Quest’estate il calcio femminile ha raccolto un grande interesse di pubblico in Italia, grazie alla partecipazione della nostra nazionale ai mondiali in Francia dopo vent’anni di assenza.

Dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, passando per il ministro dell’Interno Matteo Salvini e l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, numerosi politici hanno festeggiato sui social le vittorie delle azzurre, poi eliminate nei quarti di finale del 29 giugno dai Paesi Bassi.

Ma come funzionano i rapporti di lavoro nel calcio femminile? Le calciatrici sono professioniste, o no, e quanto guadagnano? Il successo di questa disciplina sta davvero crescendo?

Cerchiamo di trovare una risposta a queste domande.

Professioniste o dilettanti?

Il 9 luglio scorso, alla presentazione in Senato del rapporto annuale ReportCalcio 2019, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo Sport Giancarlo Giorgetti (Lega) ha dichiarato che «il professionismo del calcio femminile lo stiamo facendo, ci sono le deleghe al governo per rivedere tutto il professionismo sportivo».

Anticipiamo il punto centrale del dibattito: le calciatrici in Italia – quelle per esempio che giocano per la Juventus, il Milan e la Roma nel campionato di Serie A – non sono professioniste.

È una questione decennale, che coinvolge atlete – e atleti – in molte altre discipline sportive in Italia.

Le radici dell’attuale situazione sono nella legge n. 91 del 23 marzo 1981, conosciuta anche come la “Legge sul professionismo sportivo”.

Questo insieme di norme divide la pratica sportiva in due categorie: quella professionistica e quella dilettantistica. Per quest’ultima non esiste una definizione formale, ma si intende tutta l’attività sportiva ritenuta “non professionistica”.

In base all’articolo 2 della legge n. 91/1981, gli atleti che svolgono un’attività sportiva retribuita e con continuità nelle discipline regolamentate dal Coni sono considerati “professionisti” se ricevono questa qualifica dalle singole federazioni sportive nazionali.

In sostanza, sono queste ultime a dover scegliere se aderire o meno al settore professionistico: a determinare la qualificazione della sportiva, o sportivo, come professionista non basta dunque la prestazione resa (ossia retribuita e con carattere continuativo, in discipline regolamentate dal Coni).

Inoltre, le cose cambiano anche all’interno delle singole federazioni. La Figc – insieme a poche altre federazioni, come quella ciclistica (Fci) e cestistica (Fip) – riconosce il professionismo sportivo, ma non per tutti i tesserati. Questo status dipende dalla lega di appartenenza all’interno della stessa Figc.

La situazione nel calcio

Per esempio, i calciatori della Serie A maschile, che è gestita dalla Lega nazionale professionisti Serie A (una delle sette tra leghe e associazioni della Figc), sono considerati professionisti; quelli della Lega nazionale dilettanti (Lnd), no.

Per quanto riguarda le calciatrici, dalla stagione 2018/2019 l’organizzazione e la promozione della Serie A femminile (a 12 squadra) è diventata di competenza esclusiva della Figc tramite la Divisione calcio femminile, dopo anni di gestione da parte della Lnd.

Nonostante questo, l’articolo 29 (comma 1) delle Norme organizzative interne della Figc (Noif) stabilisce che le tesserate non sono comunque considerate professioniste, come ad esempio i calciatori di calcio a cinque.

Questo ha diverse conseguenze sul piano lavorativo.

La prima riguarda l’oggetto del contratto: in base a quanto stabilito dall’articolo 94 quinquies (comma 1) delle Noif, «per le calciatrici e gli allenatori tesserati con società partecipanti ai campionati nazionali di calcio femminile, è esclusa, come per tutti i calciatori/calciatrici “non professionisti”, ogni forma di lavoro autonomo o subordinato».

Contratti e tutele

Tra le altre cose, le calciatrici in Italia non hanno dunque contratti di lavoro che garantiscano compensi mensili, previdenziali e tutele assicurative, e non hanno la possibilità di accedere a contrattazioni collettive, come ha spiegato in un’intervista al Sole 24 Ore l’avvocata di diritto sportivo Sara Messina, iscritta all’associazione Women in sports law (che ha l’obiettivo di tutelare i diritti legali delle sportive).

Nonostante alcuni tribunali italiani abbiano fatto notare che questo sembra non rispettare i principi costituzionali, ad oggi – come chiarisce un approfondimento pubblicato dalla Figc – lo status formale fa sì che «gli atleti dilettanti non godono di alcuna forma di sicurezza sociale».

Secondo la legge 81/1981, un atleta professionista svolge l’attività sportiva vedendosi garantiti la tutela sanitaria, l’assicurazione contro i rischi e il trattamento pensionistico. Questo non vale per i non professionisti.

È vero che in materia di sicurezza sociale e tutela degli atleti dilettanti fino al 2007 è esistita la Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi (Sportass), ma questa – oltre a essere soppressa per essere sostituita dall’Inps – gestiva un fondo di previdenza che erogava pensioni facoltative o complementari.

