Tra le proposte indicate nella versione definitiva del “Contratto per il governo del cambiamento”, pubblicato il 18 maggio scorso da Movimento 5 Stelle e Lega, si nomina anche il vincolo di mandato. Nel capitolo 20, infatti, si trova il seguente paragrafo:



«Occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo. Del resto, altri ordinamenti, anche europei, contengono previsioni volte a impedire le defezioni e a far sì che i gruppi parlamentari siano sempre espressione di forze politiche presentatesi dinanzi agli elettori, come si può ricavare dall’articolo 160 della Costituzione portoghese o dalla disciplina dei gruppi parlamentari in Spagna».



Ma che cos’è il vincolo di mandato, che secondo alcuni critici renderebbe inutile e superfluo l’intero Parlamento? Ed è vero che esiste anche in altri paesi europei? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su una proposta che trova supporto anche in altri schieramenti.



In campagna elettorale, infatti, Silvio Berlusconi ha più volte detto di essere favorevole all’introduzione di un vincolo di mandato. Anche alcuni esponenti del Partito Democratico, come l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, sostengono che questo strumento possa risolvere il fenomeno del trasformismo parlamentare.



Il problema del trasformismo parlamentare



In politica, il termine “trasformismo” indica quel fenomeno per cui un politico (o un gruppo di politici) decide di cambiare schieramento, passando in alcuni casi a una fazione avversaria.



La legislatura da poco conclusa ha visto un record assoluto nel numero dei cambi di gruppo, con una media di circa dieci ogni mese. Secondo un’analisi di Openpolis, dal 2013 al 2018 ci sono stati in totale 566 passaggi di gruppo in Parlamento: 313 alla Camera e 253 al Senato. È stato coinvolto più di un eletto su tre, ossia 347 parlamentari, e 48 di loro hanno cambiato gruppo almeno tre volte. Nella legislatura precedente (dal 2008 al 2013), i cambi erano stati “appena” 261, meno della metà: 165 alla Camera e 96 al Senato.



Il grafico successivo mostra che negli ultimi anni il fenomeno del trasformismo è in crescita, a causa anche del succedersi di tre governi, della creazione di nuove maggioranza e della scissione di grandi partiti come Popolo della Libertà e Partito Democratico.



graph



Nel clima di confusione politica, è innegabile che questa mobilità continua di senatori e deputati complichi non solo il rapporto tra elettori ed eletti, ma anche la comprensione dei processi politici e parlamentari.



Il vincolo di mandato può essere una soluzione?



Che cos’è la libertà di mandato



L’articolo della Costituzione che Lega e M5S vogliono modificare è il 67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.



Questa frase stabilisce che gli eletti non sono obbligati a votare come indicato dal loro partito di appartenenza, ma sono liberi di scegliere di volta in volta. Un’indicazione simile è contenuta anche nei regolamenti della Camera (articolo 83, comma 1) e del Senato (articolo 84, comma 1), dove si spiega che un singolo parlamentare può esporre le proprie posizioni a titolo personale, anche se in disaccordo con quelle del gruppo parlamentare a cui è iscritto.



Alla base dell’articolo 67 c’è l’idea che i parlamentari rappresentano tutto il popolo italiano: hanno il diritto di esercitare il loro voto e le loro funzioni liberamente. Non esiste quindi un obbligo giuridico tra chi viene eletto e chi l’ha votato, ma soltanto una responsabilità politica che idealmente è valutata in sede di voto: se gli elettori non sono soddisfatti di un eletto, non lo voteranno più. In questo modo, i parlamentari – siano essi deputati o senatori – devono fare gli interessi del Paese, e non del singolo partito o movimento che li ha portati in Parlamento.



La concezione della libertà di mandato si delinea nel Diciottesimo secolo. Gli studiosi sono concordi nello stabilire la sua prima definizione nel Discorso agli elettori di Bristol (3 novembre 1774) del politico britannico Edmund Burke, secondo cui il parlamento è un’assemblea dove dovrebbe essere di guida il bene generale, e non gli interessi e i pregiudizi locali.



