Il 18 settembre, Emanuela Del Re ha rilasciato all’Huffington Post la sua prima intervista da viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.



Del Re – prima della nomina, ricercatrice e docente presso l’Università “Nicolò Cusano”, ateneo telematico con sede a Roma – ha suggerito una maggiore cooperazione con i Paesi africani come potenziale soluzione al problema dei migranti. Nel farlo, ha sottolineato come nei progetti di sviluppo condiviso l’Italia ricopra già un ruolo di primo piano.



Secondo la viceministra, infatti, nel campo della cooperazione il nostro Paese è un «gigante», «il quarto nel G7 in termini di percentuale tra aiuto pubblico allo sviluppo e reddito nazionale lordo (0,30% raggiunto quest’anno con alcuni anni di anticipo rispetto a quanto previsto)». Un percorso che il governo intende continuare, per innovare la strategia dell’“aiutarli a casa loro” e creare un rapporto bidirezionale di vantaggio tra Italia e Paesi beneficiari.



Ma è vero che l’Italia è così in alto nella classifica indicata da Del Re? E la cifra citata è corretta? Verifichiamo.



Quanto spende l’Italia per la cooperazione internazionale?



Per capire quanto spende in totale l’Italia nella cooperazione, utilizziamo i dati forniti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) – che conta 36 Paesi membri, tra cui l’Italia. Dal 1961, infatti, l’Ocse fa riferimento ai contributi che gli Stati nel mondo dedicano allo sviluppo e alla crescita economica dei Paesi emergenti con l’indicatore Official development assistance (Oda). Si fa riferimento qui ai fondi destinati dagli Stati come aiuto pubblico.



Secondo i dati più aggiornati, nel 2017, l’Italia ha speso in cooperazione 5,73 miliardi di dollari (oltre 4,9 miliardi di euro). Questa cifra risulta in costante e sostanziale aumento negli ultimi anni, come viene sottolineato dalla stessa Ocse nel rapporto annuale Development Co-operation Report 2018. Nel 2016, infatti, erano stati investiti 5,09 miliardi di dollari (circa 4,3 miliardi di euro); nel 2015, 4,02 miliardi di dollari (oltre 3,4 miliardi di euro); nel 2014, 3,4 miliardi di dollari (oltre 2,9 miliardi di euro); nel 2013, 2,93 miliardi di dollari (circa 2,5 miliardi di euro).



Se guardiamo alla classifica generale e ai termini assoluti, l’Italia si piazza al quinto posto tra i Paesi che spendono di più per la cooperazione. Al primo posto ci sono gli Stati Uniti, con 35,26 miliardi di dollari (circa 30,2 miliardi di euro), seguiti dalla Germania, con 24,68 miliardi di dollari (circa 21,1 miliardi di euro), dal Giappone, con 11,48 miliardi di dollari (circa 9,8 miliardi di euro) e, infine, dalla Francia, con 11,36 miliardi di dollari (oltre 9,7 miliardi di euro).



Negli anni, la spesa in aiuto pubblico allo sviluppo da parte dell’Italia è oscillata molto. Nel 1989, per esempio, in questo settore erano stati spesi in totale 5,95 miliardi di dollari (circa 5,1 miliardi di euro).



Quanto investe in collaborazione l’Italia in rapporto alla sua ricchezza totale?



Qual è, però, la situazione dell’Italia se prendiamo in considerazione il rapporto tra soldi spesi in aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) e il reddito nazionale lordo (Rnl), un indicatore che aggiunge al Prodotto interno lordo (Pil) i redditi guadagnati all’estero da chi risiede in Italia e toglie dal Pil quelli pagati nel nostro Paese da cittadini con residenza straniera?



In questa classifica, sempre secondo i dati Ocse più aggiornati, l’Italia scende al quattordicesimo posto, con un rapporto pari allo 0,29 per cento.



Questo dato però – vicinissimo allo 0,30 per cento citato da Del Re – ci colloca in effetti al quarto posto tra i Paesi del G7 (Italia, Francia, Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Giappone e Canada).



