Anche in Italia omicron è più lieve, dicono i dati

Ansa
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A inizio gennaio la variante omicron era quella più diffusa in Italia: secondo l’Istituto superiore di sanità (Iss), circa l’80 per cento dei nuovi contagi era infatti riconducibile a questa variante. Meno di un mese prima, questa percentuale era soltanto allo 0,2 per cento, segno che la variante omicron è parecchio contagiosa, più di quelle precedenti.

Da settimane diverse ricerche in giro per il mondo hanno però mostrato che la variante omicron sembra causare sintomi meno gravi delle varianti precedenti. I dati italiani sui ricoveri in ospedale vanno in questa direzione? In breve, la risposta è sì. Ma una variante molto contagiosa, nonostante i sintomi più lievi, rischia lo stesso di mettere sotto pressione il sistema ospedaliero.

Che cosa sta succedendo in Italia

Per analizzare l’andamento dei casi gravi nel nostro Paese, è meglio utilizzare i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), resi pubblicamente disponibili dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). I numeri diffusi ogni giorno dalla Protezione civile non sono infatti abbastanza dettagliati e hanno diversi limiti.

Come mostra il grafico sottostante, tra l’ultima settimana di novembre e l’ultima settimana di dicembre c’è stato un forte calo del numero di persone che una volta contagiate hanno avuto bisogno di essere ricoverate in ospedale (il cosiddetto “tasso di ricovero”). Tra il 27 dicembre e il 2 gennaio, infatti, la percentuale di ricoverati tra gli over 50 – la fascia di popolazione più a rischio, una volta contratta la malattia – è stata la metà di quella registrata tra il 22 e il 29 novembre. Nella fascia tra i 60 e i 69 anni e in quella tra i 70 e i 79 anni il calo è stato del 60 per cento e in quella tra i 50 e i 59 anni del 70 per cento. Tra gli over 80 la riduzione è stata del 50 per cento.
Sottolineiamo che il tasso di ricovero è influenzato dal numero di contagi che si riescono a individuare, essendo un rapporto tra ricoverati e contagiati diagnosticati. Il forte aumento del numero dei test fatti a dicembre potrebbe aver avuto un ruolo nel far calare i tassi di ricovero. Ma parallelamente va considerato che i tassi di positività dei test (ossia il rapporto tra positivi trovati e test fatti) sono cresciuti parecchio. A parità di test fatti si trovano più positivi, segno che non riusciamo a stare dietro al reale aumento dei contagi.

Non abbiamo a disposizione i tassi di positività divisi per classi di età, dunque è impossibile sapere con precisione quanto l’aumento dei casi trovati abbia contribuito al calo del tasso di ricovero. Ma diverse prove raccolte in giro per il mondo suggeriscono che questo non sia stato un fattore determinante.

Le prove dal mondo

Il 12 gennaio nel Regno Unito è uscito il rapporto più aggiornato della Uk Health Security Agency (Ukhsa), l’agenzia governative inglese che si occupa delle malattie infettive, sulla valutazione del rischio della variante omicron. Secondo i ricercatori britannici, questa variante si diffonde molto velocemente ed è in grado di infettare di più anche le persone con una certa protezione immunitaria. Il tutto, però, causando forme meno gravi della malattia.

Un precedente rapporto del 23 dicembre evidenziava che il rischio di finire in ospedale, una volta contagiati con omicron, era pari a circa i due quinti del rischio legato alla variante delta. Il 22 dicembre l’Imperial College (un’università britannica con sede a Londra) aveva invece concluso che il rischio di ospedalizzazione della variante omicron era tra il 15 e il 25 per cento più basso rispetto a quello della variante delta e che il rischio di ospedalizzazione con più di un giorno di degenza si riduceva tra il 40 e il 49 per cento.

