Violenza “comprensibile” contro l’ex moglie: che cosa dice la discussa sentenza

Un uomo è stato condannato per lesioni, ma assolto dall’accusa di maltrattamenti, con motivazioni criticate anche dalla politica
ANSA/MOURAD BALTI
ANSA/MOURAD BALTI
Nei giorni scorsi ha fatto discutere una sentenza con cui tre giudici del Tribunale di Torino hanno condannato in primo grado un uomo per lesioni contro l’ex moglie, assolvendolo invece dall’accusa di maltrattamenti. 

Il 13 settembre, in un’intervista con La Stampa, la ministra per Famiglia, la Natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella (Fratelli d’Italia) ha criticato i giudici per alcune frasi contenute nella sentenza. «Il linguaggio usato e poi tradotto in concetti in quella sentenza è un problema. Dietro c’è l’idea che la violenza appartenga a una normale dialettica relazionale e familiare. Questo è francamente intollerabile», ha detto Roccella. «A una donna che ha dovuto farsi ricostruire il volto con 21 placche di titanio è stato detto che la violenza che l’ha ridotta così è in qualche modo giustificabile, un po’ secondo il classico “te la sei cercata”», ha aggiunto la ministra, ammettendo comunque di non aver letto la sentenza «per intero».

L’11 settembre, la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio Martina Semenzato (Noi Moderati) ha annunciato di voler chiedere alla commissione di ascoltare chi ha scritto la sentenza. Questa iniziativa è inusuale, dato che le commissioni parlamentari d’inchiesta non intervengono su singoli casi giudiziari per evitare interferenze con l’indipendenza della magistratura.

Ma che cosa c’è scritto davvero nella contestata sentenza? Quali sono i fatti alla base delle decisioni dei giudici? Facciamo un po’ di chiarezza, lasciando ai lettori il giudizio sulle parole dei magistrati.

L’accusa

L’uomo coinvolto nel processo è accusato di aver commesso due reati contro l’ex moglie: maltrattamenti e lesioni. 

In base al codice penale, il reato di “maltrattamenti contro familiari o conviventi” consiste in una serie continuativa di comportamenti vessatori che creano un clima di sofferenza e umiliazione per la vittima, non in un singolo episodio isolato.

L’accusa, in questo caso, sosteneva che l’uomo avesse sottoposto la moglie a un regime di vita del genere a partire da agosto 2021, quando lei gli comunicò di volersi separare.

Con il reato di “lesione personale”, invece, il codice penale punisce anche un singolo episodio violento. Nel processo l’accusa faceva riferimento a un aggressione, avvenuta a luglio 2022, quando l’uomo colpì la moglie con un pugno al volto, provocandole la frattura dell’orbita e un «indebolimento permanente della vista».

Dunque, il processo si è mosso su un doppio binario: da un lato i giudici hanno dovuto valutare la presunta condotta abituale di maltrattamenti, dall’altro il singolo episodio di violenza fisica. L’esito è stato un’assoluzione per la prima accusa e una condanna per la seconda.

L’assoluzione dai maltrattamenti

L’assoluzione dall’accusa di maltrattamenti si basa su un elemento considerato decisivo: secondo i giudici, la testimonianza della donna è «largamente inattendibile» perché ritenuta «portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali». A pesare in questa valutazione è soprattutto il risarcimento richiesto, di quasi 100 mila euro.

Nella ricostruzione dei giudici, tutto parte dal modo in cui la donna ha comunicato al marito la fine del matrimonio, inviandogli un messaggio su WhatsApp, che la sentenza definisce «qualcosa di brutale». Da qui derivano, secondo i giudici, l’amarezza dell’uomo e le discussioni successive, che vengono interpretate come una reazione «umanamente comprensibile».
Un passaggio della sentenza del Tribunale di Torino
Un passaggio della sentenza del Tribunale di Torino
Su questa premessa si innesta il giudizio critico verso la testimonianza della parte civile, che, a detta dei giudici, avrebbe trasfigurato la realtà dei fatti. A sostegno di questa conclusione, la sentenza riporta alcuni episodi specifici.

Uno riguarda il racconto della donna in aula, secondo cui l’ex marito avrebbe quasi strangolato il figlio, afferrandolo per il collo mentre si agitava giocando alla Playstation. La sentenza contrappone a questa versione quella resa dalla stessa madre durante le indagini preliminari, quando, “a caldo”, aveva dichiarato che il padre aveva «immobilizzato» il figlio «contro il muro, tenendolo per il petto e dicendogli che doveva calmarsi perché era un videogioco e non la realtà».

È in questo passaggio che i giudici inseriscono la loro valutazione: nella prima versione il padre teneva fermo il figlio in modo non violento e gli rivolgeva quella che i giudici considerano un intervento lecito e ragionevole con finalità educativa.

