Il 27 maggio, con una lettera al Corriere della Sera, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha proposto l’utilizzo di un particolare strumento finanziario del Fondo monetario internazionale (Fmi) – i “diritti speciali di prelievo” (Dsp) – per far fronte alla crisi economica causata dall’emergenza coronavirus.
Lo stesso giorno, ospite a 24 Mattina su Radio 24, Meloni ha rispiegato (min. 27:21) la sua proposta. «Il Fondo monetario internazionale ha questo strumento che sono i “diritti speciali di prelievo”, che sono sostanzialmente nuova liquidità creata dal nulla», ha detto Meloni a Radio 24. Secondo la leader di Fratelli d’Italia, se il Fmi decidesse di «attivare questo strumento», sarebbero generate risorse che «vengono distribuite a tutti i 189 Paesi che fanno parte del Fmi», in base a quante quote detengono del Fondo. «In questo caso – ha poi concluso Meloni – non è un prestito e quindi non sono soldi che hanno condizioni di sorta».
Nella lettera al Corriere della Sera, Meloni ha criticato un eventuale ricorso a il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e invitato il governo italiano a chiedere invece l’intervento del Fmi, attraverso la distribuzione di nuovi “diritti speciali di prelievo”.
Ma è vero come dice Meloni che «dal nulla» il Fmi può creare «nuova liquidità» e distribuirla ai suoi Paesi membri?
In breve: è vero che il Fmi può creare questi “diritti speciali di prelievo” (Dsp), che non sono una vera e propria valuta, ma sono risorse che – una volta distribuite dal Fondo – permettono a tutti i Paesi membri di essere scambiate in cambio di valute considerate “forti”, come il dollaro e l’euro.
A livello teorico, la creazione di Dsp è possibile, e l’ultima volta è stata fatta con la crisi del 2009, ma a livello politico e tecnico ha una serie di possibili obiezioni.
Ma per capire da dove vengono i “diritti speciali di prelievo” (o special drawing rights) del Fmi, e come funzionano, bisogna fare un passo indietro nella storia di circa cinquant’anni.
Un breve ripasso di storia
I Dsp sono ufficialmente nati nel 1969, ma poggiano le loro radici nei decenni precedenti, come ricostruisce un approfondimento contenuto nel report Imf Financial operations, pubblicato dal Fmi nel 2018.
Nel 1944 gli accordi di Bretton Woods (Stati Uniti) istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato su un sistema di cambi fissi tra le valute, con il dollaro come riferimento per gli scambi. La moneta statunitense era l’unica a garantire la convertibilità in oro, con un tasso di cambio di 35 dollari per ogni oncia (circa 28 grammi) del metallo prezioso. In pochi anni però questo sistema iniziò a entrare in difficoltà.
«A causa del boom del commercio internazionale degli anni Sessanta, il problema principale di un sistema monetario internazionale “dollaro-centrico” era quello di avere sempre maggiore bisogno di liquidità, ossia avere più dollari in giro, stimolando gli Stati Uniti a fare più deficit. Avrebbero dovuto insomma comprare più dall’estero che vendere, per far circolare in questo modo più dollari», ha spiegato a Pagella Politica Giuseppe De Arcangelis, professore di Economia internazionale all’Università La Sapienza di Roma. «A un certo punto iniziavano a non esserci più dollari a sufficienza, così il Fmi pensò a una prima possibile soluzione, prima del crollo del sistema di Bretton Woods avvenuto nel 1971 e della nascita del sistema dei cambi flessibili».
Di quale soluzione stiamo parlando? Verso la metà degli anni Sessanta, per contrastare i limiti del sistema introdotto con Bretton Woods, alcuni Paesi – tra cui l’Italia – proposero di creare all’interno del Fmi un nuovo sistema di riserva di valore, che integrasse quello esistente dell’oro e delle valute.
