Cosa c’è scritto davvero nella sentenza sulle coltellate di Turetta

Punto per punto, perché nell’omicidio di Cecchettin i giudici non hanno riconosciuto le aggravanti della crudeltà e dello stalking, al centro delle recenti polemiche
Filippo Turetta durante l’interrogatorio come imputato nel processo per l’omicidio di Giulia Cecchettin – ANSA/ ANDREA MEROLA
Filippo Turetta durante l’interrogatorio come imputato nel processo per l’omicidio di Giulia Cecchettin – ANSA/ ANDREA MEROLA
Nei giorni scorsi, alcuni politici (e non solo) hanno criticato le motivazioni della sentenza – pubblicate l’8 aprile – con cui lo scorso 3 dicembre Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo, in primo grado di giudizio, per l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, commesso l’11 novembre 2023. La decisione ha suscitato forti reazioni perché tocca un nodo centrale nel dibattito sui femminicidi: come la giustizia valuta la violenza, soprattutto nei casi in cui è esercitata con particolare brutalità. Secondo i critici, i giudici avrebbero minimizzato la gravità dell’omicidio commesso da Turetta, rafforzando così gli stereotipi che tendono a sminuire i femminicidi.

«La “giustizia” italiana purtroppo non finisce mai di stupirci…», ha scritto sui social network il leader della Lega Matteo Salvini, commentando un lancio dell’agenzia stampa LaPresse intitolato: «Caso Cecchettin: giudici, 75 coltellate non crudeltà ma inesperienza Turetta». Secondo la deputata del Movimento 5 Stelle Alessandra Maiorino, che alla Camera fa parte della Commissione d’inchiesta sui femminicidi, con la sentenza su Turetta «in Italia è stata coniata una nuova categoria criminologica: femminicida inesperto». «Quando ci troviamo di fronte a simili sentenze, oltre al sentimento di totale sgomento, prevale la necessità urgente di sconfiggere la cultura del patriarcato e promuovere l’autodeterminazione delle donne in ogni ambito», ha commentato invece la parlamentare europea del Partito Democratico Alessandra Moretti.

Davvero nelle motivazioni della sentenza c’è scritto che Turetta non è stato crudele, ma solo inesperto? Criticare le sentenze è legittimo, ma farlo sulla base di virgolettati estrapolati e decontestualizzati dal resto delle motivazioni rischia di dare una rappresentazione fuorviante della decisione dei giudici.

Tra aggravanti e attenuanti

Partiamo dal contenuto della condanna a Turetta, stabilita dalla Corte d’assise di Venezia. La Corte d’assise è la sezione del tribunale che giudica i reati più gravi: è composta da due magistrati e sei giudici popolari, ossia sei comuni cittadini che rispettano una serie di requisiti. Le motivazioni della sentenza non sono pubblicamente disponibili, ma Pagella Politica ha potuto leggerle.

La Corte ha condannato Turetta all’ergastolo, ossia alla pena massima prevista, ritenendolo colpevole di omicidio aggravato, sequestro di persona e occultamento di cadavere. Da un lato, secondo i giudici, l’omicidio è stato aggravato da due circostanze: la premeditazione, cioè il fatto che l’omicidio fosse stato pianificato in anticipo, e la relazione affettiva, dato che Turetta era stato fidanzato con Cecchettin. Dall’altro lato, sono state escluse due aggravanti: gli atti persecutori (o stalking) e la crudeltà. In base al codice penale, le aggravanti sono circostanze che aumentano la gravità di un reato e possono comportare una pena più severa.

I giudici, inoltre, non hanno riconosciuto le attenuanti generiche chieste dalla difesa di Turetta. Le attenuanti sono circostanze che possono ridurre la pena di un imputato, basandosi sul suo comportamento o sulla sua personalità (per esempio, se ha mostrato pentimento o ha collaborato con le autorità). «Non possono essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche, chieste dalla difesa dell’imputato – si legge nelle motivazioni – alla luce della efferatezza dell’azione, della risolutezza del gesto compiuto e degli abietti motivi di arcaica sopraffazione che tale gesto hanno generato: motivi vili e spregevoli, dettati da intolleranza per la libertà di autodeterminazione della giovane donna, di cui l’imputato non accettava l’autonomia delle anche più banali scelte di vita».

