L’accoglienza degli ucraini è affidata soprattutto ai privati, nonostante gli impegni del governo

Le iniziative gestite direttamente dalle istituzioni hanno un impatto marginale, mentre molti si affidano a parenti o associazioni del terzo settore
EPA/MARTIN DIVISEK
EPA/MARTIN DIVISEK
La guerra in Ucraina ha costretto più di 3 milioni di persone ad abbandonare il Paese, secondo i dati più aggiornati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Tra questi, al 21 marzo, quasi 60 mila sono arrivati in Italia, di cui 30 mila donne, 24 mila minori e 5 mila uomini. La maggior parte dei profughi sono diretti verso le città di Milano, Roma, Napoli e Bologna, dove in molti casi chi scappa dalla guerra può contare su amici e familiari pronti a ospitarli. Solo chi non ha nessun contatto viene indirizzato verso i centri di accoglienza straordinaria (Cas) o nelle strutture del sistema di accoglienza e integrazione (Sai), gestiti rispettivamente dalle prefetture e dagli enti locali. 

Al momento la macchina dell’accoglienza italiana per i rifugiati ucraini, attivata in tempi molto rapidi, si basa soprattutto sulla disponibilità di singoli cittadini e sul lavoro di associazioni del terzo settore, mentre i posti messi a disposizione direttamente dal governo svolgono finora un ruolo marginale nella gestione della crisi umanitaria.

Come funziona l’accoglienza

Il 3 marzo l’Unione europea ha deciso di attivare per la prima volta la direttiva n. 55 del 20 luglio 2011, che riguarda le «norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati». In questo modo, le persone che dall’inizio del conflitto (24 febbraio) si spostano dall’Ucraina verso i Paesi membri possono godere dello status di protezione temporanea per un anno, prorogabile poi per altri 12 mesi. Questo offre una serie di garanzie, tra cui il permesso di soggiorno, l’accesso al mercato del lavoro, l’accesso all’alloggio e ai servizi di assistenza medica e sociale.

Grazie a un regolamento approvato dal Consiglio europeo nel 2017, i cittadini ucraini possono rimanere nei Paesi dell’Unione europea per 90 giorni senza aver bisogno di visti particolari, e ora possono quindi sfruttare quel periodo di tempo per presentare la domanda di protezione temporanea. Per quanto riguarda l’Italia in particolare, ai rifugiati è richiesto di eseguire un tampone Covid-19 entro 48 ore dall’arrivo, ed entro cinque giorni potranno decidere di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid o ad altre vaccinazioni essenziali, come quelle contro il morbillo o la rosolia.

Una volta completate le prime pratiche presso gli hub di accoglienza predisposti nelle principali città italiane, la maggior parte dei cittadini ucraini raggiunge i propri amici o parenti sparsi per il Paese. In alternativa, chi non ha un alloggio può accedere ai centri gestiti a livello centrale dalle istituzioni, come i Cas e i Sai.

I centri di accoglienza

Il primo decreto-legge contenente «disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina» è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 25 febbraio, il giorno successivo allo scoppio del conflitto, e ha poi ricevuto via libera alla Camera il 17 marzo. Il testo ha assorbito anche le misure inizialmente previste da un secondo decreto sullo stesso tema, che è poi stato abrogato, e attende ora il via libera del Senato. 
Tra le altre cose, il decreto dispone l’attivazione di 3 mila nuovi posti nel Sai e stanzia circa 54 milioni di euro «per far fronte alle eccezionali esigenze di accoglienza dei cittadini ucraini», che secondo il ministero dell’Interno saranno sufficienti per aggiungere altri 5 mila posti nei circuiti di accoglienza straordinaria (Cas). 

