Con l’emergenza coronavirus uno dei temi di maggiore dibattito nel nostro Paese è stato il ricorso allo smart working, un termine che come ha spiegato la Treccani può avere «mille significati», ma che in sostanza fa riferimento alla possibilità di lavorare da remoto invece che dal posto di lavoro tradizionale (uffici e via dicendo).
Abbiamo analizzato i dati e le analisi degli esperti per tracciare un quadro dello smart working (o “lavoro agile”) in Italia, alla luce di quanto successo negli ultimi mesi di epidemia.
Lo smart working durante il lockdown secondo i dati Istat
Analizzando l’ultimo report Istat “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” risulta che nel corso del lockdown insieme alla Cassa integrazione e al Fondo integrazione salariale (Fis), l’obbligo di fruizione delle ferie, la riduzione delle ore e dei turni di lavoro e lo smart working sono stati fra gli strumenti maggiormente utilizzati per contenere gli effetti negativi dell’emergenza. Tra le medie e grandi imprese, in particolare, il “lavoro agile” compare come la misura più diffusa.
Nello specifico, l’Istat osserva che la quota di personale in lavoro a distanza è aumentata notevolmente rispetto ai mesi immediatamente precedenti al lockdown. Dall’1,2 per cento di gennaio-febbraio 2020 la quota ha infatti raggiunto l’8,8 per cento fra marzo e aprile, per poi calare tra maggio e giugno al 5,3, restando tuttavia «significativa» ed elevata nelle medie e grandi imprese.
Sempre secondo l’Istat, l’aumento del numero di impiegati tramite smart working è collegata all’aspetto dimensionale delle aziende. Quelle medie e grandi hanno infatti registrato un incremento abbondante di personale in modalità agile: fra gennaio e febbraio il personale impiegato era rispettivamente il 2,2 e il 4,4 per cento contro il 21,6 e il 31,4 per cento raggiunto fra marzo e aprile. Le percentuali sono inferiori invece per quanto riguarda la diffusione della misura nelle micro e piccole imprese, le quali hanno introdotto o esteso lo smart working solo nel 18,3 e nel 37,2 per cento dei casi rispetto al 73,1 e al 90 per cento dei casi che si riscontrano nelle medie e grandi aziende.
Dal punto di vista settoriale, invece, lo smart working ha soprattutto interessato i servizi di comunicazione, informazione e informatica, le attività professionali scientifiche e tecniche, l’istruzione e la fornitura di energia elettrica e gas. I motivi di questa variazione selettiva secondo il report sono da attribuire alla componente tecnologica, alle modalità organizzative e alla capacità di adattamento rapido che hanno interessato i vari tipi di impresa.
La possibilità di riorganizzare l’impiego anche tramite il lavoro agile è stata infine legata alla continuità dell’attività aziendale e pertanto risulta più diffusa (65,2 per cento) fra le imprese che non hanno chiuso durante il lockdown e tra quelle che sono riuscite ad aprire prima o in prossimità del 4 maggio.
Le perdite economiche delle imprese nel corso del lockdown
Sebbene le analisi attuali poggino ancora su basi provvisorie, per capire meglio l’impatto economico dello smart working dobbiamo verificare che cosa è successo ai fatturati delle imprese durante il periodo del lockdown e controllare i motivi attribuiti al loro eventuale calo.
Oltre il 70 per cento della aziende ha dichiarato di aver ridotto il proprio fatturato, il 14,6 per cento di non averne avuto del tutto, nell’8,9 per cento dei casi il fatturato è invece rimasto stabile, mentre nel 5 per cento è stato registrato un suo aumento. Fra le aziende interessate dall’incremento, ci sono prevalentemente quelle legate al commercio, che dai dati sappiamo essere (insieme ai servizi legati a beni alimentari e intermedi) il settore rimasto più costantemente attivo anche durante il lockdown. Ai settori con fatturato in crescita si aggiungono inoltre l’industria farmaceutica, il settore delle telecomunicazioni e quello della chimica.
Ancora secondo le rilevazioni Istat, a subire di più la contrazione economica sono state le micro e le piccole imprese, con perdite superiori al 50 per cento del fatturato rispettivamente nel 58,5 e nel 48,5 per cento dei casi analizzati. In particolare, scrive l’Istat, «le motivazioni alla base della riduzione del fatturato sono per il 45,9 per cento riconducibili alla riduzione delle settimane lavorative dovute alla chiusura, per il 50,5 per cento al calo della domanda, per l’8,3 per cento a difficoltà di approvvigionamento e per il 5,5 per cento a un calo della produttività dovuta alle nuove condizioni lavorative». Queste imprese inoltre sono le stesse che, da quanto osservato in precedenza, hanno anche fatto meno ricorso allo smart working.
