I fatti dietro la promessa: l’aumento delle spese militari e Azione-Italia viva

Per rispettare l’impegno, non vincolante, con la Nato, entro il 2025 il nostro Paese dovrebbe aumentare le risorse in difesa di circa 8 miliardi di euro. Ma le coperture economiche scarseggiano
ANSA
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L’8 settembre il leader di Azione Carlo Calenda ha rilanciato sui social una proposta dell’alleanza del suo partito con Italia viva di Matteo Renzi, in vista delle elezioni del 25 settembre. Secondo Calenda, a oggi la spesa militare dell’Italia ha un valore pari a circa l’1,5 per cento del Pil. «Per raggiungere il target Nato del 2 per cento entro il 2025, dobbiamo aumentarla di 2,6 miliardi l’anno», ha scritto su Twitter Calenda, ribadendo quanto previsto dal programma elettorale di Azione e Italia viva. 

Numeri e fatti alla mano, ecco che cosa torna, e cosa no, in questa proposta, contenuta anche nei programmi dei partiti della coalizione di centrodestra.

Le spese militari dell’Italia

Secondo le stime più aggiornate della Nato, pubblicate alla fine di giugno 2022, quest’anno la spesa militare italiana ammonterà a 28,8 miliardi di euro, in leggera crescita rispetto ai 28 miliardi di euro del 2021. Nel 2018, anno di inizio dell’attuale legislatura, questa cifra era stata pari a 21,7 miliardi di euro, scendendo nel 2019 e salendo nel 2020 a 24,4 miliardi di euro. 

In base alle stime dell’alleanza militare che raggruppa 30 Paesi nel mondo, quest’anno l’Italia spenderà in difesa una cifra pari all’1,54 per cento del Pil, una percentuale correttamente indicata da Calenda e dal programma di Azione-Italia viva. 

Per portare la spesa militare all’obiettivo del 2 per cento del Pil fissato dalla Nato (su questo obiettivo ci torneremo meglio tra poco), il nostro Paese dovrebbe dunque spendere annualmente in difesa, con un calcolo spannometrico, poco più di 37 miliardi di euro: circa 8,5 miliardi di euro in più l’anno rispetto a quanto speso attualmente (per avere un ordine di grandezza, si tratta di una cifra pari più o meno al costo annuale del reddito di cittadinanza). Nei tre anni tra il 2023 e il 2025, significherebbe aumentare le spese militari di circa 2,8 miliardi di euro, cifra in linea con quella citata da Calenda e dal programma di Azione-Italia viva.

“Ce lo chiede la Nato?”

Il riferimento al 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari è comparso per la prima volta nel 2006, nel corso di una conferenza stampa al margine del vertice Nato di Riga, in Lettonia. In quell’occasione, per la prima volta, i ministri della Difesa dei Paesi membri della Nato hanno espresso la volontà di destinare il 2 per cento del Pil alle spese militari, anche se all’epoca un portavoce dell’alleanza aveva precisato che non si trattava di «un impegno formale​​», ma della «decisione di lavorare a questo obiettivo». 

Nel settembre 2014, dopo l’annessione illegittima della Crimea da parte della Russia, al summit di Newport, in Galles, i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato hanno poi formalizzato quanto deciso otto anni prima. Nella dichiarazione conclusiva dell’evento si legge che tutti gli alleati che spendevano meno del 2 per del Pil in ambito militare, tra cui anche l’Italia, avrebbero dovuto evitare ogni ulteriore riduzione per questa voce di spesa, e anzi avrebbero dovuto aumentare il budget seguendo le direttive Nato, in modo da raggiungere la soglia del 2 per cento entro i successivi dieci anni (quindi entro il 2024). 

