Il rapper Fedez, all’anagrafe Federico Leonardo Lucia, il 22 giugno ha commentato su Twitter la richiesta giunta dal Vaticano di modificare il disegno di legge Zan sul contrasto all’omotransfobia, approvato alla Camera e bloccato al Senato.
Secondo la Santa Sede il disegno di legge, così com’è ora, potrebbe configurare una violazione del Concordato (il documento che regola i rapporti tra Stato italiano e Chiesa), mettendo a rischio la piena libertà della Chiesa cattolica.
Fedez – che si era speso pubblicamente in favore del ddl Zan anche di recente in occasione del concerto del 1° maggio – ha ironizzato sulla richiesta, affermando che il Vaticano «ha un debito stimato di 5 miliardi di euro su tasse immobiliari mai pagate dal 2005 ad oggi per le strutture a fini commerciali».
Come abbiamo scritto in passato, è vero che la Chiesa debba dei soldi all’Italia, e proprio per una questione di tasse sugli immobili, ma il dato di 5 miliardi non ha fondamento.
Andiamo a vedere i dettagli.
Perché la Chiesa deve dei soldi all’Italia
In sintesi, la Chiesa deve dei soldi all’Italia perché il governo Berlusconi approvò nel 2005 un regime di esenzione dall’Ici (l’Imposta comunale sugli immobili, sostituita nel 2012 dall’Imu) per i beni ecclesiastici che è stato successivamente ritenuto illegittimo dall’Unione europea. Dunque i soldi che sono illegittimamente rimasti nelle casse della Chiesa devono essere restituiti all’Italia.
L’Ici
Scendendo un po’ più nel dettaglio, l’Ici è stata istituita dal decreto legislativo n. 504 del 1992, per poi essere sostituita nel 2011 dal governo Berlusconi IV (d.lgs. 14 marzo 2011 n. 23, art. 7) con l’introduzione dell’Imposta municipale unica (Imu). In realtà, l’Imu sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2014, ma il governo Monti anticipò la data al 2012 (ci torneremo tra poco).
Per quanto riguarda i beni della Chiesa, rileva in particolare l’articolo 7 del d.lgs. 504/1992. Qui si stabiliva che fossero esentati dal pagamento dell’Ici i «fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alle relative pertinenze», ma non solo. Venivano esentati anche i fabbricati impiegati dagli enti ecclesiastici (ma anche da tutti gli enti non commerciali sia pubblici che privati) in attività a vocazione sociale e filantropica quando essi fossero «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive», nonché destinati ai fini di religione o di culto.
Berlusconi vs Cassazione
Questa formulazione era però problematica, considerata la diversa applicazione che davano i diversi comuni, e spesso ne scaturivano controversie giudiziarie. Nel 2004 la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4645 stabilì che «il beneficio dell’esenzione dall’imposta non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali» (ad esempio un hotel o un centro sportivo con attività a pagamento).
Un’interpretazione dunque restrittiva dei giudici, su cui però intervenne nel 2005 il governo Berlusconi III, che stabilì che l’esenzione fosse applicabile alle attività che non avessero «esclusivamente natura commerciale» (art. 7, comma 2-bis del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, poi modificato dall’art. 39 del d.l. 4 luglio 2006 n. 223).
In base a questa norma, dunque, una qualsiasi attività commerciale, gestita da religiosi anche con la precisa volontà di realizzare un profitto, per il solo fatto di essere collegata a una finalità di religione o di culto, avrebbe avuto diritto all’esenzione dall’imposta.
L’intervento del governo Berlusconi generò una serie di altre controversie giudiziarie, in particolare da parte di chi subiva una concorrenza sleale da parte di quelle attività della Chiesa che non dovendo pagare la tassa sugli immobili avevano un ingiusto vantaggio.
Monti e l’Imu
La situazione venne sanata dal governo Monti, che nella legge che disciplinava l’Imu stabilì (art. 91 bis) che l’esenzione è possibile solo per quegli immobili in cui viene svolta un’attività con modalità «non commerciale», e non più anche per quelle che non avessero «esclusivamente natura commerciale».