Questo principio delle democrazie rappresentative fu inserito nella Costituzione francese del 1791, grazie all’elaborazione del politico Emmanuel Joseph Sieyès. Nel 1848, la libertà di mandato venne menzionata anche nello Statuto Albertino, dove l’articolo 41 indicava che a nessun deputato può darsi dagli elettori un “mandato imperativo”.



Che cos’è il vincolo di mandato



L’opposto della libertà di mandato è appunto il mandato imperativo (imperative mandate, in inglese), o vincolo di mandato. In questo caso, gli eletti non possono votare in modo diverso rispetto alle indicazioni dei propri elettori e del proprio partito. E, di conseguenza, non possono cambiare schieramento o gruppo parlamentare, a meno di incorrere in pene come la perdita del seggio.



Questo istituto giuridico ha origine nel diritto romano e si è sviluppato nel corso dei secoli. Per esempio, nella Spagna del XIII secolo i rappresentanti delle città nel Regno di Castiglia e León dovevano giurare di rispettare nelle Cortes le istruzioni dei loro elettori. Discorso simile vale per i rappresentanti negli Stati Generali in Francia, le assemblee di origine feudale in cui si riunivano i tre ceti sociali del Paese.



Nel XVIII secolo, il mandato imperativo ha tratto forza dalle idee del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, per poi essere sperimentato nella Comune di Parigi del 1871 e trovare la sua realizzazione nei regimi comunisti, dove il partito comunista imponeva il controllo dell’orientamento ideologico dei suoi eletti attraverso il divieto di esprimere liberamente il proprio voto.



A oggi, la maggioranza delle democrazie rappresentative ha nella propria Costituzione il divieto di mandato imperativo, come mostra l’archivio dell’Inter-Parliamentary Union, che cataloga tutte le forme di mandato parlamentare nel mondo.



La giustificazione più utilizzata è che un vincolo troppo stretto tra eletto, partiti ed elettori può favorire la formazione di esecutivi non democratici. O addirittura, la nascita di regimi dittatoriali, in cui il potere dei parlamenti è esautorato e dato in mano a singoli partiti.



Il problema centrale del dibattito è che l’assenza di un vincolo giuridico tra le parti sembra però incentivare il fenomeno del trasformismo parlamentare. Come rispondere a questa obiezione? Vediamo come funziona il vincolo di mandato nel mondo, per poi affrontare questa domanda nell’ultima parte dell’articolo.



In Portogallo esiste davvero il vincolo di mandato?



Il contratto di governo sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini dice che in Portogallo – dove vige una struttura monocamerale con un sistema elettorale proporzionale – esiste il vincolo di mandato. In realtà, questa affermazione è inesatta.



L’articolo 160 della Costituzione portoghese del 1976 – citato nel documento – stabilisce che i deputati perdono il seggio se si iscrivono a un partito diverso da quello a cui si sono presentati alle elezioni.



Ma siamo di fronte a una vera e propria costituzionalizzazione del mandato imperativo? No, e lo dimostrano due articoli della Costituzione portoghese. L’articolo 152, comma 2, dice che i deputati rappresentano tutto il Paese, mentre l’articolo 155, comma 1, ribadisce che gli eletti esercitano liberamente il loro mandato.



La misura “anti-trasformismo” indicata dall’articolo 160 si può poi aggirare in modo abbastanza facile. Un parlamentare, una volta abbandonato il proprio partito, non perde il seggio se non si iscrive in un altro schieramento. Basta semplicemente che resti indipendente, una formula simile all’iscrizione nel gruppo misto in Italia.



Una dimostrazione recente è quella di gennaio 2017, quando il deputato Domingos Pereira è diventato indipendente e ha deciso di votare contro l’esecutivo di Antonio Costa, mettendo in crisi la maggioranza di governo nell’Assemblea della Repubblica.