Più nello specifico, i Cas sono strutture gestite dalle prefetture – e quindi dal ministero dell’Interno – pensate per un soggiorno solo temporaneo, anche se in realtà da anni questi centri ospitano la maggior parte dei migranti. Proprio in virtù del loro carattere teoricamente transitorio, i Cas sono tenuti a offrire soltanto vitto e alloggio ai migranti. Il Sai, invece, è gestito dagli enti locali in collaborazione con le prefetture e dovrebbe assicurare una serie di attività utili all’inserimento dei rifugiati nel nostro Paese, come corsi di lingua italiana, servizi di aiuto legale o volti all’inserimento lavorativo e abitativo. Al 15 febbraio scorso, quindi poco prima dell’inizio della guerra in Ucraina, erano ospitati in queste strutture circa 77 mila migranti, di cui 26 mila nei Sai e i restanti 51 mila nei Cas. 

Se l’attivazione di posti aggiuntivi nei Cas può avvenire abbastanza rapidamente, l’espansione dei sistemi di accoglienza e integrazione è più complessa. In questo caso infatti il ministero dell’Interno deve aprire un bando pubblico per individuare i comuni disponibili ad aumentare il numero di centri presenti sul proprio territorio, trovare gli spazi, selezionare i progetti vincitori e infine distribuire i fondi. Un sistema macchinoso, che non permette di rendere immediatamente disponibili i posti. 

Per fare un esempio, l’8 ottobre 2021 il governo aveva autorizzato, con un decreto-legge, la creazione di ulteriori 3 mila posti Sai per accogliere i rifugiati in arrivo dall’Afghanistan. Le domande dovevano essere presentate entro il successivo 26 novembre, e la lista dei progetti selezionati e dei relativi fondi è stata comunicata tra dicembre 2021 e gennaio 2022. Il Ministero dell’Interno ha aperto il bando per l’attivazione dei 3.530 posti Sai previsti dal decreto “Ucraina” lo scorso 17 marzo, e i comuni interessati dovranno presentare le domande entro il 19 aprile. In seguito partirà la valutazione delle domande e infine il finanziamento dei progetti selezionati. 

In generale, comunque, se si considera che il governo ha stabilito l’attivazione di 8 mila posti aggiuntivi nei centri di accoglienza – 5 mila previsti nei Cas e 3 mila nei Sai –, e i profughi ucraini arrivati in Italia sono già quasi 60 mila, è evidente che queste strutture non saranno comunque in grado di gestire l’emergenza in modo soddisfacente. Tanto che, al momento, la macchina dell’accoglienza si basa già in larga parte sull’operato del terzo settore e dei privati cittadini. 

La rete dei privati

Come detto, la maggior parte degli ucraini che arrivano in Italia scappando dalla guerra può contare su una rete di parenti e amici disposti a ospitarli. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nel 2019 erano presenti in Italia più di 230 mila ucraini, di cui quasi l’80 per cento donne. La maggior parte di queste persone viveva in Lombardia, Campania ed Emilia-Romagna: non a caso le regioni verso cui oggi si dirige gran parte dei profughi in fuga dal conflitto. 

Chi può va da parenti o amici, ma sono centinaia anche le famiglie italiane che pur senza avere alcun legame diretto hanno a messo a disposizione la propria abitazione per ospitare persone ucraine. Le grandi città si stanno organizzando per gestire questo meccanismo, che non è una novità assoluta – associazioni come Refugees Welcome offrono la possibilità di accogliere rifugiati in case private già da anni – ma ora diventato più popolare. Il comune di Roma, per esempio, ha attivato un “Albo delle famiglie accoglienti”. «Abbiamo già ricevuto 400 offerte. Ora dovremo fare le verifiche necessarie, ma il servizio è partito», ha spiegato a Pagella Politica una fonte interna al Campidoglio.

A Milano, una portavoce dell’amministrazione comunale ha spiegato a Pagella Politica che circa il 90 per cento dei rifugiati ucraini ha già una sistemazione grazie al proprio giro di amici e parenti. La protezione civile comunale ha attivato un hub nel sottopasso di via Mortirolo, vicino alla stazione Centrale, dove i rifugiati possono fare il tampone anti-Covid e ricevere informazioni riguardo alle questioni burocratiche. Poi, molti vengono indirizzati verso i propri familiari, mentre il ricorso ai centri specializzati (Cas, Sai o strutture comunali) rimane limitato. Il comune si è anche attivato per partecipare ai bandi indetti per aumentare i posti nei Sai, ma la procedura è macchinosa e non è certo quando questi saranno effettivamente operativi. Dal canto suo, l’amministrazione ha stanziato 900 mila euro per far fronte all’arrivo dei profughi, mentre i finanziamenti promessi dal governo non sono ancora arrivati. 

