Il 24 ottobre, presentando il nuovo Dpcm, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha difeso (min. 14:50) dalle critiche il sistema italiano di tracciamento dei contatti dei nuovi positivi al coronavirus. Secondo Conte, infatti, questo sistema «funziona bene», sebbene messo in difficoltà dalla forte crescita dei contagi e, di conseguenza, del numero dei contatti da individuare e isolare.
In realtà l’ottimismo del presidente del Consiglio non sembra per nulla essere supportato né dai numeri né dalle ricostruzioni giornalistiche pubblicate negli ultimi giorni. Nel nostro Paese i casi di coronavirus di cui non si conosce l’origine del contagio sono in continua crescita – segno che da settimane il tracciamento non riesce a stare al passo dell’epidemia – e anche Immuni, l’app di contact tracing in funzione da alcuni mesi, ha molti problemi.
Quanto è essenziale il tracciamento dei contatti
Come spiegava a giugno l’Istituto superiore di sanità (Iss), la ricerca e la gestione dei contatti «è una componente chiave delle strategie di prevenzione e controllo del Covid-19»: se si individua per tempo chi ha avuto contatti con un contagiato, è possibile isolarlo, monitorarne l’eventuale insorgenza di sintomi e interrompere così una potenziale catena di trasmissione del contagio.
Il tracciamento dei contatti sembra un procedimento semplice, ma nei fatti è un lavoro complicato e dispendioso, in termini di tempo e di risorse. Intervistare un positivo al coronavirus, se fatto «bene» e nel rispetto delle linee guida dell’Iss, è un lavoro lungo, dal momento che bisogna ricostruire nel dettaglio le attività del contagiato durante il periodo in cui era già contagioso e ha incontrato altre persone, ignaro della sua positività.
In seguito è necessario rintracciare e intervistare i contatti del contagiato: più aumentano i nuovi casi, dunque, più saranno le persone da tracciare. Se un sistema non funziona «bene», non sarà in grado di stare al passo della crescita dell’epidemia (al netto che se un sistema avesse funzionato davvero «bene», come hanno sottolineato alcuni esperti, molto probabilmente avremmo potuto contenere meglio l’aumento dei casi).
In generale c’è poca trasparenza sull’attività di contact tracing nel nostro Paese: ad oggi, per esempio, non è chiaro quante siano in Italia le persone che hanno il compito di fare il tracciamento dei contatti (i cosiddetti contact tracer). Secondo i dati contenuti in un report riservato del Ministero della Salute – ma divulgati il 16 ottobre da Il Sole 24 Ore – nel nostro Paese ci sarebbero circa 9.600 contact tracer, con forti differenze a seconda delle regioni. Per esempio, in Veneto ci sarebbero quasi tre tracciatori ogni 10 mila abitanti; in Lombardia e Campania poco più di uno.
Il 24 ottobre il governo ha pubblicato un bando straordinario per assumere circa 1.500 unità di personale medico sanitario per potenziare il sistema di tracciamento. Un intervento considerato da alcuni come un tentativo di colmare in ritardo una lacuna, quando ormai la situazione è andata fuori controllo.
Ma che cosa dicono i numeri sull’efficacia del contact tracing nel nostro Paese?
Il continuo aumento dei casi senza un’origine nota
Chiariamo subito che non esiste un singolo indicatore in grado di dirci quanto stia funzionando «bene» – per usare le parole di Conte – il nostro sistema di tracciamento dei contatti. I numeri mostrano però innegabilmente che le cose, da diverso tempo, si sono messe parecchio male. Lo confermano infatti i dati del monitoraggio settimanale del Ministero della Salute: il report integrale è riservato, ma ogni settimana il Ministero pubblica sul suo sito i numeri principali.
Secondo i dati più aggiornati, relativi alla settimana dal 12 al 18 ottobre, il numero dei nuovi focolai è calato dopo undici settimane di crescita: sembra una buona notizia, ma in realtà non lo è. Come spiega il Ministero della Salute, infatti, «questa diminuzione è probabilmente dovuta al forte aumento di casi per cui i servizi territoriali non hanno potuto individuare un link epidemiologico».
Dal 12 al 18 ottobre scorsi, il 43,5 per cento del totale dei casi notificati non era infatti associato a catene di trasmissione note: in pratica, di quasi un nuovo contagiato su due non si conosce l’origine del contagio, segno che il sistema di tracciamento dei contatti non sta funzionando come dovrebbe (e stiamo parlando di dati ormai “vecchi” di una decina di giorni). Nel complesso, tra il 12 e il 18 ottobre erano oltre 23 mila i casi non associati a catene di trasmissione note: dal 5 all’11 ottobre erano circa 9.300 (poco meno della metà), che all’epoca corrispondevano al 33 per cento di tutti i casi segnalati in quel periodo.
Anche nella settimana ancora prima, tra il 28 settembre e il 4 ottobre, il report segnalava che continuava «ad aumentare il numero di nuovi casi fuori delle catene di trasmissione»; discorso analogo valeva anche per la settimana dal 21 al 27 settembre.
Anche il tasso di positività dei tamponi – ossia il rapporto tra il numero dei nuovi positivi e quello dei tamponi effettuati – continua a crescere da settimane, attestandosi negli ultimi giorni intorno a una media del 14 per cento a livello nazionale (Grafico 1). Il livello di allerta, oltre il quale un’epidemia è di fatto fuori controllo e non gestibile con il tracciamento dei contatti, è tra il 3 e il 5 per cento.