Nel 1967 il Fmi stabilì la creazione di questo nuovo sistema, basato proprio sui “diritti speciali di prelievo” (Dsp). La nascita ufficiale di questi strumenti risale al 1969 mentre la loro prima distribuzione avvenne nel 1970.
Vediamo ora nel dettaglio che cosa sono questi diritti, come vengono creati e come funzionano.
Che cosa sono i “diritti speciali di prelievo”
Innanzitutto, come spiega nel dettaglio il Fondo monetario internazionale, va chiarito che i “diritti speciali di prelievo” non sono una valuta, come lo sono, per esempio, il dollaro, l’euro e le altre valute nazionali.
Sono risorse che possono essere create dal Fmi tramite un particolare procedimento, che vedremo nel dettaglio più avanti, e che possono essere utilizzate dai Paesi del Fondo per scambiare e ottenere alcuni tipi di valute, quelle considerate più “forti”.
I Dsp funzionano anche da unità di conto del Fmi, ossia come metro comune per misurare il valore delle transazioni economiche gestite dell’istituzione.
Ma procediamo con ordine.
Quanto valgono i Dsp
Alla fine degli anni Sessanta il Fmi stabilì il valore iniziale di un Dsp pari a quello di un dollaro, che a sua volta corrispondeva a circa 0,88 grammi di oro puro.
Il crollo del sistema di Bretton Woods ha poi portato alla necessità di determinare più volte un nuovo valore per i “diritti speciali di prelievo”, come ha ricostruito l’economista Ousmène Jacques Mandeng in un lungo approfondimento pubblicato nel 2019 sul sito della London School of Economics.
Nel 1974 il valore di un Dsp era stabilito sulla base di un paniere di 16 valute (tra le quali c’era anche la lira italiana), sceso a cinque valute nel 1981. Dal 1999, con la nascita dell’euro, il paniere passò a quattro valute (con franco e marco tedesco sostituiti dalla moneta comunitaria, che accompagnava il dollaro, lo yen giapponese e la sterlina britannica), e dal 2016 entrò a farne parte anche il renminbi cinese.
Ogni cinque anni il Fmi rivede il peso che le singole valute hanno all’interno del paniere, mentre il valore dei Dsp cambia ogni giorno in base alle oscillazioni dei mercati (al 28 maggio 2020 un Dsp valeva più o meno a 1,36 dollari o 1,23 euro).
Come vengono creati i Dsp
In base agli Articles of Agreement del Fmi – il testo fondativo dell’istituzione, modificato diverse volte negli ultimi decenni – il Fondo può decidere (art. XV, co. 1 e art. XVIII) di creare e distribuire tra i suoi Paesi membri nuove quantità di Dsp, se sussistono determinate condizioni, per esempio «la necessità di integrare le riserve di valore esistenti».
Dal 1970 ai primi anni Duemila le distribuzioni di Dsp – o “allocazioni”, il termine tecnico usato dal Fmi – sono state in totale due: una tra il 1970 e il 1972, per un valore 9,3 miliardi di Dsp, e una tra il 1979 e il 1981, per un valore di 12,1 miliardi di Dsp.
«Dopo queste due assegnazioni non se ne è più parlato, fino a quando è arrivata la crisi economica del 2008-2009», ha sottolineato De Arcangelis. «All’epoca la Cina spinse molto per dare un ruolo internazionale più ampio a questi “diritti speciali di prelievo”, perché voleva rendere meno forte il ruolo del dollaro come valuta di riferimento internazionale».
Ad agosto 2009, infatti, furono distribuiti in totale circa 182,7 miliardi di Dsp, portando il valore dei Dsp allocati dal 1970 ad oggi tra le riserve dei Paesi a circa 204,1 miliardi di Dsp, per un valore pari a oltre 277 miliardi di dollari o oltre 250 miliardi di euro. All’epoca, come aveva sottolineato nel 2010 l’ex direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni, questi Dsp rappresentavano «ancora meno del 5 per cento delle riserve globali di valuta estera».