Meglio del nostro Paese, fanno infatti Regno Unito, Germania e Francia, che hanno un rapporto Aps/Rnl rispettivamente dello 0,7 per cento, dello 0,66 per cento e dello 0,43 per cento.



A livello mondiale, al primo posto troviamo Svezia e Lussemburgo, che investono circa l’1 per cento del loro reddito lordo nazionale in aiuto pubblico allo sviluppo.



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Anche in questo caso – come in quello della spesa totale – il rapporto tra Aps e Rnl è oscillato molto negli anni. Dal 2012, anno in cui l’Italia spendeva in cooperazione lo 0,14 per cento del suo reddito nazionale lordo, questo rapporto è cresciuto. Ma, alla fine degli anni Ottanta, era superiore a quello attuale, con il picco dello 0,42 per cento raggiunto nel 1989.



L’obiettivo dello 0,30 per cento è stato però raggiunto con alcuni anni di anticipo rispetto a quanto previsto? Un focus del Documento di economia e finanza (Def) del 2017 sull’aiuto pubblico allo sviluppo indica che questo traguardo era in effetti stato fissato per il 2020. Quindi, anche se i dati parlano di uno 0,29 per cento, possiamo dire che l’obiettivo sia stato davvero conseguito un paio di anni prima, grazie all’azione del precedente esecutivo.



Del Re cita insomma correttamente il dato dello 0,30 per cento. Alla sua dichiarazione aggiungiamo alcune considerazioni, che evidenziano un quadro meno incoraggiate di quello indicato dalla viceministra.



L’Italia sta facendo abbastanza?



Nel 2005, gli allora quindici membri dell’Unione europea si erano accordati che entro il 2015 la percentuale di Aps arrivasse allo 0,7 per cento per tutti i Paesi – un obiettivo già fissato a livello internazionale a partire dal 1970 e oggi conseguito solo dal Regno Unito tra i Paesi del G7.



Nonostante il costante aumento dei soldi investiti in cooperazione negli ultimi anni, il traguardo dello 0,7 per cento sembra ancora lontano. Già nel 2015, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva denunciato questa situazione, sottolineando come l’Italia, tre anni fa, fosse all’ultimo posto del G7 in questa classifica.



Se si mantenesse stabile il tasso di incremento medio della percentuale registrato tra il 2012 e il 2016 (+0,03 per cento ogni anno), l’obiettivo dello 0,7 per cento – fissato dal precedente governo per il 2030 – sarebbe raggiunto tra circa 15 anni.



Dove vanno i soldi spesi dall’Italia?



L’Italia ha dunque scalato posizioni, ma è importante capire il perché, analizzando nello specifico dove vengono spesi gli investimenti fatti dal nostro Paese. In una nostra precedente analisi – incrociando i dati del ministero degli Affari esteri con quelli dell’Economia –, abbiamo infatti evidenziato che non tutti questi soldi cercano di “risolvere i problemi economici e politici” dei Paesi d’origine dei migranti.



Come spiega anche un recente rapporto realizzato da Openpolis in collaborazione con Oxfam Italia, «guardare con la prospettiva classica imporrebbe di dire che i Paesi europei – Italia compresa – mettono sempre più soldi in cooperazione pubblica allo sviluppo, avvicinandosi a raggiungere gli obiettivi prefissati a livello internazionale. Tuttavia se bastasse aumentare i fondi, la cooperazione allo sviluppo si esaurirebbe in una partita contabile». In realtà, bisogna guardare alla destinazione di questi fondi. Siamo sicuri che una quantità crescente non sia dirottata su altre azioni?



A causare il consistente aumento degli ultimi anni dei fondi per l’aiuto pubblico allo sviluppo sono state infatti le spese per l’accoglienza dei migranti. In sostanza, i soldi non escono dall’Italia e non raggiungono i Paesi beneficiari.



