Dal 1° al 12 dicembre tutti gli occhi sono puntati su Lima, la capitale del Perù. La città sta infatti ospitando la 20esima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite per i Cambiamenti Climatici. L’argomento è a dir poco tecnico ma estremamente importante, ed è proprio per questo che Pagella Politica vi tiene informati sugli aspetti più importanti sul tema.


Quali sono gli effetti del cambiamento climatico?


L’Intergovernmental panel on climate change (IPCC) è un comitato scientifico insediato dall’ONU all’inizio degli anni ‘90, e sostiene che le tracce a sostegno della teoria del surriscaldamento globale sono inequivocabili. A partire dagli anni ’50, inoltre, molti dei cambiamenti climatici osservati sarebbero senza precedenti, dal surriscaldamento dell’atmosfera e degli oceani alla riduzione di quantità di neve e ghiaccio, per non parlare della concentrazione di gas serra nell’atmosfera o dell’aumento del livello dei mari.


Come indica uno studio della Banca Mondiale, quest’ultimo effetto è particolarmente preoccupante per numerose tra le città costiere più grandi del mondo. Si va da Guangzhou, in Cina, fino alle più conosciute Miami e New York, proprio come aveva indicato anche il sindaco di Roma Ignazio Marino in un’analisi recentemente analizzata da Pagella Politica. Con un occhio al 2050, la Banca Mondiale indica che anche città portuali come Napoli potrebbero essere a rischio.


È vero che il cambiamento climatico è causato dall’uomo?


L’Environmental Protection Agency statunitense (EPA) spiega che la Terra attraversi cicli di riscaldamento e raffreddamento naturali, causati da fattori come il sole o attività vulcaniche. Il surriscaldamento osservato negli ultimi 50 anni, però, sembrerebbe difficilmente spiegabile se considerassimo solamente i fattori naturali. Il grafico in basso rappresenta la temperatura media osservata con una linea nera. Si può chiaramente vedere come i modelli climatici che considerano solamente i fattori naturali (linea celeste) non prevedano aumenti drammatici della temperatura terrestre dopo il 1950. Il surriscaldamento è visibile solamente se prendiamo in considerazione gli effetti causati dall’essere umano (linea rossa). http://climatechangeconnection.org/science/are-humans-the-cause/



D’altronde è lo stesso IPCC ad informare come, molto probabilmente, sia l’uomo ad essere la causa dominante del riscaldamento globale osservato a partire dalla metà del secolo scorso. A partire dal 1850 le ultime tre decadi sono state le più calde mai registrate, e la concentrazione di anidride carbonica, maggiormente dovuta alle emissioni di combustibili fossili, non è mai stata così alta.


È vero che i Paesi sviluppati sono responsabili per la maggior parte delle emissioni?


Uno dei dibattiti più accesi sul cambiamento climatico a livello mondiale è quello sulle “responsabilità storiche” delle emissioni, introdotto per la prima volta dal Brasile durante le negoziazioni sul Protocollo di Kyoto nel 1997. Secondo questa logica, ogni Paese dovrebbe ridurre le proprie emissioni a seconda delle loro emissioni storiche a partire dal 1840, permettendo a quei Paesi con emissioni inferiori di effettuare la propria “rivoluzione industriale”.


I dati più recenti sulle emissioni risalgono al 2011, e rivelano che i Paesi che emettono di più erano Cina, Stati Uniti, India, Russia e Giappone. Per quel che riguarda l’Europa, invece, il record apparteneva alla Germania, all’ottavo posto nella classifica mondiale, mentre l’Unione europea ed i 28 Paesi che la compongono si trovavano ad essere responsabili del 10% delle emissioni globali. Terzo posto dopo la Cina (24,1%) e gli Stati Uniti (14,9%).



Se consideriamo le emissioni di anidride carbonica storiche a partire dall’era industriale, invece, notiamo un riassestamento dell’ordine di cui sopra. I primi tre Paesi (o, nel caso dell’UE, regioni) sono gli stessi ma invertono le posizioni – gli Stati Uniti divengono il primo responsabile del disastro climatico. Per quel che riguarda gli altri Paesi, il risultato è ovvio – a trarre vantaggio da questa visuale sono i Paesi di sviluppo industriale più recente, come l’India o il Brasile. Paesi come il Giappone o la Russia, invece, vedono aumentare significativamente la loro incidenza.



Quest’ultimo punto di vista sembrerebbe insomma favorire i Paesi “in via di sviluppo”, anche se rimane interessante notare la rapidità con cui diversi di questi, in particolare tra i “BRICS”, abbiano aumentato le proprie emissioni di gas a effetto serra.



Cosa si sta facendo per affrontare l’aumento di emissioni?


L’accordo più famoso scaturito dalle convenzioni COP è probabilmente il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997, attraverso il quale i firmatari si impegnano a ridurre le proprie emissioni di gas serra. L’Unione europea, che a suo tempo era composta da 15 Paesi, si era impegnata a ridurre le proprie emissioni dell’8% rispetto ai livelli del 1990. Nel 2012 gli obiettivi di riduzione erano stati non solo raggiunti, ma più che raddoppiati. Un crollo delle emissioni pari al –19,2%, causato in parte da crisi economica, inverni miti in diversi Paesi e l’alto prezzo del petrolio.


Un altro accordo è stato trovato nel 2010 durante la COP numero 16 tenutasi a Cancún (Messico), dove i Paesi che ne prendevano parte avevano raggiunto un consenso sulla necessità di ridurre le emissioni per evitare che la temperatura terrestre aumentasse di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Sebbene quest’aumento fosse (e sia tutt’ora) considerato il limite massimo per assicurare il 50% di probabilità di evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico, il dibattito è molto acceso, e molti studiosi ritengono che questo limite non sia sufficiente per evitare effetti disastrosi nel lungo termine.


L’Unione europea ha adottato un nuovo quadro per la riduzione delle emissioni fino al 2030, che stabilisce un obiettivo di riduzione pari al 40% meno rispetto ai livelli del 1990, accordo che è però stato oggetto di diverse critiche per le sue caratteristiche troppo vaghe e volontarie.


La COP che ha luogo in questi giorni ha come obiettivo la preparazione della COP21, che si terrà il prossimo anno in Francia. Si spera l’anno prossimo di approvare l’“Accordo di Parigi”, che definirà nuovi impegni di riduzione delle emissioni di gas serra a livello mondiale a partire dal 2020, anno di scadenza del Protocollo di Kyoto.