Dunque, con questa frase è evidente che i giudici hanno sottolineato la gravità, la determinazione e la motivazione misogina del gesto compiuto da Turetta.

La crudeltà

Come anticipato, la parte più criticata della sentenza è il mancato riconoscimento dell’aggravante della crudeltà. In base al codice penale, è un’aggravante «l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone». In concreto, questa aggravante si applica quando l’autore del reato ha inflitto sofferenze inutili alla vittima o ha agito con particolare insensibilità e brutalità. Il codice penale, però, non elenca un numero preciso di comportamenti o atti che configurano automaticamente la crudeltà di un reato, ma spetta ai giudici valutare caso per caso se la violenza esercitata ha superato quanto necessario per commettere il reato, manifestando un accanimento gratuito o una ferocia particolare.

Nell’omicidio di Cecchettin, la Corte d’assise ha motivato l’esclusione dell’aggravante della crudeltà, scrivendo che non ci sono «elementi da cui poter desumere con certezza, e al di là di ogni ragionevole dubbio», che Turetta «volesse infliggere alla vittima sofferenze gratuite e aggiuntive». E qui può essere spontaneo chiedersi perché l’aggravante della crudeltà non sia evidente per il fatto che Turetta ha ucciso Cecchettin con 75 coltellate.

In senso giuridico, l’accezione di crudeltà è diversa da quella etico-morale, secondo cui l’omicidio di una persona è sempre espressione di crudeltà. Nel tempo, la giurisprudenza è intervenuta più volte per definire i limiti dell’aggravante della crudeltà, stabilendo alcuni parametri per rendere più oggettiva la sua valutazione. Nel caso di Turetta, la Corte d’assise di Venezia ha seguito quanto già stabilito in alcune sentenze dalla Corte di Cassazione, il più alto grado della giustizia italiana.

In base a queste sentenze, il numero di coltellate sferrato in un omicidio non è di per sé un elemento sufficiente per stabilire l’aggravante della crudeltà. Non è ammissibile, spiegano i giudici, «la fissazione di una “soglia di coltellate” al di sopra della quale ritenere integrata l’aggravante in parola». È necessario, invece, verificare – attraverso «l’esame delle modalità complessive dell’azione e del correlato elemento psicologico» – se la ripetizione dei colpi «fosse funzionale al delitto» oppure «costituisse un gratuito accanimento violento tale da costituire “espressione autonoma di ferocia belluina” e tale da trascendere la mera volontà di arrecare la morte». 

In parole semplici, non basta contare il numero di coltellate per dire che c’è stata crudeltà: bisogna capire se l’aggressore voleva solo uccidere o se ha infierito in modo gratuito, con una violenza e una ferocia che andavano oltre lo scopo dell’omicidio.

«L’aver inferto 75 coltellate non si ritiene sia stato, per Turetta, un modo per crudelmente infierire o per fare scempio della vittima», hanno scritto i giudici. Secondo la Corte, la dinamica dell’omicidio è stata «certamente efferata», ma è stata la conseguenza «della inesperienza e della inabilità» di Turetta, che «non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”». 

Detto altrimenti, secondo i giudici Turetta non ha infierito volontariamente su Cecchettin per crudeltà, ma ha colpito tante volte perché non sapeva come ucciderla “in modo efficace” e ha agito in modo caotico e disorganizzato, spinto dall’agitazione e dall’inesperienza.

Se fosse vero il contrario, hanno sottolineato i giudici, «ogni qualvolta l’omicidio fosse realizzato con arma bianca», per esempio un coltello, sarebbe riconosciuta in automatico l’aggravante della crudeltà. L’uso di un’arma di questo tipo, infatti, comporta sempre «modalità esecutive inevitabilmente cruente, e ancor di più ad opera di soggetti inesperti».