E in Spagna?



Discorso simile vale per il riferimento ai gruppi parlamentari spagnoli. Anche in Spagna, infatti, non esiste il vincolo di mandato. L’articolo 67, comma 2, della Costituzione spagnola dice espressamente che i membri delle Camere non sono vincolati da mandato imperativo.



Nel Paese iberico ci sono stati però tentativi di contrastare il fenomeno del transformismo, attraverso un vero e proprio patto tra le forze politiche. A partire dal 1998, i rappresentanti dei partiti politici spagnoli e il ministero delle Amministrazioni pubbliche hanno ciclicamente sottoscritto l’Acuerdo sobre un código de conducta politica en relación con el transfuguismo en las corporaziones locales, un accordo per impedire che singoli politici cambino schieramento in parlamento.



Si tratta quindi di un accordo, che non ha la stessa forza di una norma costituzionale. E le conseguenze non mancano, come dimostrato quando un partito – Ciudadanos, a maggio 2018 – ha deciso di non sottoscrivere l’accordo.



Il caso dell’Ucraina



Un precedente interessante mostra qual è stata la reazione delle istituzioni europee all’introduzione del vincolo di mandato in un Paese che in futuro potrebbe entrare a fare parte dell’Unione europea.



L’8 dicembre 2004, una modifica della Costituzione in Ucraina aveva introdotto una norma secondo cui i parlamentari erano vincolati per legge a rimanere nel partito o nel gruppo per il quale erano stati eletti.



A giugno 2009, la Commissione di Venezia aveva pubblicato un report, intitolato On the imperative mandate and similar practices, che criticava duramente questa iniziativa. Nel testo, la Commissione – che è un organo consultivo del Consiglio d’Europa su questioni giuridiche – ribadiva che questa regolamentazione non è accettabile per uno stato democratico: il vincolo di mandato non è compatibile con il ruolo di un deputato in qualsiasi sistema parlamentare libero.



Dopo essere stata cancellata dalla Corte costituzionale del Paese nel 2010, la modifica è stata reintrodotta nel 2014 con un voto del Parlamento, in un tentativo più articolato per limitare i poteri presidenziali e ampliare quelli del governo.



Il Consiglio federale tedesco



Alcuni potrebbero sostenere che una forma di vincolo di mandato esista, in realtà, in Germania.



La Costituzione tedesca, all’articolo 38, comma 1, dice espressamente che gli eletti al Bundestag, ossia il parlamento federale, sono “i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati né da direttive e sono soggetti soltanto alla loro coscienza”. Ma un discorso diverso vale per il Bundesrat: il Consiglio federale è composto da 69 membri, che rappresentano i singoli stati federali. La loro elezione non è diretta e il numero di delegati per stato cambia a seconda della popolazione.



Per quanto riguarda il mandato, ogni membro è espressione della coalizione (o del partito) che governa il singolo stato e deve votare in modo uguale agli altri rappresentanti del suo stato di appartenenza. Altrimenti, può essere sostituito e sollevato dal suo incarico. In questo caso, insomma, si potrebbe parlare di vincolo di mandato: ma non si tratta di rappresentanti eletti, e dunque non c’è un vero e proprio “mandato” popolare da rispettare.



Come funziona il vincolo di mandato nel mondo



Il rapporto della Commissione di Venezia mostra che, se ci si addentra nel campo del diritto comparato, diventa complicato stabilire con chiarezza quando si ha a che fare con sistemi politici con vincoli di mandato o forme simili.



Alcuni Paesi retti da un regime comunista, come Corea del Nord, Vietnam, Cina e Cuba, mantengono esplicitamente l’istituto giuridico del mandato imperativo. In altri, vigono sistemi che spesso sono confusi con il vincolo di mandato, ma che in realtà regolamentano strumenti costituzionali un po’ diversi.



