Calderoli difende il quorum che voleva eliminare

In passato il ministro della Lega proponeva di cancellare la soglia per rendere validi i voti dei referendum, ma oggi contesta chi chiede la stessa cosa
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Il 15 giugno, in un’intervista con il Corriere della Sera, il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega) ha criticato chi ha proposto di eliminare il quorum per i referendum abrogativi, dopo che quelli su cittadinanza e lavoro non hanno raggiunto la soglia del 50 per cento più uno degli aventi diritto di voto.

«Il raggiungimento del quorum e la vittoria dei Sì rappresentano comunque una maggioranza relativa. E dunque, dato che la democrazia rappresentativa prevede che siano le camere ad approvare le leggi a maggioranza e con numero legale, abbassando il quorum avremmo l’effetto paradossale che una legge approvata secondo Costituzione potrebbe venire modificata o abrogata da una minoranza del Paese. Una minoranza che detta le leggi a una maggioranza eletta», ha dichiarato Calderoli.

Non entriamo nel merito dell’opinione politica del ministro, legittima. Va però fatto notare che fino a pochi anni fa lo stesso Calderoli era tra coloro che proponevano l’abolizione del quorum per i referendum abrogativi.

La giravolta di Calderoli

Durante la scorsa legislatura, il 22 giugno 2018, Calderoli – all’epoca senatore – presentò in Senato un disegno di legge intitolato “Modifica dell’articolo 75 della Costituzione, in materia di validità dei referendum”. L’articolo 75 è quello che stabilisce il quorum per i referendum abrogativi. «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi», si legge in uno dei suoi commi.

Con la sua proposta, Calderoli chiedeva di modificare quel passaggio, sostituendolo con: «La proposta soggetta a referendum è approvata se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi». In sostanza, proponeva di eliminare il quorum.

Il disegno di legge era accompagnato da un breve testo introduttivo in cui si sottolineava il calo della partecipazione elettorale in Italia. «Se per i nostri padri costituenti la non partecipazione al voto in occasione di una campagna referendaria poteva rappresentare una scelta politica e un’espressione della volontà popolare, attualmente non possiamo ritenerla tale. Al contrario, oggi più che mai è necessario mettere in moto dei meccanismi virtuosi che facciano sentire i cittadini partecipi nei processi decisionali, in primo luogo attraverso l’espressione del voto», scriveva Calderoli.

Secondo il futuro ministro del governo Meloni, una delle soluzioni era proprio eliminare il quorum. «Il quorum necessario per la validità, combinato all’alto livello di astensionismo che si registra nelle tornate elettorali, si traduce nei fatti nella vanificazione di uno strumento di espressione popolare importantissimo, come quello del referendum», proseguiva Calderoli. «I cittadini chiamati ad esprimersi sul quesito referendario devono essere consapevoli dell’importanza del loro voto e questo è possibile solo portandoli nelle urne e non cavalcando l’onda dell’astensionismo».

La proposta non ebbe seguito: fu ritirata a marzo 2019.

Gli altri precedenti

Calderoli non è l’unico ministro dell’attuale governo Meloni ad aver sostenuto in passato la modifica del quorum.

Nel 1999, da deputato di Alleanza Nazionale, l’attuale ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso firmò una proposta di legge – insieme al leader del partito Gianfranco Fini e a Maurizio Gasparri, oggi capogruppo di Forza Italia in Senato – per eliminare il quorum.

Nel 2009, anche Gilberto Pichetto Fratin – oggi ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica – quando era senatore del Popolo della Libertà, propose di modificare il quorum insieme ad altri colleghi di partito. La sua proposta prevedeva che un referendum fosse valido se al voto avesse partecipato almeno la metà degli elettori delle ultime elezioni politiche, e se i Sì avessero rappresentato almeno un quarto degli aventi diritto complessivi. In più, chiedeva di raddoppiare da 500 mila a un milione le firme necessarie per promuovere un referendum abrogativo.

Entrambe le proposte – quella di Urso e quella di Pichetto Fratin – non furono approvate.

La questione delle firme

Sempre nell’intervista con il Corriere della Sera, Calderoli ha criticato anche la possibilità di raccogliere digitalmente le 500 mila firme necessarie per presentare un referendum. «Per me non si possono raccogliere le firme in questo modo. Se devi presentarti per votare, allora devi presentarti anche per le firme. Io sarei per sospendere questa raccolta delle firme attraverso la piattaforma digitale», ha detto il ministro. 

Calderoli si è poi detto contrario alla proposta – avanzata da altri – di alzare a un milione il numero di firme necessarie per un referendum. «Francamente, significa non capire il problema», ha commentato. Secondo lui, il problema non è la quantità, ma il metodo di raccolta delle firme. «Oggi, attraverso gli strumenti digitali puoi chiedere qualunque milione di firme, ma non sarà sufficiente», ha aggiunto. «Per questa strada, anche con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, posso provare a portare 10 milioni di firme».

Non è chiaro in che modo l’intelligenza artificiale possa essere utile a raccogliere così tante firme, pari a quasi un quarto degli aventi diritto di voto in Italia. Vale comunque la pena ricordare che ad agosto 2024 Calderoli sembrava avere un’opinione diversa su questo tema.

«Forse andrebbero ripensate anche le soglie minime delle adesioni per avviare referendum», aveva detto in un’intervista con Il Sole 24 Ore, mostrando allora un’apertura verso una revisione del numero di firme, che oggi invece critica.
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