Secondo i giudici, non si possono «individuare indici di incrudelimento, idonei a integrare i presupposti dell’aggravante della crudeltà» nemmeno in altre azioni commesse da Turetta. Per esempio, «l’aver bloccato e silenziato la vittima con il nastro adesivo è circostanza funzionale al delitto e rientra nell’iter necessario per portare a compimento l’azione omicidiaria». 

In altre parole, gesti come legare e imbavagliare Cecchettin non sono stati compiuti per infliggerle sofferenze inutili, ma sono stati considerati parte del piano per ucciderla, e quindi non sufficienti da soli a dimostrare una volontà di crudeltà gratuita.

Ricapitolando: le motivazioni della sentenza su Turetta sono state criticate per il mancato riconoscimento dell’aggravante della crudeltà, ma i giudici hanno spiegato che la violenza, pur efferata, non è stata esercitata con l’intento di infliggere sofferenze aggiuntive rispetto a quelle connesse all’omicidio. Le motivazioni seguono criteri giuridici precisi e non riducono la gravità dell’atto, che è stato comunque punito con la pena più severa prevista dalla legge.

Le valutazioni della Corte d’assise di Venezia potranno essere rivalutate in appello, cioè durante il secondo grado di giudizio.
Pagella Politica

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L’omicidio di Giulia Tramontano

Prima di capire perché a Turetta è stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione e non quella dello stalking, è utile vedere che cosa hanno stabilito i giudici in un altro noto caso di omicidio.

Anche i giudici che hanno condannato in primo grado all’ergastolo Alessandro Impagnatiello – colpevole dell’omicidio di Giulia Tramontano – hanno ribadito nelle motivazioni della sentenza il principio già visto in precedenza. «La mera reiterazione dei colpi inferti (anche con uso di arma bianca) non può determinare la sussistenza dell’aggravante dell’aver agito con crudeltà, se tale azione non eccede i limiti connaturali rispetto all’evento» e «non trasmoda in una manifestazione di efferatezza, fine a se stessa», si legge nelle motivazioni della sentenza su Impagnatiello, che ha ucciso Tramontano il 27 maggio 2023 con 37 coltellate.

A Impagnatiello, però, è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Secondo i giudici, la prova della crudeltà «non sono soltanto i 37 fendenti inferti sul corpo della vittima, ma il fatto che ben 11 di essi siano stati inferti allorché la vittima era ancora viva, nonché il fatto che la stessa fosse in stato avanzato di gravidanza». 

Inoltre, dopo essere stata colpita dalle prime coltellate, Tramontano «ha senz’altro realizzato» che insieme a lei stava morendo anche suo figlio. «Consapevolezza, questa, che ha senz’altro provocato nella donna una sofferenza ulteriore», hanno aggiunto i giudici.

La premeditazione

Torniamo ora alla sentenza su Turetta, per capire con quali argomenti sia stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione.

Nelle motivazioni, i giudici riportano la definizione di “premeditazione” data dalla Corte di Cassazione: «Un’azione ispirata da una particolare intensità del dolo, che si traduce in una fredda e perdurante determinazione a commettere il reato senza ripensamenti e senza soluzione di continuità». In altre parole, “premeditare” significa pianificare un’azione criminosa, definendone in anticipo le modalità di esecuzione, con la volontà – mantenuta nel tempo – di non tornare indietro. È l’opposto di un’azione dettata da impulsività o da un momento di forte emotività.

La Corte d’assise ha sottolineato che Turetta ha pianificato l’omicidio nei giorni precedenti, presentandosi all’incontro con Cecchettin già armato e intenzionato a ucciderla. Il ragazzo aveva annotato nelle note del cellulare «una lista di oggetti» necessari per commettere il delitto, eseguendo con precisione «tutte le attività preparatorie, minuziosamente meditate, che egli ha avuto cura di progressivamente annotare nel telefono, spuntando di volta in volta ogni singola voce quando concretamente adempiuta, sia prima dell’omicidio, sia dopo». 