Questo avviene perché le cifre spese in cooperazione sono distribuite su molti capitoli di spesa, come dimostra questa tabella riassuntiva del 2017. Secondo il rapporto di Openpolis, nel 2015 il 24,3 per cento del totale dell’aiuto pubblico allo sviluppo era investito per l’accoglienza dei richiedenti asilo e, nel 2016, questa stessa percentuale è salita al 35 per cento.



Di conseguenza, la quota di aiuti destinata ai cosiddetti Paesi meno sviluppati (Least developed countries) è calata con il tempo, diminuendo di oltre il 70 per cento dal 2006 al 2016 per quanto riguarda i fondi destinati dall’Italia ai Paesi dell’Africa subsahariana (da oltre un miliardo di dollari a circa 300 milioni di dollari).



“Aiutarli a casa loro” è una strategia che funziona?



Infine, le parole della viceministra Del Re si inseriscono all’interno delle proposte secondo le quali un uso sempre maggiore e intelligente degli investimenti per la cooperazione e lo sviluppo può aiutare a risolvere il problema dell’immigrazione. In realtà, da anni, gli esperti dibattono sull’efficacia di questa strategia, con opinioni molto divergenti.



L’idea alla base dello slogan “aiutiamoli a casa loro” è molto semplice: se i migranti arrivano da Paesi poveri e poco sviluppati – come quelli africani –, favorirne lo sviluppo aiuterebbe a limitarne i flussi di arrivo.



Su questo punto specifico Michael Clemens, economista del Center of Global Development e uno dei massimi studiosi sul tema, ha analizzato per anni quale rapporto esiste tra sviluppo economico e migrazioni. Nelle sue ricerche, Clemens ha mostrato che più aumenta il Pil pro capite di un Paese povero, più aumentano i tassi di migrazione da quel Paese.



Questo fenomeno è spiegato dal fatto che a migrare sono soprattutto le classi medie dei Paesi emergenti. Gli investimenti in cooperazione aiutano – idealmente – ad incrementare lo sviluppo di un Paese, aumentando quindi il livello di ricchezza medio della popolazione e di conseguenza il numero dei membri delle classi medie in grado di cercare fortuna in Europa.



Solo quando il Pil pro capite di un Paese raggiunge una determinata soglia – stimata da alcuni studi tra gli 8 mila e i 10 mila dollari (tra i 6.800 euro e gli 8.500 euro) – il tasso di emigrazione riprende a diminuire. Secondo Clemens, con le percentuali di crescita attuali, i Paesi più poveri riusciranno a raggiungere questa soglia soltanto nel 2198. Se gli aiuti stranieri dovessero aumentare, fino a raddoppiare, questa data arriverebbe prima, nel 2097.



Il verdetto



La viceministra agli Affari esteri Emanuela Del Re ha dichiarato che il nostro Paese è il quarto tra quelli membri del G7 in termini di percentuale tra aiuto pubblico allo sviluppo e reddito nazionale lordo. In particolare, l’esponente del Movimento Cinque Stelle ha affermato che quest’anno, in anticipo rispetto a quanto previsto, è stato raggiunto il 0,30 per cento.



Emanuela Del Re ha ragione quando dice che l’Italia è il quarto Paese nel G7 in termini di percentuale tra spesa in aiuto pubblico allo sviluppo e reddito nazionale lordo, e la percentuale che cita è corretta. È vero poi che l’Italia ha aumentato i fondi per la cooperazione (ma questo è avvenuto a causa della crisi dei migranti: sempre più investimenti “rimangono” nel nostro Paese, destinati per l’accoglienza dei richiedenti asilo). I dati citati sono comunque corretti, al di là di altre considerazioni: “Vero” per la viceministra.





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2018-09-21 15:16:27 UTC









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Vero




«L’Italia è il quarto Paese nel G7 in termini di percentuale tra aiuto pubblico allo sviluppo e reddito nazionale lordo (0,30% raggiunto quest’anno con alcuni anni di anticipo rispetto a quanto previsto)»







Emanuela Del Re


Viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale



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Intervista Huffington Post



martedì 18 settembre 2018



2018-09-18





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