Non solo. «Dal punto di vista assicurativo – spiega l’approfondimento della Figc – le tutele offerte ai dilettanti, salvo che gli stessi non provvedano direttamente e con polizze ad hoc, non sono paragonabili nemmeno lontanamente a quelle previste per i professionisti».

Riassumendo: una calciatrice retribuita dalla propria società che si allena regolarmente e partecipa a un campionato della massima serie (come un collega maschio) non è considerata una professionista. Non può dunque firmare veri e propri accordi di lavoro, bensì «accordi economici», in base all’art. 94 quinquies (comma 2) delle Noif.

La seconda conseguenza sul piano lavorativo riguarda dunque un altro tema centrale: quello degli stipendi e della parità salariale.

Quanto guadagnano le calciatrici?

Durante i mondiali in Francia, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha criticato su Twitter Megan Rapinoe, calciatrice della nazionale statunitense vincitrice degli ultimi mondiali, che in un’intervista al magazine di settore Eight by eight aveva detto che non sarebbe andata «alla fottuta Casa bianca», neppure se invitata.

Da tempo, Rapinoe non è soltanto critica verso le politiche dell’amministrazione Trump, ma è anche una delle calciatrici più famose al mondo che porta avanti una campagna di sensibilizzazione sulla questione dell’equal pay e l’abolizione della discriminazione di genere nei salari delle calciatrici.

Questo tema non è sconosciuto all’ambiente politico italiano. A ottobre 2017, infatti, l’allora sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi aveva dichiarato che con il collega ministro dello Sport Luca Lotti avrebbe aperto un tavolo di lavoro per discutere della «parità salariale» nel calcio italiano (un’intenzione finita in un nulla di fatto).

Insomma, come abbiamo spiegato sopra nel dettaglio, le calciatrici in Italia non possono avere contratti con condizioni uguali a quelli dei loro colleghi maschi.

Questa disuguaglianza non significa però che il corrispettivo economico tra la calciatrice e la società per cui è tesserata non sia definito in alcun modo.

Secondo il già citato art. 94 quinquies (comma 2) delle Noif, le calciatrici possono sottoscrivere accordi annuali o pluriennali – della durata massima di tre anni – con un compenso lordo annuale massimo di 30.658 euro. A questi vanno poi aggiunte «somme a titolo di indennità di trasferta, rimborsi spese forfettari, voci premiali e rimborsi spese documentate relative al vitto, all’alloggio, al viaggio e al trasporto, sostenute in occasione di prestazioni effettuate fuori dal territorio comunale».

Anche i rimborsi forfettari di spese e le indennità di trasferta hanno un tetto massimo di 61,97 euro al giorno, per un massimo di cinque giorni alla settimana.

Come ha di recente spiegato un approfondimento sul tema realizzato dal sito sportivo Ultimo Uomo, se si sommano indennità e rimborsi vari al massimo lordo salariale (stabiliti dalle Noif) una calciatrice in Italia può al massimo arrivare a guadagnare 40 mila euro lordi all’anno.

Questa cifra equivale all’incirca al minimo retributivo nella Serie A maschile ed è più bassa rispetto ad alcune leghe che in Europa riconoscono il professionismo nel calcio femminile.

Per esempio, nella lega professionistica di calcio femminile più pagata al mondo – che secondo uno studio di Sporting Intelligence del 2017 è la Division 1 Féminine, la massima serie in Francia – una calciatrice guadagna in media ogni anno circa 42.200 euro (Ada Hegerberg, pallone d’oro e giocatrice del Lione, guadagna circa 400 mila euro lordi), mentre nella Frauen-Bundesliga in Germania (seconda in classifica) la cifra scende a circa 37 mila euro.

I numeri stanno crescendo?

In Italia, l’interesse per il calcio femminile è cresciuto di recente, grazie alle prestazioni della nazionale italiana ai mondiali di Francia. Ma che cosa ci dicono i numeri sul tifo e sul mercato in questo settore?

Secondo la recente ricerca ReportCalcio 2019 – realizzata dalla società internazionale di consulenza PricewaterhouseCoopers – uno dei trend più interessanti nella stagione 2017-2018 in Italia ha riguardato «il continuo e importante incremento del movimento femminile: solo negli ultimi 10 anni, sotto l’egida organizzativa della Lnd, le calciatrici tesserate sono infatti aumentate del 39,3 per cento, passando da 18.854 a 25.896».

Tra quest’ultime, nella stagione 2017-2018 13.897 praticavano l’attività dilettantistica (zero, ricordiamo, quella professionistica) e 12.017 quella nei settori giovanili e scolastici.

Una dinamica di crescita che si registra ormai da anni anche in Europa.

Secondo una ricerca della Uefa relativa alla stagione 2016-2017, dal 2012 le calciatrici professioniste o semi-professioniste tesserate sono passate da 1.303 a 2.853, più che raddoppiandosi.