È difficile stimare l’impatto di questa modifica sul regime fiscale dei beni immobili della Chiesa, in termini di maggior gettito per lo Stato italiano, in quanto tra il 2011 e il 2012, con il passaggio da Ici a Imu, il gettito complessivo da queste tasse è passato da 9,2 miliardi di euro a 21 miliardi di euro.
Il ruolo dell’Unione europea
La Commissione europea, dopo anni di ricorsi generati dall’intervento del governo Berlusconi nel 2005, stabilì nel 2012 che quel regime di esenzione, in vigore tra il 2006 e il 2011, costituisse un aiuto di Stato illegittimo, rispetto al diritto comunitario. Tuttavia secondo la Commissione era oggettivamente impossibile per l’Italia quantificare e recuperare l’Ici non versata dalla Chiesa.
Contro questa decisione fecero ricorso alcuni privati e, dopo alcuni passaggi intermedi, la Corte di Giustizia dell’Ue stabilì con la sentenza del 6 novembre 2018 che la Commissione avesse torto. Infatti non era stata dimostrata l’impossibilità assoluta per lo Stato italiano di recuperare l’Ici dovuto dalla Chiesa tra il 2006 e il 2011.
Ad aprile 2019, in base alla decisione della Corte di Giustizia, la Commissione europea è tornata a chiedere all’Italia di recuperare l’Ici arretrata – ha anche suggerito tre possibili strade per farlo: usare le dichiarazioni sull’utilizzo degli spazi presentate dagli enti non profit con la riforma del 2012; imporre a tutti gli interessati un «obbligo di autocertificazione»; oppure prevedere un sistema di «controlli in loco tramite gli organi ispettivi» – ma ad oggi non risulta che lo Stato italiano abbia ottemperato alla richiesta.
E i cinque miliardi?
Finora, né nelle sentenze né in altri documenti in cui ci siamo imbattuti, non è mai comparsa la cifra dei «5 miliardi di euro» citata da Fedez. Anzi, proprio l’estrema difficoltà nello stimare il debito dovuto dalla Chiesa all’Italia è uno degli elementi principali dello scontro con l’Unione europea.
Come avevamo scritto in passato, i 5 miliardi vengono citati nella relazione illustrativa allegata a un disegno di legge del M5s del 2019 in cui si chiedeva appunto di recuperare l’Ici dovuta dalla Chiesa per il periodo 2006-2011 (veniva anche indicato il metodo dell’autocertificazione dei bilanci relativi a quegli anni e dell’indirizzo d’uso degli immobili, uno dei tre suggeriti all’Italia dalla Commissione europea).
In questa relazione illustrativa in particolare si legge che «secondo stime dell’Anci, l’Ici non versata tra il 2006 e il 2011 si aggira intorno ai cinque miliardi di euro (circa 800 milioni l’anno)».
Questo dato lo si ritrova poi anche su articoli di stampa precedenti (qui e qui ad esempio) e la fonte indicata è sempre l’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci).
Quando abbiamo contattato l’Anci nel novembre 2019 per chiedere delucidazioni circa i calcoli alla base di questa stima, tuttavia, ci è stato risposto che «non ci sono dati storici in Anci che supportino la cifra di un mancato introito di 5 miliardi per il periodo 2006-2011».
In conclusione
Il numero di 5 miliardi di tasse sugli immobili dovuti dalla Chiesa all’Italia, citato ancora di recente da Fedez, rimane senza una fonte e non è chiaro chi e quando abbia iniziato a farlo circolare.
È però vero che la Chiesa debba dei soldi all’Italia per il mancato pagamento dell’Ici tra il 2006 e il 2011. La difficile quantificazione del dovuto è uno dei principali ostacoli al recupero di questa cifra, anche se bisogna notare come alcune strade – come quella dell’autocertificazione, tra le altre – che sono state indicate sia dalla Ue sia in alcuni ddl italiani non siano finora mai state nemmeno percorse.
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