Gli effetti dell’emergenza nel post lockdowne le strategie messe in atto dalle imprese
Dalla fine del lockdown gli effetti economici negativi dovuti all’emergenza sono consistiti soprattutto nella mancanza di liquidità da parte delle aziende. Secondo l’Istat, questa assenza è fortemente connessa alla dimensione delle imprese e a subirla saranno quindi soprattutto quelle micro e piccole, che vanno anche incontro ai rischi maggiori.
Stando inoltre alle previsioni economiche di quasi un’impresa su tre, la contrazione del loro fatturato dipenderà in gran parte dalla diminuzione della domanda locale e nazionale. Questa secondo l’Istat interessa in particolare le piccole imprese, mentre quelle di grandi dimensioni sono più esposte alle perdite dovute alla riduzione della domanda di provenienza estera.
Per quanto riguarda le strategie messe in campo dalle aziende che sono state soggette alla chiusura delle proprie attività, l’Istat riporta che a prevalere è la scelta di riorganizzare gli spazi di lavoro e in secondo luogo la modifica o l’ampliamento dei canali di vendita e dei metodi di fornitura dei servizi. Nei settori rimasti aperti, invece, la strategia preferita in particolar modo dalle grandi aziende è stata la transizione digitale. Il passaggio verso un maggiore utilizzo della connessione virtuale interno ed esterno al luogo di lavoro è infatti segnalato come la principale soluzione strategica adottata dalle imprese italiane che hanno continuato a operare anche durante il lockdown.
L’analisi degli esperti
Le rilevazioni Istat non individuano insomma lo smart working come un elemento negativo per l’economia del Paese e i suoi effetti sembrano essere potenzialmente positivi secondo gli esperti.
Come riferisce l’Osservatorio conti pubblici italiani (Cpi), centro di analisi e di ricerca sulla finanza pubblica, per esempio, è evidente che in Italia nel corso dell’emergenza lo smart working è stato essenziale per mantenere in attività una grande quantità di servizi ed è probabile che nella fase della ripresa questa modalità di lavoro si stabilizzi su valori più elevati che in passato. Tuttavia, «al di là dell’emergenza, vi sono opinioni diversificate» circa i possibili benefici dello smart working «a livello economico e socio-psicologico», scrive l’Osservatorio. «Tra i benefici che sono stati prospettati, vi è consenso nell’indicare un miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata, un aumento di produttività, oltre ad una maggiore efficienza dei processi aziendali (in particolare per quanto riguarda l’orientamento agli obiettivi)».
Più nello specifico, secondo la recente ricerca svolta dalla ricercatrice dell’Università Milano Bicocca Marta Angelici e dalla economista dell’Università Bocconi Paola Profeta sui lavoratori di una grande azienda italiana che ha sperimentato per la prima volta lo smart working fra settembre 2017 e giugno 2018, a parità di numero di ore di lavoro, i lavoratori in smart working hanno aumentato la propria produttività rispetto a quelli che hanno continuato a lavorare tradizionalmente.
Poiché l’aumento della produttività (valutata sia secondo criteri oggettivi sia tramite autovalutazione degli impiegati) è stato registrato in modo considerevole soprattutto dopo i tre mesi successivi all’inizio dell’esperimento, le ricercatrici sostengono che l’effetto positivo dello smart working non sia ascrivibile all’adattamento immediato degli impiegati, ma piuttosto il prodotto di un progressivo miglioramento nel tempo delle nuove condizioni lavorative.
Gli stessi dati rilevano anche che gli smart worker sono più soddisfatti della loro vita sociale e della vita in generale. Questi sostengono infatti di essere più in grado di concentrarsi, prendere decisioni, apprezzare le loro attività quotidiane, superare i problemi e sperimentare una riduzione dello stress e della perdita di sonno.
Sebbene le ricercatrici affermino che quanto riscontrato non possa essere del tutto generalizzato alla situazione specifica provocata dalla pandemia, tuttavia ritengono che nel periodo di emergenza lo smart working si sia rivelato utile, mentre osservano che, in condizioni normali, questo possa essere soprattutto efficace se impiegato per periodi di tempo limitati all’interno delle settimane lavorative.
«Quello che è stato fatto in Italia durante la pandemia non è comunque un vero e proprio smart working. Piuttosto si è trattato di lavoro da casa in un momento di emergenza di lockdown, unica soluzione possibile per continuare a lavorare», ha spiegato Profeta a Pagella Politica. «Lo smart working richiede flessibilità di tempo e spazio che non è esattamente quello che abbiamo visto. Sicuramente lavorare a distanza è stata una soluzione, l’alternativa sarebbe stata non lavorare proprio, quindi l’impatto in fase di lockdown non può che essere positivo. Il punto è come proseguire su questa strada tenendo gli aspetti positivi e migliorando».
Ci sono poi gli aspetti socio-economici che il lavoro da casa sta comportando nell’ultimo periodo.