Un altro episodio riguarda la presunta abitudine del padre di umiliare il figlio costringendolo ad auto-appellarsi con parole offensive. I giudici hanno ritenuto più credibile la versione dell’uomo, secondo cui si trattava di uno scambio di battute reciproche, avvenute «ridendo e scherzando». A sostegno di questa interpretazione, la sentenza osserva che il figlio, fino al giorno dell’aggressione, fosse «felice» di parlare col padre, un’emozione che i giudici considerano incompatibile con un rapporto di vittima e carnefice.

La sentenza dedica inoltre ampio spazio al malessere dell’imputato, peggiorato quando l’uomo ha scoperto la nuova relazione della moglie. I giudici riportano le sue parole, in cui lamentava che la donna «era poco presente in casa e usciva spesso», e commentano in una parentesi con la domanda retorica «e come dargli torto?» quando l’uomo le rimproverava di non aver avuto la sensibilità di affrontare la questione di persona.
Un passaggio della sentenza del Tribunale di Torino
Un passaggio della sentenza del Tribunale di Torino
I giudici inquadrano poi la rabbia dell’uomo all’interno di quella che definiscono la «logica delle relazioni umane». La conclusione è che i litigi e le offese non costituivano un reato abituale, ma rientravano nella «normale (ancorchè concitata) dialettica innescata da una decisione sicuramente traumatica».
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La condanna per lesioni

Se da un lato la sentenza assolve l’uomo dall’accusa di maltrattamenti, dall’altro riconosce e punisce la violenza fisica dell’aggressione commessa a luglio 2022. Su questo punto i giudici non hanno dubbi: l’uomo è ritenuto responsabile del reato di lesioni gravi, e per questo motivo è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione. La durata della pena è stata stabilita partendo da due anni base, ridotti di un terzo per il rito abbreviato e aumentati di due mesi per le lesioni lievi riportate dai parenti intervenuti durante l’aggressione.

A sollevare perplessità, però, è stato il modo in cui la sentenza interpreta e inquadra questo episodio. L’intero ragionamento dei giudici tende infatti a non leggere il pugno sferrato alla moglie come un atto di brutale aggressione, ma come l’esito quasi inevitabile di una sequenza di eventi, inserendolo in quello che definiscono un «sentimento, molto umano e comprensibile per chiunque».

I giudici dedicano un paragrafo a illustrare quella che definiscono la «ben precisa causa scatenante» della violenza: la confidenza del figlio dodicenne di aver assistito ad «atti osceni in casa» tra la madre e il nuovo compagno. Secondo i giudici, questa rivelazione è la chiave di lettura fondamentale per comprendere l’accaduto. Scrivono infatti che se lo sfogo d’ira dell’imputato «viene correttamente inserito nel suo contesto, un contesto che tenga conto delle cause (segnatamente di comportamenti non ineccepibili della stessa vittima), ecco che quello sfogo potrà essere ricondotto alla logica delle relazioni umane».

In questa prospettiva, il pugno non è considerato l’azione di un «pericoloso squilibrato», ma un «unicum» legato a una «specifica condizione di stress» emotivo, alimentata anche dai comportamenti della donna.

Questa “contestualizzazione” dell’aggressione ha un effetto diretto sulla quantificazione della pena. Proprio perché l’atto viene interpretato in questo modo, i giudici concedono le circostanze attenuanti generiche e formulano una «prognosi positiva circa l’astensione, in futuro, da ulteriori reati», arrivando a concedere all’imputato, incensurato, la sospensione condizionale della pena.

Un’impostazione simile emerge anche nella gestione del risarcimento economico. Pur condannando l’uomo a versare 20 mila euro come provvisionale (cioè come anticipo sul risarcimento complessivo), i giudici rinviano la quantificazione definitiva del danno biologico a un futuro giudizio civile. La scelta viene motivata con le «gravi incertezze» sull’«invalidità permanente» causata dall’aggressione e i referti «problematici» relativi alla diplopia (cioè visione doppia) denunciata dalla vittima come conseguenza dell’aggressione.

Alcuni osservatori hanno sottolineato come questa cautela tecnica contrasti con la sicurezza quasi empatica con cui, poche pagine prima, i giudici avevano ricostruito e “compreso” le ragioni dell’aggressore.

Il 12 settembre, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino ha impugnato la sentenza, contestando in particolare l’assoluzione dal reato di maltrattamenti. Secondo i procuratori, la decisione ha riconosciuto i fatti materiali ma ha errato nell’applicazione delle norme penali e delle convenzioni internazionali sulla violenza di genere, riducendo l’aggressione fisica contro la donna a un evento isolato anziché inserirlo in un contesto di abusi sistemici. Toccherà quindi alla Corte d’appello decidere se confermare la sentenza di primo grado o cambiarla.

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