere un rapporto di subordinazione o di servizio, gratuito o retribuito» – che in questo caso non si configura. L’attenzione va spostata quindi sulla nozione di «atti ostili».

Questo è un “reato di pericolo”: non è necessario che i rischi indicati dalla norma si verifichino davvero, ma è sufficiente che non siano remoti o puramente ipotetici. In altre parole, la condotta deve avere una concreta idoneità a generare almeno uno degli eventi considerati dalla legge, cioè esporre lo Stato italiano al pericolo di guerra, a una grave crisi diplomatica o a rappresaglie e ritorsioni.

Perché si configuri il reato di “atti ostili” è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di compiere l’atto ostile, sapendo di non avere l’approvazione del governo e accettando la possibilità di esporre l’Italia ai rischi elencati dalla norma.

In passato, alcune sentenze hanno chiarito che non bastano iniziative civili non armate, cioè forme di ostilità soltanto “politiche” o simboliche. Gli atti ostili non coincidono dunque con la disobbedienza civile non violenta, ma richiedono una ostilità qualificata, fatta di condotte concrete e operative, capaci di esporre l’Italia ai pericoli previsti dalla legge.

Ricapitolando: perché possa applicarsi l’articolo 244 del codice penale all’equipaggio della Flotilla devono ricorrere alcune condizioni, ossia la mancata approvazione del governo, il carattere ostile dell’atto, la sua destinazione contro uno Stato estero e il rischio di compromettere i rapporti bilaterali tra l’Italia e quello Stato, in questo caso Israele.

È davvero un atto ostile?

Innanzitutto, va dato per certo che non vi sia l’approvazione del governo italiano all’iniziativa: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, tra gli altri, ha criticato più volte la Flotilla.

In secondo luogo, è più difficile sostenere che una condotta di disobbedienza civile non violenta, volta ad affrontare il blocco navale con una partecipazione umanitaria, debba essere considerata un “atto ostile” nel senso richiesto dalla legge e dalla giurisprudenza. Se l’azione dei membri della flottiglia resta civile, disarmata e non violenta – con una navigazione dichiaratamente umanitaria, nessuna resistenza alle unità navali e nessun coordinamento operativo con una parte belligerante – mancano gli elementi per qualificarla come “atto ostile” sul piano penale.

Quanto alla possibilità che l’Italia sia esposta ai rischi indicati dalla legge, e quindi a un deterioramento dei rapporti bilaterali con Israele, finora nessuno dei due Stati ha minacciato di interrompere gli accordi esistenti o annunciato ritorsioni contro l’Italia. Non sembra quindi esserci un rischio concreto di peggioramento delle relazioni diplomatiche.

La valutazione cambierebbe se la flottiglia opponesse resistenza violenta: in quel caso l’articolo 244 del codice penale potrebbe astrattamente trovare applicazione, perché si tratterebbe di veri e propri atti ostili, con la possibilità effettiva di provocare rappresaglie o una grave crisi diplomatica per l’Italia.

Israele e le acque di Gaza

Secondo alcuni, tentare di rompere il blocco navale imposto da Israele sarebbe comunque un atto legittimo, perché illegittimo sarebbe il blocco stesso e dunque non vi sarebbe alcuna violazione di norme.

Va però sottolineato che la valutazione di legittimità sul piano internazionale non esclude l’applicabilità dell’articolo 244 del codice penale, qualora ne ricorrano le condizioni. In altre parole, anche se nel diritto internazionale “forzare” il blocco fosse ritenuto legittimo perché il blocco stesso è considerato illegittimo, ciò non elimina di per sé l’eventuale rilevanza penale.

La norma interna si applica infatti quando vi sia un atto oggettivamente ostile, non autorizzato dalle autorità italiane, idoneo a esporre lo Stato italiano a un pericolo di guerra, a gravi ritorsioni o a complicazioni internazionali. La valutazione di liceità internazionale di un comportamento non coincide con quella penale interna: l’articolo 244 non richiede che l’atto sia vietato dal diritto internazionale, ma che sia “ostile” e pericoloso per i rapporti esterni dell’Italia.

Chiarito il profilo penale interno, resta da esaminare il contesto giuridico più ampio, a partire dallo status delle acque di fronte a Gaza, questione complessa e oggetto di interpretazioni contrastanti sul piano del diritto.

La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare assegna allo Stato costiero sovranità fino a 12 miglia nautiche e diritti su una zona economica esclusiva fino a 200 miglia. La Palestina ha aderito alla Convenzione nel 2015 e quindi, in linea di principio, quelle acque sarebbero di sua pertinenza.

Gli Accordi di Oslo del 1995, però, hanno diviso il mare antistante Gaza in zone con competenze civili palestinesi, come la pesca, ma sotto controllo di sicurezza israeliano. Ne consegue che non si tratta né di acque israeliane in senso pieno né di acque palestinesi sotto sovranità illimitata.

A complicare ulteriormente il quadro, negli anni si sono espressi diversi organismi internazionali con valutazioni non sempre convergenti. Per esempio, nel 2024 la Corte internazionale di giustizia – il principale organismo giudiziario delle Nazioni Unite – ha stabilito che Israele non ha alcun diritto di sovranità sui territori palestinesi occupati né sulle acque antistanti.

In ogni caso, secondo diversi esperti sentiti dall’agenzia stampa ANSA, anche entro le 12 miglia deve essere garantito il diritto di passaggio inoffensivo delle navi.

Il blocco è legale?

Una volta chiarito lo status giuridico delle acque antistanti Gaza, resta da affrontare la questione della legittimità del blocco navale imposto da Israele. Il Manuale di San Remo sul diritto internazionale del mare del 1994 lo definisce come una misura di guerra con cui una potenza belligerante impedisce, con la forza navale, l’accesso o l’uscita da porti e coste nemiche. Per essere lecito il blocco navale deve essere dichiarato e notificato, effettivo, imparziale, proporzionato, non può affamare i civili né negare beni essenziali e deve consentire aiuti umanitari.

Sulla legalità del blocco israeliano, i giudizi sono stati contrastanti. La Commissione delle Nazioni Unite sull’assalto alla nave “Mavi Marmara” del 2010 lo riconobbe come misura di sicurezza, valutazione confluita nel “Rapporto Palmer” del 2011. Diversamente, il Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite concluse che fosse illegale, per il suo impatto sproporzionato sui civili e per le violazioni del diritto internazionale commesse dalle forze israeliane.

Negli ultimi anni altri organismi delle Nazioni Unite, tra cui l’Alto commissario per i Diritti umani e la Corte internazionale di giustizia, hanno ribadito che le restrizioni israeliane agli aiuti, incluso il blocco navale, violano il diritto internazionale umanitario, in base a cui si deve comunque garantire alla popolazione civile dei territori occupati l’accesso a beni e viveri essenziali.
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