Il 13 maggio 2019, a Brembate (Bergamo), si è assistito al caso più recente di rimozione di uno striscione che criticava la presenza del ministro dell’Interno Matteo Salvini in occasione del suo tour elettorale.

Sull’accaduto c’è stata una polemica all’interno del governo. Il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio ha stigmatizzato il «nervosismo» e la «tensione» che si respira nelle piazze italiane, segnalando episodi come «sequestri di telefonini, persone segnalate, striscioni ritirati», e invitando tutti ad abbassare i toni.

Ma si possono rimuovere gli striscioni contro Salvini? Se sì, in base a quali leggi? Abbiamo verificato.

Che cosa dice la legge?

Secondo un’interpretazione ampia di una legge del 1948 (d.p.r. 26/1948) gli striscioni possono essere rimossi. L’articolo 72 stabilisce infatti che «chiunque con qualsiasi mezzo impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale, sia pubblica che privata, è punito con la reclusione da uno a tre anni» e con una multa.

In un’intervista al Corriere della Sera dell’11 maggio, il capo della Polizia Franco Gabrielli aveva ricordato che «per i comizi elettorali c’è addirittura una norma posta a garanzia del loro svolgimento senza provocazioni di sorta». E che «quando si verificano situazioni di potenziale turbativa, spetta al funzionario in strada fare le valutazioni del caso ed evitare che possano provocare conseguenze».

Ma a fianco di questa norma va considerato l’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di espressione. La Carta costituzionale recita infatti che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Secondo lo stesso articolo, questo diritto può essere limitato solamente a norma di legge. Bisogna quindi bilanciare diversi interessi in gioco, andando a verificare se la manifestazione del caso violi altri diritti costituzionalmente garantiti.

L’opinione della Corte Costituzionale

Un approfondimento scritto dal giudice Giuseppe Nicastro a maggio 2015 per la Corte Costituzionale ricorda che «il nostro codice penale privilegia, ancorché non in modo assoluto, la tutela dell’onore rispetto alla tutela della libertà di manifestazione del pensiero».

In altre parole, le norme del nostro codice penale ritengono in generale più importante salvaguardare la reputazione di una persona rispetto al diritto di un altro soggetto di criticarla. Ciò significa che la critica dovrà – di norma – essere giustificata da interessi più importanti, almeno in quella circostanza, della tutela della reputazione della persona criticata (come, per esempio, il diritto di cronaca).

La salvaguardia della reputazione di una persona assume poi maggiore rilevanza quando si tratta di politici e funzionari pubblici per i quali la legge prevede ulteriori garanzie (come, per esempio, l’oltraggio a pubblico ufficiale) «al fine di tutelare, oltre alla persona del funzionario oltraggiato, anche la funzione da lui esercitata», specifica ancora l’approfondimento.

L’intento generale della legge italiana, dunque, è quello di fare in modo che ci sia rispetto tanto per la persona, quanto per il ruolo istituzionale che riveste.

Un diritto non assoluto

Per chiarire quando la tutela della reputazione di una persona possa venire meno, è intervenuta anche la Corte di Cassazione, con una sentenza del 2011.

La Corte ha evidenziato che, per natura, ogni critica è potenzialmente lesiva della reputazione di una persona. Quindi non si può escludere a priori il diritto di critica semplicemente perché si rischia di intaccare la reputazione di qualcuno. Se ciò avvenisse, si limiterebbe in modo inaccettabile la libertà di pensiero.

La Corte ha quindi stabilito che è possibile manifestare critiche, anche se lesive dell’onore altrui, «purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato».

Che cosa vuol dire? Per semplificare la questione possiamo distinguere tra una manifestazione di dissenso e un insulto.

Nel primo caso il cittadino ha il diritto di esprimere la propria opinione (che sarà logicamente contraria) purché si utilizzino modalità, toni e termini che rispettano l’oggetto della propria critica. Lo scopo, quindi, non deve essere l’attacco personale, quanto una critica legata a particolari scelte, avvenimenti o vicende.

Se, invece, il cittadino opta per «un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto», passa dalla parte del torto. In questo caso, infatti, non ci si limita a esprimere la propria opinione o a manifestare per i propri ideali, ma si agisce con l’intento di attaccare e sminuire un soggetto e il ruolo istituzionale che ricopre.

«Salvini non sei il benvenuto», «Questa Lega è una vergogna»

Sotto l’aspetto legale, il punto sta quindi nello stabilire se gli striscioni esposti (come quello di Brembate: «Salvini non sei il benvenuto», o quello di Salerno: «Questa Lega è una vergogna») non debbano essere toccati perché rappresentano un’opinione espressa in modo legittimo, oppure se debbano essere rimossi perché costituiscono un’aggressione gratuita alla reputazione del ministro dell’Interno.

Questo giudizio sull’opportunità o meno di rimuovere un cartellone, spetta – secondo quanto affermato dal capo della Polizia Gabrielli nella citata intervista al Corriere della Sera«al funzionario in strada», che deve «fare le valutazioni del caso».

Come ha ricordato Il Post il 14 maggio, le forze dell’ordine erano già intervenute in passato per rimozione di uno striscione rivolto contro un esponente politico di governo. Nel 2017 la polizia aveva infatti rimosso cartelloni che criticavano l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e, in un’altra occasione, il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Sembra dunque che, in quanto titolari del potere di far rispettare la legge, le forze dell’ordine abbiano il potere di rimuovere uno striscione se ritengono che il suo contenuto sia offensivo. Ciò non toglie il diritto del cittadino che ha manifestato la critica a fare ricorso in tribunale contro la rimozione, così come può fare per qualsiasi altra decisione presa dalle forze dell’ordine contro di lui (come, per esempio, una multa stradale o una perquisizione).

In conclusione

Mentre è chiaro che le forze dell’ordine possono rimuovere striscioni contenenti insulti, non è chiaro se un’azione simile sia lecita quando viene espressa un’opinione non offensiva.

La giurisprudenza delle corti tutela sia il diritto a manifestare la propria opinione di dissenso, sia il diritto di svolgere un comizio in maniera indisturbata. È compito quindi delle autorità – e della magistratura, nel caso in cui un cittadino faccia ricorso – stabilire se il contenuto di uno striscione ricada nell’uno o nell’altro caso.