I tre errori di Meloni sui migranti nelle comunicazioni prima del Consiglio europeo

In vista del vertice la presidente del Consiglio ha parlato alla Camera, commettendo alcune imprecisioni sul tema dell’immigrazione
ANSA
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Nella mattinata di mercoledì 28 giugno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha tenuto un discorso alla Camera con le sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo in programma il 29 e il 30 giugno. Meloni ha parlato di vari temi: dalla gestione dei flussi migratori alla guerra in Ucraina, passando per l’economia europea e la politica estera dell’Unione europea.
In particolare sui migranti abbiamo verificato tre dichiarazioni della presidente del Consiglio, che ha commesso alcuni errori.

I risultati “gonfiati” sulle conclusioni del Consiglio europeo di febbraio

«Al Consiglio europeo straordinario di febbraio scorso, grazie all’azione dell’Italia, finalmente è stato riconosciuto da tutti gli Stati membri e dalle istituzioni europee che la migrazione è una sfida europea e, dunque, richiede risposte europee»

Qui il riferimento di Meloni è al Consiglio europeo tenutosi il 9 e 10 febbraio 2023. È vero che nelle conclusioni al termine di quel Consiglio europeo i capi di Stato e di governo dell’Unione europea hanno concordato nel dire che l’immigrazione nel Mar Mediterraneo centrale, ossia nella rotta tra Italia e Nord Africa, è «un problema europeo che necessita di risposte europee». Ma una posizione simile era già stata espressa in altre conclusioni di Consigli europei, per esempio nel 2018, nel 2016 e nel 2009, dunque anni prima dell’insediamento del governo Meloni.

In un fact-checking specifico su questo tema abbiamo spiegato più nel dettaglio perché Meloni esagera i meriti del suo governo nel dibattito europeo sull’immigrazione.

Che cosa dice l’accordo sulla riforma del Regolamento di Dublino

«Proponevano che gli Stati che dovessero rifiutare i ricollocamenti dei migranti pagassero quelli che dovevano ricollocare i migranti […]. Quello che abbiamo chiesto e ottenuto è che quelle risorse alimentino, invece, un fondo per difendere i confini esterni, non per gestire l’immigrazione illegale, ma per contrastarla»

Con queste parole Meloni ha commentato l’accordo raggiunto l’8 giugno dai ministri dell’Interno dei 27 Paesi Ue, riuniti nel Consiglio dell’Ue, sulla riforma del Regolamento di Dublino. Il regolamento di Dublino III, entrato in vigore nel 2014, stabilisce il modo in cui va individuato lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri dell’Unione europea. Una delle norme di questo regolamento che penalizza di più l’Italia è il criterio del cosiddetto “primo ingresso”: salvo alcune eccezioni, generalmente lo Stato competente per l’esame di una richiesta di asilo è quello in cui il richiedente asilo ha varcato per la prima volta la frontiera. 

Tra le altre cose, spiega il sito del Consiglio dell’Ue, l’accordo raggiunto contiene un «nuovo meccanismo di solidarietà» tra i Paesi europei. Questo meccanismo non prevede il ricollocamento automatico e obbligatorio dei richiedenti asilo tra i Paesi con un maggior flusso di migranti a quelli con flussi minori. Ma prevede che vi sia un numero minimo di ricollocamenti da fare ogni anno: gli Stati che non vogliono partecipare a questi ricollocamenti possono pagare una cifra di almeno 20 mila euro per ogni richiedente non accettato. Dunque, a differenza di quanto detto da Meloni, con la nuova intesa i governi europei potranno decidere di pagare una cifra per ogni richiedente che decideranno di non accogliere.

Il testo ufficiale dell’accordo, che in alcune parti deve essere ancora definito, prevede comunque che i contributi finanziari possano essere utilizzati per la gestione delle frontiere esterne su richiesta dello Stato beneficiario (nel nostro caso l’Italia). La strada per l’approvazione della riforma è ancora lunga visto che dovranno iniziare i negoziati tra il Consiglio dell’Ue e il Parlamento europeo.

Il caso Rackete a Lampedusa

«[…] arrivando perfino a legittimare chi sperona le navi dello Stato italiano […]»

Questa frase è stata pronunciata dalla presidente del Consiglio nel passaggio del suo discorso con cui ha criticato la gestione dell’immigrazione dei governi precedenti. Il riferimento è con tutta probabilità a quanto avvenuto il 26 giugno 2019 nel porto di Lampedusa, quando la nave Ong Sea Watch 3 guidata dalla comandante Carola Rackete ha urtato una nave della Guardia di finanza, nonostante il divieto di ingresso in acque territoriali. All’epoca il governo era guidato da Giuseppe Conte, con il sostegno del Movimento 5 Stelle e della Lega, il cui leader Matteo Salvini era ministro dell’Interno. Al di là del giudizio di Meloni sulle politiche dei governi passati, parlare di «speronamento» è scorretto sulla base delle sentenze pronunciate negli scorsi anni.
A dicembre 2021 il Giudice per le indagini preliminari (Gip) di Agrigento ha archiviato il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” nei confronti di Rackete. Secondo il giudice, la comandante della nave Ong «ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare». In parole semplici il dovere di portare i naufraghi nel porto sicuro più vicino, previsto dal diritto italiano e internazionale, ha giustificato le azioni di Rackete.

Per quanto riguarda lo «speronamento» il reato ipotizzato da parte dei pubblici ministeri era stato quello di “resistenza e violenza contro nave da guerra”, disciplinato dal codice della navigazione. Il 29 giugno 2019 Rackete era stata arrestata appena aveva messo piede a terra, ma il Gip di Agrigento non aveva convalidato l’arresto. Il pubblico ministero che aveva formulato le accuse aveva fatto ricorso contro la decisione del Gip, ma a gennaio 2020 la Corte di Cassazione gli ha dato torto.

Secondo la Cassazione il Gip aveva ragione nel ritenere che alla nave della Guardia di finanza non si potesse applicare la qualifica di “nave da guerra” e dunque non si potesse configurare il reato di “resistenza e violenza contro nave da guerra”. Secondo la giurisprudenza costituzionale, le navi della Guardia di finanza possono essere considerate navi militari solo se «operano fuori delle acque territoriali» oppure «in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare». Considerato che la Sea Watch 3 si trovava nel porto di Lampedusa quando ha urtato la nave della Guardia di finanza, per la Cassazione i pubblici ministeri hanno sbagliato a qualificare il reato come “resistenza e violenza contro nave da guerra”.

Da un punto di vista giudiziario la questione dello “speronamento” si è conclusa con la decisione della Cassazione sopra riportata. Ma se la condotta di Rackete non è stata una violenza contro una nave da guerra, non poteva essere qualificata comunque come uno «speronamento»? Nel codice della navigazione sono presenti altri reati, come quello di danneggiamento di una nave. Ma né il giudice né i pubblici ministeri avevano deciso di riqualificare la condotta di Rackete in altro modo.

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