Alla disponibilità delle singole famiglie, un’altra significativa componente della macchina dell’accoglienza è rappresentata dalle associazioni del terzo settore, dalla Croce Rossa alla Caritas, passando per l’universo di piccole e medie organizzazioni attive su territori specifici, che non sempre riescono a sostenere il carico di lavoro aggiuntivo dato dalla guerra.

«Il sistema di accoglienza era già molto in difficoltà in questo periodo, anche perché l’incremento degli arrivi che stiamo vedendo da un anno e mezzo non ha comportato un aumento delle strutture disponibili», ha spiegato a Pagella Politica Cesare Mariani, membro del Consiglio direttivo di Naga, un’associazione attiva a Milano che si occupa di assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita per i migranti. Secondo Mariani, le misure attivate dal governo con il primo decreto “Ucraina” «prevedono che la maggior parte delle persone venga assistita in altro modo, con la partecipazione del terzo settore e puntando sul fatto che spesso gli ucraini hanno già qualcuno che li attende». L’affidamento alla rete di parenti e amici, però, non può funzionare sul lungo periodo. «In molti casi si tratta di situazioni emergenziali e temporanee, il governo deve mettere risorse proprie», ha aggiunto Mariani a Pagella Politica.  
Il ruolo chiave affidato alle associazioni indipendenti e alla disponibilità dei cittadini italiani è stato riconosciuto dal governo con il secondo decreto-legge relativo all’emergenza Ucraina, che basa l’accoglienza dei profughi proprio sul sistema della cosiddetta “accoglienza diffusa”. 

L’accoglienza diffusa

L’ultimo decreto-legge approvato dal governo il 18 marzo, e pubblicato in Gazzetta ufficiale tre giorni dopo, prevede che, per far fronte al flusso di profughi ucraini in costante aumento, l’esecutivo definisca «ulteriori forme di accoglienza diffusa» che permettano a «Comuni, enti del Terzo settore, centri di servizio per il volontariato […] ed enti religiosi» di ospitare fino a 15 mila persone, offrendo servizi e sostenendo spese simili a quelle previste per i centri di accoglienza ordinari. Sempre secondo il testo, il governo dovrà «definire ulteriori forme di sostentamento» per aiutare fino a 60 mila rifugiati in possesso della protezione temporanea che abbiano trovato una sistemazione in modo autonomo, quindi grazie al proprio circolo di conoscenze. 

Questi sussidi, i cui dettagli devono ancora essere definiti, saranno richiedibili per un massimo di 90 giorni dall’ingresso sul territorio nazionale: i profughi arrivati in Italia dall’Ucraina che fanno domanda per il permesso di soggiorno possono infatti lavorare, e si prevede che con il passare del tempo diventino autonomi. «Vogliamo aiutare i rifugiati non solo ad avere una casa, ma anche a trovare un lavoro, e a integrarsi nella nostra società», ha affermato Draghi alla Camera il 22 marzo, in seguito all’intervento in videocollegamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. 

Le spese complessive per le misure di accoglienza contenute nel decreto ammontano a più di 355 milioni di euro. Questi saranno finanziati – insieme a una serie di altri provvedimenti previsti dal decreto, dal valore complessivo di quasi 4 miliardi di euro per il 2022 – grazie a un prelievo straordinario a carico delle aziende che operano nel settore dell’energia. 

In conclusione, il governo prevede che in Italia 75 mila persone ucraine verranno presto ospitate da privati cittadini, comuni, associazioni ed enti religiosi: un numero quasi 10 volte superiore rispetto ai posti aggiuntivi autorizzati per i circuiti Cas e Sai. L’accoglienza viene quindi delegata in larga parte ai privati, mentre la capienza dei centri teoricamente predisposti per l’aiuto e l’integrazione dei migranti rimane marginale rispetto alle necessità reali. 

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