Anche gli ascolti Tv per gli ultimi mondiali sono stati più alti in tutti i Paesi del mondo rispetto al passato, ma la distanza con il calcio maschile rimane enorme. Nel caso specifico dell’Italia, basti pensare che nel 2018 la Nazionale maschile ha totalizzato oltre 73,6 milioni di ascolti (con 11 partite trasmesse) contro il singolo milione circa di quelli totalizzati dalla Nazionale femminile (10 partite trasmesse).

Il settore sembra dunque essere in espansione, ma il problema resta capire se l’aumento di interesse – tra tesserate e tifo – possa sostenere i costi relativi al passaggio al professionismo, come ha sottolineato il presidente della Figc Gabriele Gravina.

Come abbiamo visto, la differenza tra professionismo e non professionismo non è solo formale, ma riguarda anche le tutele contrattuali: più elevate sono, maggiori sono i costi da affrontare per le società. Come ha dichiarato Gravina, il rischio del passaggio al professionismo è che i costi per molti potrebbero essere «insostenibili».

Un’opzione proposta dal presidente della Figc è dunque quella di introdurre sgravi fiscali per le società in questo settore, che sarebbero così in grado di far fronte all’aumento dei costi.

In tutto il mondo, il giro d’affari tra calcio maschile è infatti ancora molto più grande di quello femminile.

Se si guarda solo ai numeri del calciomercato nel mondo, secondo i dati ufficiali della Fifa, nel 2018 nel calcio maschile sono stati spesi oltre 7 miliardi di dollari nella compravendita di giocatori; in quello femminile, poco più di 500 mila.

Discorso analogo vale per i ricavi. Prendiamo in considerazione, per esempio, quelli in Italia relativi ai diritti televisivi per le partite delle nazionali. Nel 2018 – secondo il ReportCalcio 2019 – i ricavi in questo settore per la trasmissione delle amichevoli della nazionale maschile avevano un valore pari a 31 milioni di euro, contro gli 800 mila euro per le partite delle nazionali femminili e giovanili.

Un rapporto di 1 a 39. Se consideriamo però che un calciatore professionista di Serie A guadagna in media circa 1,7 milioni di euro l’anno, rispetto ai 40 mila euro che può guadagnare al massimo una calciatrice c’è un rapporto di 1 a 42,5.

Ovviamente non si può guardare solo ai ricavi per la trasmissione delle partite per fare un confronto, ma c’entrano anche gli sponsor, il merchandising e via dicendo.

Che cosa vuole fare il governo?

Sulla distinzione tra professionismo e dilettantismo, il governo e il Parlamento hanno comunque mosso alcuni passi.

Come abbiamo visto in precedenza, secondo la legge del 1981 le federazioni hanno autonomia nell’aderire al settore professionistico, con differenze interne a seconda delle leghe e associazioni.

Negli anni, questa soluzione – spiega un articolo di approfondimento pubblicato nel 2011 sul sito di informazione giuridica Altalex – «ha suscitato nella dottrina notevoli perplessità».

In concreto, oltre al calcio femminile, atlete e atleti in svariate discipline – dalla pallavolo al nuoto – sono esclusi dal professionismo sportivo. Per esempio, a gennaio 2019 la nuotatrice italiana Federica Pellegrini – plurimedagliata alle Olimpiadi – ha ricordato che il suo sport non è considerato in Italia «professionismo».

Uno degli ultimi tentativi di modifica alla “Legge sul professionismo sportivo” risale alla scorsa legislatura, quando la deputata del Partito democratico Laura Coccia aveva presentato a novembre 2014 un disegno di legge, senza ottenere alcun risultato.

Nelle intenzioni di Coccia, l’art. 2 (analizzato in precedenza) doveva essere modificato con l’inserimento della frase «nel rispetto dei princìpi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione».

Ad oggi, che cosa ha fatto in questo settore il governo Lega-M5s? Nel capitolo dedicato allo sport nel Contratto di governo – firmato il 18 maggio 2018 – mancano riferimenti alla questione del professionismo sportivo.

Il 10 luglio, il sottosegretario ai rapporti col parlamento Simone Valente (Movimento 5 stelle) ha comunque dichiarato che «il governo è impegnato nel superamento della distinzione tra dilettantismo e professionismo, con l’introduzione della figura del lavoratore sportivo». Una modifica generale che dovrebbe dunque coinvolgere tutto lo sport e non solo il calcio, per di più femminile.

Il suo alleato di maggioranza Giorgetti (Lega) ha ribadito lo stesso giorno che il professionismo lo si riesce a garantire solo se i costi saranno «compensati da qualche ricavo, altrimenti occorre riflettere».

Per quando riguarda l’operato legislativo, il 31 gennaio 2019 il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto “collegato Sport”, un disegno di legge legato alla legge di Bilancio per il 2019 che, tra le altre cose, ha l’obiettivo di «riformare e riordinare le disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché del rapporto di lavoro sportivo» attraverso specifiche deleghe al governo.

Il 27 giugno 2019, il testo è stato approvato dalla Camera con alcune modifiche, ed è ora in esame al Senato.