«Se confrontati con i lavoratori non in smart working, quest’ultimo aumenta la produttività, il benessere e il bilanciamento vita lavorativa-personale di coloro che adottano questa modalità», ha detto Profeta a Pagella Politica. «In particolare, l’effetto sul bilanciamento vita-lavoro sembra promettente, perché gli uomini in smart working dedicano più tempo al lavoro domestico e alla cura dei figli, ingrediente essenziale per favorire l’occupazione femminile e la parità di genere. Al momento però in italia non si è ancora visto un impatto significativo di questo tipo in fase Covid-19, poiché, al contrario, la maggior parte del lavoro domestico e di cura è ricaduto sulle donne».
Secondo una ricerca condotta dall’Ocse, i lavoratori che svolgono impieghi non effettuabili anche da remoto rappresentano una categoria economicamente più vulnerabile rispetto a coloro che possono invece lavorare da casa.
In più, nel 2018 l’Osservatorio smart working della School of Management del Politecnico di Milano – un istituto di ricerca che studia l’evoluzione del modo di lavorare delle persone – ha sottolineato che i benefici economici dello smart working per le aziende italiane, oltre all’aumento della produttività, hanno riguardato anche la riduzione dei costi di gestione degli spazi fisici in termini di affitti, utenze e manutenzioni pari a un risparmio del 30 per cento. La ricerca sullo smart working inoltre è tuttora in corso e potrà offrire in seguito indicazioni più specifiche su ciò che sta succedendo e succederà in questo 2020 all’economia italiana.
Dal punto di vista socio-economico, l’impatto dello smart working durante il lockdown è stato anche di recente esaminato dalla ricerca della Luiss Business School, intitolata “Lo smart working durante la pandemia Covid-19”.
Condotta su 451 professionisti di cui il 70 per cento composto da dipendenti o collaboratori, la ricerca sottolinea che il 66 per cento degli intervistati ha trovato lo smart working efficace in termini di produttività lavorativa riuscendo a svolgere da casa tutti i compiti assegnati. D’altro canto un 28 per cento del campione ha ammesso di non aver mantenuto i livelli di produttività abituali, percentuale che sale al 38 per cento per la categoria dei liberi professionisti. Il comunicato stampa di Confindustria digitale, partner della ricerca, riporta anche che «i partecipanti alla ricerca hanno evidenziato numerosi benefici legati allo smart working, anche legati al bilanciamento vita-lavoro: il maggior tempo dedicato alla famiglia primeggia infatti come beneficio più condiviso dell’esperienza di smart working, seguito dal minor stress». La mancanza di relazioni sociali è stata però la conseguenza negativa più sentita, subito seguita dalla percezione della riduzione delle opportunità di avanzamento e di carriera.
Infine il 75 per cento del campione si è detto disponibile a continuare a lavorare in smart working a seguito del lockdown per più giorni a settimana, anche consecutivi. Contrariamente, il 20 per cento del campione preferirebbe lavorare in modalità agile solo un giorno a settimana.
In conclusione
Nel corso del lockdown l’adozione e l’estensione del lavoro agile sono aumentate considerevolmente rispetto al periodo pre-pandemico.
L’uso dello smart working è stato in larga parte massiccio da parte delle medie e grandi aziende, che hanno subito perdite economiche inferiori rispetto a quelle con meno di 50 dipendenti. Più danneggiate dal punto di vista economico, le micro e piccole imprese hanno anch’esse incrementato la quota dei propri impiegati in smart working, ma in percentuali minori rispetto alle aziende più grandi.
Va inoltre considerato che, secondo l’Istat, durante il lockdown le imprese più esposte alle perdite economiche sono state le micro e le piccole imprese principalmente a causa della sospensione delle loro attività lavorative e al calo della domanda. Quest’ultimo rimane indicato come uno dei fattori più economicamente influenti in modo negativo sulle imprese anche dopo il lockdown.
In più, anche nella fase post-lockdown il passaggio al digitale e alla connessione virtuale è indicata come una delle strategie più diffuse da parte delle aziende per fronteggiare la crisi economica dovuta all’emergenza da Covid-19. L’Istat non accenna pertanto a indicare lo smart working fra le cause responsabili di effetti negativi gravi sull’economia italiana.
Inoltre, l’Osservatorio Cpi, le ricercatrici Angelici e Profeta e lo studio promosso dalla Luiss Business School, pur rilevando alcune problematiche di carattere socio-psicologico dovute allo smart working, concordano nel ritenere che il lavoro agile abbia contribuito positivamente all’economia prima e durante il lockdown. Il lavoro agile ha infatti permesso di mantenere in vita un ampio numero di servizi ed è stato riscontrato come un fattore responsabile di aumentare la produttività dei settori coinvolti. Ne emerge insomma che il lavoro da casa, pure con limiti ed eccezioni, potrebbe costituire una risorsa importante per la ripresa economica del Paese.
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