Un esempio è la recall election, una procedura che permette agli elettori di “richiamare” un eletto a rimettere il proprio mandato se non soddisfatti del suo operato. Un sistema simile vige per esempio in 18 stati degli Stati Uniti, in Venezuela e in alcuni cantoni svizzeri.



In un articolo del Sole 24 Ore del 2013, il costituzionalista Francesco Clementi spiegava che “il vincolo di mandato è previsto solo in Portogallo, a Panama, in Bangladesh e in India”. Nel caso portoghese, in realtà, ci sono modi relativamente semplici per votare in modo diverso rispetto al proprio partito senza perdere il seggio.



Vediamo un esempio concreto, tra gli altri Paesi citati. In Bangladesh, l’articolo 70, comma 1 della Costituzione dice che un parlamentare perde il seggio se vota contro il suo gruppo parlamentare oppure se si dimette dal proprio partito, ma può presentarsi alle elezioni successive. Procedura analoga è costituzionalizzata in India e a Panama.



Ci sono anche altri casi che vanno nella direzione della perdita del seggio per chi vota in modo difforme, oltre a quelli elencati da Clementi: sistemi simili vigono per esempio anche in Nigeria, Nepal, Figi e Pakistan, elenca la Commissione di Venezia.



Esistono alternative per limitare il trasformismo politico?



In Italia, oltre che dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari, il divieto del vincolo di mandato è stato ribadito anche da una sentenza della Corte Costituzionale. La numero 14 del 1964 stabilisce che ogni parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma che è anche libero di sottrarsene: “nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.



Abbiamo visto che il vincolo di mandato è un’eccezione nel panorama politico mondiale, e quasi assente in Europa. Ma esistono alternative per limitare il fenomeno del trasformismo politico?



Partiamo dal presupposto che la mobilità parlamentare ha molte cause, ed è in una qualche misura insita nella democrazia rappresentativa. Ci sono le cause politiche (un partito cambia orientamento nei confronti di un governo oppure una coalizione rompe l’alleanza che l’ha formata); ci sono cause soggettive, riguardanti le aspettative di carriera di un politico e le sue eventuali divergenze personali con il proprio partito; e ci sono le cause giuridiche, che riguardano la forma di governo, il sistema elettorale e i regolamenti parlamentari.



Senza addentrarsi nelle questioni di giurisprudenza e di dottrina politica, segnaliamo tre possibili soluzioni – non alternative l’una all’altra – che vanno ad agire su queste cause, senza limitare il principio democratico della libertà di mandato.



Un primo strumento di contrasto al trasformismo è la modifica dei regolamenti parlamentari, come fatto di recente con quello del Senato. Dall’attuale Legislatura (la XVIII), è infatti limitata la possibilità di creare nuovi gruppi parlamentari rispetto ai partiti e alle coalizioni che si sono presentati alle elezioni. Si possono fondere gruppi già esistenti, ma chi abbandona il proprio gruppo può farlo spostandosi solo nel gruppo misto.



Una seconda soluzione riguarda la legge elettorale. È la stessa Commissione di Venezia a sottolineare come la struttura di un sistema elettorali possa ricostruire un rapporto solido tra eletto ed elettore. Una legge elettorale in linea con la Costituzione può rafforzare la responsabilità politica che esiste idealmente tra chi vota e chi viene votato, senza la necessità di inserire vincoli giuridici.



La terza e ultima proposta riguarda i regolamenti dei singoli partiti. A oggi, le scissioni di schieramenti come il Popolo della Libertà e del Partito Democratico sono avvenuti con uno scarso coinvolgimento delle basi di entrambi i partiti. Maggiore democraticità, trasparenza e coinvolgimento dei cittadini permetterebbe di comprendere meglio i processi politici del Paese; di creare un dialogo più costruttivo tra le parti; e di limitare le scissioni e il conseguente aumento dei gruppi parlamentari.