Quando il Fmi decide di allocare nuovi Dsp, questi vengono distribuiti a tutti i suoi 189 Paesi membri (qui la lista completa) in base alle quote sottoscritte nel Fondo dai singoli Paesi. Per esempio, l’Italia detiene il 3,17 per cento delle quote del Fondo, che le garantiscono all’interno del Consiglio dei governatori – l’organo decisionale principale dell’istituzione – un “peso” in termini di voti pari al 3 per cento.
Aggiungiamo inoltre che i Dsp possono essere posseduti dalle banche centrali dei Paesi membri del Fmi e da alcuni istituti finanziari, ma non dal settore privato, cosa che ne limita molto l’utilizzo sui mercati.
Come funzionano i Dsp
Veniamo ora alla domanda principale: una volta che vengono creati nuovi “diritti speciali di prelievo”, che cosa se ne fanno i Paesi che li ricevono?
«Le assegnazioni di nuovi Dsp non sono un prestito: una volta assegnato, rimangono a tutti, ma a prima vista il meccanismo del loro funzionamento può sembrare oscuro», ha sottolineato a Pagella Politica De Arcangelis. «Può però essere spiegato semplificando molto alcuni aspetti più tecnici».
Per farsi un’idea sull’apparente vaghezza dell’argomento, anche tra gli addetti ai lavori, segnaliamo che di recente alcuni osservatori – come l’economista Mandeng citato in precedenza – hanno accostato il meccanismo degli special drawing rights a Libra, un sistema di pagamento creato nel 2019 da Facebook, o paragonato a una sorta di «precursore» della criptovaluta bitcoin, come ha suggerito l’economista Izabella Kaminska in un commento sul Financial Times del 13 marzo scorso.
«Nonostante qualche progresso effettuato dal momento della loro introduzione, i Dsp sono ancora lontani non solo dall’avere lo status di una valuta comunemente utilizzabile nelle transazioni internazionali, ma anche dal rivestire il ruolo di una delle componenti più importanti delle attività di riserva mondiali», ha scritto nell’edizione 2012 del “Dizionario di economia e finanza” dell’enciclopedia Treccani l’economista Ettore Dorrucci della Banca centrale europea.
Se vogliamo dare la definizione più semplice possibile dei Dsp, come abbiamo già anticipato prima, possiamo dire che sono risorse che possono essere usate per ottenere alcuni tipi di valute.
Tecnicamente, per essere più precisi, gli special drawing rights sono un diritto – da qui il loro nome – a poter ottenere una o più delle cosiddette “valute liberamente utilizzabili” (freely usable currencies, come le chiama il Fmi) che i Paesi membri del Fondo detengono nelle loro riserve ufficiali.
Queste “valute liberamente utilizzabili”, secondo i criteri del Fmi, sono quelle più usate nelle transazioni internazionali e nei mercati di cambio. In sostanza stiamo parlando di valute come il dollaro e l’euro.
«Con la sua dotazione di Dsp una banca centrale di un Paese può ottenere valuta estera scambiando oppure impegnando i propri Dsp con le banche centrali che emettono valute forti, per esempio, la Bce o la Fed», ha spiegato a Pagella Politica Andrea Terzi, professore di Economia e finanza alla Franklin University in Svizzera. «Se, per dire, la Banca centrale del Brasile usa i suoi Dsp per avere dei dollari dalla Federal reserve statunitense, con quei dollari aiuta a finanziare le importazioni brasiliane in dollari». Lo scambio – o swap, in inglese – può avvenire anche con Paesi che per esempio non emettono una valuta “forte”, ma ne hanno tra le loro riserve. «Quello dei Dsp è un mercato volontario e non c’è obbligo di accettazione», ha aggiunto Terzi.
Di conseguenza, come spiega in un breve video lo stesso Fmi, i Dsp hanno avuto una circolazione e una distribuzione autonoma tra i vari Paesi, anche oltre le allocazioni del Fmi. Con il tempo si è creata una situazione per cui alcuni Paesi hanno raccolto maggiori disponibilità di Dsp rispetto a quelli che si sono visti destinati originariamente dal Fmi (perché hanno ricevuto Dsp dando in cambio valuta forte), mentre altri meno (avendo dato i propri Dsp per ottenere valuta forte).