Evidenze simili sono state raccolte anche in Francia, in Canada e in Sudafrica. I dati dell’Assistance Publique-Hôpitaux de Paris (il consorzio pubblico degli ospedali parigini) mostrano che i pazienti contagiati dalla variante omicron hanno forme meno gravi di Covid-19, rispetto a quelli contagiati con la variante delta. La probabilità di aver bisogno della terapia intensiva è infatti tre volte più alta tra i pazienti infettati dalla variante delta rispetto a quelli infettati dalla variante omicron. Inoltre, i pazienti che sono stati ricoverati in ospedale un solo giorno sono il 43 per cento con la variante omicron e il 19 per cento con la variante delta.

Uno studio condotto in Ontario, in Canada, su 11 mila casi ha invece evidenziato che con la variante omicron il rischio di ospedalizzazione sia del 65 per cento più basso rispetto a quello della variante delta e che la gravità della malattia si riduce sia per i vaccinati che per i non vaccinati. Una ricerca condotta negli ospedali di Gauteng, in Sudafrica (il primo paese colpito dalla variante omicron), ha rilevato che il rischio di ospedalizzazione durante l’ondata causata da omicron sia diminuita del 73 per cento rispetto al passato.

Oltre al minor rischio di essere ospedalizzati, chi veniva ricoverato aveva in media un rischio più basso di aver bisogno di ossigeno e una permanenza in ospedale pari alla metà di quella che si aveva con la variante delta: quattro giorni rispetto a otto.

I sintomi sono diversi?

Con la variante omicron sembrano in parte essere cambiati anche i sintomi più comuni tra i contagiati. Una ricerca dell’Università di Oxford e dell’Office for national statistics (l’equivalente britannico della nostra Istat) ha infatti analizzato come sono cambiati i sintomi tra la diffusione della variante delta e la diffusione della variante omicron. Con la variante omicron sembra essere aumentata la probabilità di avere mal di gola, mentre si sono ridotti i casi con perdita di gusto e olfatto, uno dei sintomi tipici della Covid-19. In più i dati suggeriscono, anche se con meno certezza, che sono aumentati i casi di tosse e febbre e calati quelli con perdita di appetito, difficoltà di respirare o avere il naso che cola.

Nonostante questi segnali incoraggianti, la variante omicron rimane una grave minaccia per gli ospedali.

Gli ospedali sono ancora a rischio

Una variante che causa forme meno gravi della Covid-19, ma che si diffonde molto più velocemente, rischia ancora di sovraccaricare i sistemi sanitari.

Anche se una volta contagiati cala la probabilità di essere ricoverati in ospedale, quando i casi crescono molto velocemente, aumenta complessivamente il numero di persone che hanno bisogno di cure ospedaliere o del ricovero in terapia intensiva. In Italia, per esempio, si è passati da meno di 60 ricoveri giornalieri in terapia intensiva registrati a fine dicembre ai circa 150 registrati a inizio gennaio. Nel mentre, i ricoveri negli altri reparti sono passati da meno di 500 al giorno a circa 1.400.

Sebbene in Italia all’aumentare dei contagi, come abbiamo visto, non si è registrato un equivalente aumento dei ricoveri, in altri Paesi le cose vanno diversamente. Per esempio, negli Stati Uniti – dove la variante omicron è la più diffusa da settimane – il numero di ospedalizzati ha già superato il livello più alto raggiunto da inizio pandemia.

In conclusione

È molto probabile che la variante omicron causi forme meno gravi di Covid-19. Non è ancora chiaro quanto misuri questa riduzione, ma potrebbe essere superiore al 50 per cento rispetto alla variante delta. Anche in Italia si è assistito a un’importante riduzione dei tassi di ricovero.

Il calo della gravità è associato a un minor ricorso alla terapia intensiva e a una minore degenza in ospedale, cosa che comporta che a parità di ingressi in ospedale si ha meno pressione sui sistemi sanitari che in passato.

Allo stesso tempo l’elevata trasmissibilità della variante è in grado di mettere sotto pressione gli ospedali perché quando c’è un forte aumento dei casi c’è anche una crescita di quelli gravi, seppur in misura minore che in passato.

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