Secondo le stime della Nato, nel 2022 dieci Paesi su 30 spendono già quanto stabilito. L’Italia è diciannovesima su trenta per livello di spesa militare. Anche gli altri tre grandi Paesi dell’Unione europea – Francia (1,9 per cento), Germania (1,44 per cento) e Spagna (1,01 per cento) – al momento non raggiungono la percentuale del 2 per cento.
Grafico 1. Quanti Paesi rispettano l’impegno della spesa in difesa pari al 2 per cento del Pil – Fonte: Nato
Grafico 1. Quanti Paesi rispettano l’impegno della spesa in difesa pari al 2 per cento del Pil – Fonte: Nato
Come sottolineato nel 2015 da Jan Techau, all’epoca direttore di Carnegie Europe (un centro studi specializzato nella politica estera europea) ed ex ricercatore della Nato, il parametro del 2 per cento è stato deciso in maniera piuttosto arbitraria, anche se effettivamente il rispetto di questa soglia minima permetterebbe all’alleanza e ai suoi Paesi membri di colmare parte delle loro lacune militari. Secondo Techau, questo parametro si limita a misurare le risorse finanziarie immesse in operazioni che hanno a che fare con la difesa, ma non considera le conseguenze pratiche di queste spese, non permettendo dunque di valutare le reali capacità militari di un Paese.

In ogni caso, va sottolineato che, nonostante il livello di spesa minimo sia stato formalizzato dai leader dei Paesi Nato (e confermato in Italia dai presidenti del Consiglio Matteo Renzi, Giuseppe Conte e Mario Draghi), questo non rappresenta un impegno legalmente vincolante. Al momento non sono previste conseguenze o sanzioni specifiche per chi non dovesse rispettarlo. Il sito della Nato spiega che la decisione è stata presa per «assicurare la prontezza militare della Nato», e la soglia rappresenta un «indicatore della volontà politica dei diversi Paesi di contribuire agli sforzi comuni di difesa», dato che le capacità militari di ogni membro si riflettono poi sulla «percezione complessiva della credibilità dell’alleanza come organizzazione politico-militare».

Inoltre, la dichiarazione sottoscritta a Newport contiene anche un’altra indicazione importante. Della spesa pari almeno al 2 per cento del Pil teoricamente destinata alla difesa, almeno il 20 per cento dovrebbe essere indirizzato in particolare a investimenti per l’acquisto, ricerca e sviluppo di attrezzature militari (i cosiddetti “major equipment”).  In questo caso, l’Italia ha raggiunto l’obiettivo: nel 2022 destinerà agli investimenti circa il 22,7 per cento del budget in difesa.

Il problema delle coperture

Nel capitolo dedicato alla “Difesa” il programma di Azione e Italia viva si limita a dire che bisogna «incrementare il budget per la spesa in difesa e raggiungere il target del 2 per cento entro il 2025». «Attualmente la spesa militare ammonta a circa l’1,5 per cento del Pil italiano, al di sotto degli accordi presi nell’ambito della Nato che prevedono un target del 2 per cento. Per raggiungere tale obiettivo entro il 2025, dobbiamo aumentare la spesa militare di 2,6 miliardi l’anno», si legge nel programma, che, come abbiamo visto, cita dati sostanzialmente corretti.

Uno dei limiti di questa proposta è che il programma non spiega con precisione dove saranno trovate le risorse per aumentare le spese militari italiane, che dovranno essere alzate di 2,8 miliardi di euro ogni anno fino al 2025, se si vorranno rispettare gli impegni con la Nato (più in generale, le scarse coperture finanziarie sono un problema che riguarda tutti i programmi dei principali partiti alle elezioni). 

L’ultima pagina del programma di Azione e Italia viva è dedicato al «reperimento delle risorse necessarie a finanziare gli interventi». «Per finanziare le misure contenute in questo programma proponiamo due principali direttrici di azione», spiegano i due partiti. La prima fonte è la lotta all’evasione fiscale, la seconda è il taglio della spesa in acquisti della pubblica amministrazione. Il programma prevede però oltre 90 interventi che richiederebbero una maggiore spesa dello Stato: dal programma di Azione e Italia viva non è chiaro quante risorse si potrebbero recuperare dall’evasione fiscale e quante dalla riduzione della spesa della pubblica amministrazione. E soprattutto non è chiaro, visto che mancano le cifre precise, quante delle promesse in spesa sarebbero coperte.

Anche il programma elettorale della coalizione di centrodestra, e i due specifici di Fratelli d’Italia e di Forza Italia, promettono di rispettare l’impegno con la Nato sulle spese militari, senza dire dove prenderanno i soldi per alzare le spese militari.

A marzo 2022 il presidente del Consiglio Draghi ha annunciato che la maggioranza dei partiti che lo sostenevano aveva raggiunto un accordo per portare la spesa militare dell’Italia al 2 per cento del Pil entro il 2028, tre anni dopo l’anno indicato da Azione e Italia viva.

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