Questo meccanismo genera anche dei costi e dei guadagni. Ogni singolo Paese paga infatti interessi, che al 28 maggio erano dello 0,05 per cento, sui Dsp che gli sono stati allocati nel tempo, e guadagna interessi sulle proprie disponibilità di Dsp. In che modo?
Se le disponibilità di Dsp di un Paese equivalgono ai Dsp che ha ricevuto con le allocazioni del Fmi, costi e guadagni si equivalgono. Se un Paese ha meno Dsp di quelli che ha ricevuto, perché ne ha dati via alcuni per ottenere valuta forte, pagherà gli interessi sulla differenza tra le sue disponibilità di Dsp e quelli che ha ricevuto con le allocazioni. Viceversa, chi ha maggiore disponibilità di Dsp, perché ne ha scambiati dando valuta, guadagnerà gli interessi sulla differenza tra le sue disponibilità e i Dsp che gli sono stati allocati.
«Ricapitolando, se si creassero nuovi “diritti speciali di prelievo” e si assegnassero ai vari Paesi, chi ha carenza di riserve internazionali potrebbe prendere questi Dsp e scambiarli con moneta internazionale con chi ne ha in più», ha sottolineato De Arcangelis. «Questo è solo un meccanismo per avviare una circolazione e distribuzione tra chi esporta di più di quanto importa e chi, viceversa, importa più di quanto esporta».
Insomma, il valore dei Dsp come riserve internazionali deriva dal diritto che hanno i Paesi membri del Fmi di poterli scambiare per ottenere valute come dollaro o euro. Attraverso questo meccanismo, sottolinea il Fmi, «i Dsp ricoprono un ruolo importante nel fornire liquidità al sistema economico globale».
Ma quanto “importante”? E qui entra in gioco l’emergenza coronavirus.
Che cosa c’entra l’emergenza coronavirus?
Nelle ultime settimane è nato un dibattito, anche al di fuori dei confini italiani, sulla possibilità di ricorrere a una nuova distribuzione di Dsp per contenere la crisi economica causata dall’emergenza coronavirus.
Tra fine marzo e inizio aprile, alcuni centri di ricerca e think tank internazionali – come la Brookings Institution e il Peterson Institute for International Economics – hanno avanzato questa idea, poi ripresa anche il 12 aprile da un editoriale del Financial Times, citato da Meloni su Radio 24 e nella lettera al Corriere della Sera. Ft, nel dettaglio, ha proposto l’emissione di un triliardo di nuovi Dsp (per un valore pari a oltre 1.200 miliardi di euro).
Nella stessa direzione si sono espressi in un articolo pubblicato il 14 aprile dal Washington Post l’ex premier britannico Gordon Brown – che aveva avuto un ruolo centrale nelle allocazioni della crisi del 2009 – e l’ex segretario al Tesoro statunitense Lawrence Summers, consigliere economico dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama tra il 2009 e il 2010. Il 28 maggio anche il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres ha invitato a prendere in considerazione la distribuzione di nuovi Dsp per far fronte alla crisi di questi mesi.
Ma, per lo più, c’è un punto in comune che hanno queste iniziative.
«Le proposte che sono state fatte nelle ultime settimane a livello internazionale sono finalizzate, come nelle intenzioni del meccanismo originario dei Dsp, ad assistere banche centrali che non dispongono di valute “forti” per superare la crisi, affrontare fughe di capitale, conservare la capacità di importare beni di necessità», ha sottolineato Terzi a Pagella Politica. Per esempio, l’editoriale del Financial Times del 12 aprile è intitolato: “Una nuova emissione di Dsp è vitale per aiutare i Paesi più poveri”.