Dopo aver ucciso Cecchettin, Turetta – sempre secondo i giudici – ha agito con «lucidità», spegnendo «il cellulare proprio e della vittima», occultando il cadavere e iniziando «una tenace fuga attraverso l’Austria e la Germania per i successivi sette giorni». Lucidità e determinazione che, secondo la Corte, si sono mantenute «fino a mezz’ora prima del suo arresto, quando ha provveduto a cancellare l’intero contenuto del suo telefono», consegnandosi alla polizia tedesca solo dopo essere rimasto senza benzina, senza soldi e senza cibo.

Secondo la difesa, invece, non ci sarebbe stata una vera premeditazione, perché la volontà omicida di Turetta sarebbe stata discontinua: ci sarebbe stata «intermittenza e non persistenza costante della volontà in capo all’imputato». Ma per i giudici questa ricostruzione è «apertamente smentita dalla condotta di Turetta che, per quattro giorni, ha dato progressiva attuazione al proposito omicidiario», preparando anche i mezzi per fuggire dopo il delitto.

Secondo la Corte, inoltre, non è corretto sostenere che Turetta abbia agito in preda all’emotività solo perché ha colpito Cecchettin con una serie rapida e indiscriminata di colpi. Questa versione – scrivono i giudici – è incompatibile «con il fatto che Turetta abbia reiterato l’aggressione, portando a termine l’omicidio, dopo venti minuti dalla prima aggressione». Insomma, per la Corte d’assise Turetta non ha agito in un raptus, ma con lucidità, freddezza e determinazione.
Gino Cecchettin, padre di Giulia, nell’aula d’assise del Tribunale di Venezia, per la prima udienza a carico di Filippo Turetta, il 23 settembre 2024 – ANSA/ANDREA MEROLA
Gino Cecchettin, padre di Giulia, nell’aula d’assise del Tribunale di Venezia, per la prima udienza a carico di Filippo Turetta, il 23 settembre 2024 – ANSA/ANDREA MEROLA

Gli atti persecutori

Infine, la Corte ha riconosciuto che Turetta ha avuto un atteggiamento ossessivo e persecutorio nei confronti di Cecchettin, ma non ha riconosciuto l’aggravante degli atti persecutori, noti anche come stalking. Il codice penale punisce chi, ripetutamente, «minaccia o molesta» una persona, provocandole «un perdurante e grave stato di ansia o di paura», oppure costringendola «ad alterare le proprie abitudini di vita». Basta uno di questi elementi – non necessariamente tutti – per configurare il reato di stalking.

Nel caso di Turetta, i giudici hanno scritto che Cecchettin «non aveva paura» di lui. Hanno comunque sottolineato che «ognuno ha una sensibilità sua propria di cui si deve tenere conto» nella valutazione della persecutorietà degli atti, e che le «condotte» di Turetta erano «oggettivamente moleste, prepotenti e vessatorie».

A sostegno di questa conclusione, i giudici hanno citato: le dichiarazioni del padre della vittima, Gino Cecchettin, che «non aveva percepito alcun disagio in Giulia»; le conversazioni nelle chat, «da cui emerge che Giulia, pur avendo capito che Turetta era ossessionato da lei, fosse del tutto inconsapevole della pericolosità dello stesso e non provasse alcun timore»; e infine la circostanza che «fosse stata Giulia stessa a prendere l’iniziativa di proporre al Turetta di accompagnarla a fare acquisti per il giorno della laurea, non solo ignorandone la capacità criminale ma nella totale assenza di qualsivoglia sospetto circa il proposito che questi aveva maturato».

Dunque, il caso Turetta mostra quanto possa essere difficile, in vicende di questo tipo, far coincidere la valutazione giuridica con la percezione pubblica della violenza. La Corte d’assise ha escluso l’aggravante della crudeltà non perché abbia minimizzato la gravità dell’omicidio, ma perché, secondo i giudici, non sono emersi elementi che provino un accanimento gratuito e intenzionale. Allo stesso modo, l’aggravante dello stalking non è stata riconosciuta perché Giulia Cecchettin, pur subendo comportamenti ossessivi e vessatori, non avrebbe manifestato un timore persistente verso Turetta.

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