In realtà l’ottimismo del presidente del Consiglio non sembra per nulla essere supportato né dai numeri né dalle ricostruzioni giornalistiche pubblicate negli ultimi giorni. Nel nostro Paese i casi di coronavirus di cui non si conosce l’origine del contagio sono in continua crescita – segno che da settimane il tracciamento non riesce a stare al passo dell’epidemia – e anche Immuni, l’app di contact tracing in funzione da alcuni mesi, ha molti problemi.
Quanto è essenziale il tracciamento dei contatti
Come spiegava a giugno l’Istituto superiore di sanità (Iss), la ricerca e la gestione dei contatti «è una componente chiave delle strategie di prevenzione e controllo del Covid-19»: se si individua per tempo chi ha avuto contatti con un contagiato, è possibile isolarlo, monitorarne l’eventuale insorgenza di sintomi e interrompere così una potenziale catena di trasmissione del contagio.
Il tracciamento dei contatti sembra un procedimento semplice, ma nei fatti è un lavoro complicato e dispendioso, in termini di tempo e di risorse. Intervistare un positivo al coronavirus, se fatto «bene» e nel rispetto delle linee guida dell’Iss, è un lavoro lungo, dal momento che bisogna ricostruire nel dettaglio le attività del contagiato durante il periodo in cui era già contagioso e ha incontrato altre persone, ignaro della sua positività.
In seguito è necessario rintracciare e intervistare i contatti del contagiato: più aumentano i nuovi casi, dunque, più saranno le persone da tracciare. Se un sistema non funziona «bene», non sarà in grado di stare al passo della crescita dell’epidemia (al netto che se un sistema avesse funzionato davvero «bene», come hanno sottolineato alcuni esperti, molto probabilmente avremmo potuto contenere meglio l’aumento dei casi).
In generale c’è poca trasparenza sull’attività di contact tracing nel nostro Paese: ad oggi, per esempio, non è chiaro quante siano in Italia le persone che hanno il compito di fare il tracciamento dei contatti (i cosiddetti contact tracer). Secondo i dati contenuti in un report riservato del Ministero della Salute – ma divulgati il 16 ottobre da Il Sole 24 Ore – nel nostro Paese ci sarebbero circa 9.600 contact tracer, con forti differenze a seconda delle regioni. Per esempio, in Veneto ci sarebbero quasi tre tracciatori ogni 10 mila abitanti; in Lombardia e Campania poco più di uno.
Il 24 ottobre il governo ha pubblicato un bando straordinario per assumere circa 1.500 unità di personale medico sanitario per potenziare il sistema di tracciamento. Un intervento considerato da alcuni come un tentativo di colmare in ritardo una lacuna, quando ormai la situazione è andata fuori controllo.
Ma che cosa dicono i numeri sull’efficacia del contact tracing nel nostro Paese?
Il continuo aumento dei casi senza un’origine nota
Chiariamo subito che non esiste un singolo indicatore in grado di dirci quanto stia funzionando «bene» – per usare le parole di Conte – il nostro sistema di tracciamento dei contatti. I numeri mostrano però innegabilmente che le cose, da diverso tempo, si sono messe parecchio male. Lo confermano infatti i dati del monitoraggio settimanale del Ministero della Salute: il report integrale è riservato, ma ogni settimana il Ministero pubblica sul suo sito i numeri principali.
Secondo i dati più aggiornati, relativi alla settimana dal 12 al 18 ottobre, il numero dei nuovi focolai è calato dopo undici settimane di crescita: sembra una buona notizia, ma in realtà non lo è. Come spiega il Ministero della Salute, infatti, «questa diminuzione è probabilmente dovuta al forte aumento di casi per cui i servizi territoriali non hanno potuto individuare un link epidemiologico».
Dal 12 al 18 ottobre scorsi, il 43,5 per cento del totale dei casi notificati non era infatti associato a catene di trasmissione note: in pratica, di quasi un nuovo contagiato su due non si conosce l’origine del contagio, segno che il sistema di tracciamento dei contatti non sta funzionando come dovrebbe (e stiamo parlando di dati ormai “vecchi” di una decina di giorni). Nel complesso, tra il 12 e il 18 ottobre erano oltre 23 mila i casi non associati a catene di trasmissione note: dal 5 all’11 ottobre erano circa 9.300 (poco meno della metà), che all’epoca corrispondevano al 33 per cento di tutti i casi segnalati in quel periodo.
Anche nella settimana ancora prima, tra il 28 settembre e il 4 ottobre, il report segnalava che continuava «ad aumentare il numero di nuovi casi fuori delle catene di trasmissione»; discorso analogo valeva anche per la settimana dal 21 al 27 settembre.
Anche il tasso di positività dei tamponi – ossia il rapporto tra il numero dei nuovi positivi e quello dei tamponi effettuati – continua a crescere da settimane, attestandosi negli ultimi giorni intorno a una media del 14 per cento a livello nazionale (Grafico 1). Il livello di allerta, oltre il quale un’epidemia è di fatto fuori controllo e non gestibile con il tracciamento dei contatti, è tra il 3 e il 5 per cento.