Questa non è un’idea nuova: come ha notato anche il giornalista Luciano Capone su Il Foglio, uno dei sostenitori dell’utilizzo dei Dsp per aiutare i Paesi emergenti, che hanno maggiore bisogno di valuta forte, è da anni il finanziere ungherese George Soros, criticato spesso in passato dalla stessa Meloni.
Per l’emergenza coronavirus c’è addirittura chi, come il think tank Center for economic and policy research, ha proposto di far distribuire dal Fmi tremila miliardi di Dsp «per supportare Paesi a basso o medio reddito».
Meloni, nella lettera al Corriere della Sera, ha fatto anche riferimento a una proposta arrivata dall’economista italiano, ex dipendente del Fmi, Domenico Lombardi, che a fine aprile, insieme all’ex segretario commerciale al Tesoro Jim O’Neill, ha proposto un piano che secondo loro sarebbe utile anche per l’Italia.
«Partendo dalla proposta del Financial Times di distribuire circa 1.250 miliardi di euro in Dsp, possiamo stimare che all’Italia andrebbero circa 40 miliardi, sulla base del 3 per cento delle sue quote», ha spiegato a Pagella Politica Lombardi. «Con questi miliardi usati a garanzia, noi proponiamo di creare uno strumento per raccogliere risorse sui mercati, che potrebbero arrivare a circa 200 miliardi, grazie all’utilizzo da parte dei Paesi più “forti” delle loro allocazioni di Dsp per acquistare le obbligazioni da noi emesse».
Secondo Lombardi, questa proposta non escluderebbe la possibilità di accedere ad altri strumenti – come il Mes – ma è un’idea complementare per raccogliere risorse ulteriori per far fronte alla crisi.
Quali sono allora gli ostacoli per rendere concreta una nuova distribuzione di Dsp?
Le obiezioni a una nuova emissione di Dsp
Partiamo innanzitutto da un aspetto centrale: i problemi politico-strategici legati al ruolo degli Stati Uniti, che con il loro 16,5 per cento dei voti all’interno del Fmi hanno di fatto il diritto di veto sulla creazione di nuovi Dsp. Un’eventuale decisione del Fondo in questo senso richiede infatti almeno l’85 per cento dei voti, ed è già una cosa non da poco.
«Innanzitutto, per fare una nuova allocazione di Dsp bisogna avere il consenso all’interno del Fmi», ha sottolineato l’economista De Arcangelis a Pagella Politica. «Gli Stati Uniti fino ad adesso si sono opposti a una nuova creazione di Dsp perché vogliono, per esempio, mantenere il ruolo centrale del dollaro».
Come ha ricostruito l’economista Adam Tooze in un approfondimento pubblicato il 14 aprile da Foreign Policy, l’amministrazione di Donald Trump per il momento non vede di buon occhio la possibilità di distribuire nuovi Dsp, anche perché – essendo distribuiti a tutti – potrebbero favorire anche Paesi “nemici” come Iran e Venezuela.
Tra l’altro, come ha sottolineato l’Economist l’11 aprile scorso, per la creazione di nuovi Dsp superiori a un valore di 648 miliardi di dollari non basta il benestare del Tesoro statunitense, ma è necessario anche un voto del Congresso. Il 15 aprile il Financial Times riportava poi il parere di una fonte ben informata sui fatti, secondo la quale anche altri Paesi non sarebbero poi così del tutto favorevoli a una nuova allocazione di Dsp.
In ogni caso, dunque, andrebbero convinti gli Stati Uniti, e come ha scritto Meloni nella sua lettera al Corriere della Sera «se in Italia ci fosse un governo con una visione strategica, il nostro premier sarebbe già volato a Washington per parlare dei “diritti speciali di prelievo” del Fondo monetario internazionale, consapevole che le sorti di una grande Nazione come l’Italia non possono dipendere solo da quanto vorranno decidere Francia e Germania in ambito Ue».
Ma non sono da escludere le eventuali reazioni a una scelta di questo tipo.
«Questo potrebbe dare per esempio un brutto segnale ai mercati, di debolezza del nostro Paese», ha sottolineato De Arcangelis. «E ci sono poi anche degli aspetti tecnici che rendono questa strada difficilmente percorribile», ha aggiunto l’economista della Sapienza. «Una delle alternative per un Paese che necessita di euro o dollari, al di là degli scambi con gli Dsp, è quello di prenderli a prestito dalla Fed americana. Oltre un mese fa la Fed ha ampiamente aumentato i margini di possibilità per molte banche centrali emergenti per poter prendere in prestito dollari a condizioni estremamente convenienti. Quindi gli Stati Uniti hanno interesse a far sì che sia la Fed a prestare».
C’è inoltre chi sottolinea che di liquidità in questo periodo se ne stia già creando in grandi quantità.
«Le banche centrali di tutto il mondo stanno già creando una quantità di moneta enorme perché ritengono che fino a un certo punto quella moneta non crei troppi problemi in termini di inflazione, e lo stanno facendo alla grande», ha spiegato a Pagella Politica l’economista Carlo Cottarelli, ex direttore del Dipartimento degli Affari fiscali del Fmi. «Se la banca centrale compra titoli di Stato, sta immettendo liquidità nel mercato ma sta anche dando la possibilità allo Stato di spendere. Lo stesso varrebbe in teoria con i “diritti speciali di prelievo”: il punto fondamentale è perché questo lo deve fare un istituto come il Fmi, che non è stato creato per essere una banca centrale, e non invece le banche centrali dei singoli Paesi. Cosa, tra l’altro, che stanno già facendo».
In conclusione
Il 27 maggio la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha suggerito in una lettera al Corriere della Sera e in alcune interviste, come quella a Radio 24, il ricorso a uno strumento del Fondo monetario internazionale per far fronte all’emergenza coronavirus: i “diritti speciali di prelievo” (Dsp, o special drawing rights in inglese).
Secondo Meloni, i Dsp «sono sostanzialmente nuova liquidità creata dal nulla», che sarebbe distribuita a tutti i 189 Paesi del Fmi in base alle loro quote. «In questo caso non è un prestito e quindi non sono soldi che hanno condizioni di sorta», ha detto a Radio 24 Meloni.
La leader di Fratelli d’Italia, per quanto riguarda il funzionamento dei Dsp, riporta informazioni sostanzialmente corrette, ma vanno chiariti due aspetti centrali della vicenda.
In primo luogo i Dsp non sono una valuta vera e propria, come lo sono il dollaro e gli euro, ma – semplificando – sono risorse che permettono di essere scambiate per ottenere valute forti. Sono creati «dal nulla», ma non nello stesso senso con cui una banca centrale, per esempio, stampa moneta.
I Dsp sono storicamente infatti nati a fine anni Sessanta come risorsa di valore complementare all’oro o altre valute e nelle ultime settimane il loro utilizzo è stato proposto da più parti soprattutto per aiutare Paesi con economie emergenti, che non hanno valute forti e sono in difficoltà.
In secondo luogo, è vero che è stata avanzata una proposta – ripresa anche da Meloni – per far sì che questi Dsp possano essere usati anche dall’Italia, ma qui subentrano obiezioni di tipo tecnico e politico-strategico.
Da un lato, c’è chi sostiene che di liquidità ce ne sia già molta in circolazione e che esporsi in prima linea per un intervento del Fmi potrebbe metterci in una posizione di debolezza sui mercati. Dall’altro lato, serve l’85 per cento del consenso del Fondo per allocare nuovi Dsp e, in particolare, quello degli Stati Uniti, che hanno il diritto di veto e ad oggi non sembrano intenzionati, per vari motivi, a consentire nuove distribuzioni di Dsp.
In ogni caso, comunque, con i Dsp stiamo parlando di uno strumento poco noto al dibattito pubblico, che nei fatti ha un ruolo tutt’altro che centrale anche nel quadro economico mondiale.
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