Il 6 aprile il leader di Italia viva Matteo Renzi, ospite de L’aria che tira su La7, ha detto (min. 18) che il quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times avrebbe scritto che il Jobs act – la riforma del lavoro realizzata dal suo governo – «ha dato nuove forme di tutela ai rider».
Abbiamo verificato la dichiarazione dell’ex premier su due livelli. Da una parte, per quanto riguarda il concetto attribuito al Financial Times, Renzi probabilmente dà una sua interpretazione di un articolo recente del quotidiano sull’ampliamento delle tutele nei contratti dei rider in Italia, in cui però il Jobs act non è citato esplicitamente.
Dall’altra parte, è vero che le recenti evoluzioni nei contratti dei ciclofattorini si basano su una norma del Jobs act, ampliata da un decreto del governo Conte.
Vediamo meglio i dettagli.
Che cosa ha scritto il Financial Times
Il 5 aprile l’edizione online del Financial Times ha pubblicato un articolo sulla lotta per i diritti dei lavoratori della “gig economy” – il lavoro a chiamata occasionale e discontinuo collegato ad alcuni servizi dell’economia digitale – in Italia. Il nostro Paese era definito nel titolo la “prossima frontiera” nelle rivendicazioni dei lavoratori.
Il pezzo è stato rilanciato anche dai quotidiani italiani e dal ministro del lavoro Andrea Orlando, sottolineando il ruolo di “guida” che il nostro Paese starebbe assumendo in questa lotta contro le piattaforme digitali. In realtà, il quotidiano economico dà conto degli ultimi sviluppi sul tema non solo in Italia, ma anche in Spagna e nel Regno Unito, dove si stanno portando avanti tentativi simili di riconoscere ai lavoratori come i rider, i fattorini di Amazon e gli autisti di Uber i diritti dei lavoratori dipendenti.
Tuttavia l’articolo in questione non cita mai il Jobs act, quindi la dichiarazione di Matteo Renzi è quantomeno eccessiva.
Probabilmente, l’interpretazione fornita da Matteo Renzi nasce da un collegamento implicito, a partire da questo passaggio del pezzo del Financial Times: «Il mese scorso, i lavoratori italiani della gig economy – scrive il quotidiano – hanno ottenuto una vittoria significativa quando un tribunale di Milano ha multato per 733 milioni di euro le piattaforme di consegna a domicilio per aver violato le leggi sulla sicurezza sul lavoro e ha richiesto che i rider venissero assunti con una formula di lavoro para-subordinato».
Il riferimento è all’inchiesta del procuratore capo di Milano Francesco Greco i cui esiti giudiziari sono stati resi pubblici il 24 febbraio con un comunicato stampa.
Già il 26 febbraio, con un post su Facebook Matteo Renzi aveva detto che l’inchiesta di Milano dimostrava come il Jobs act avesse dato «più tutele ai lavoratori».
Vediamo meglio su cosa è intervenuta la procura.
L’inchiesta di Milano sui rider
Secondo quanto ricostruisce il comunicato stampa del 24 febbraio, l’indagine della procura di Milano è iniziata a luglio 2019 a seguito di alcuni incidenti stradali in cui erano stati coinvolti dei ciclofattorini – in inglese rider – delle piattaforme di food delivery (la consegna di cibo a domicilio).
Dopo aver esaminato i contratti e le condizioni di lavoro di oltre 60mila rider, la procura ha stabilito che, nonostante la «stragrande maggioranza» fosse impiegata «con contratti di tipo autonomo e occasionale», la realtà dei fatti era ben diversa.
Dagli accertamenti degli inquirenti «è emerso in maniera inequivoca che il rider non è affatto un lavoratore occasionale che svolge una prestazione in autonomia e a titolo accessorio». Al contrario, il ciclofattorino «è inserito a pieno titolo nell’organizzazione dell’impresa» proprio come un lavoratore dipendente, ma senza le tutele che gli spetterebbero. L’inchiesta si è conclusa con la richiesta di cambiare i contratti dei 60mila rider monitorati e con un’ammenda di 733 milioni di euro per le piattaforme digitali.
Dal punto di vista tecnico, le conclusioni delle indagini si sono tradotte in “verbali di prescrizione” inviati ai datori di lavoro: le aziende potranno scegliere se adempiere a quanto è stato loro richiesto oppure opporsi in sede di giudizio penale, esercitando lì il proprio diritto alla difesa.
Qualche dettaglio in più sull’inchiesta conduce al collegamento con il Jobs act a cui allude Renzi e di cui ci stiamo qui occupando.
Dopo le indagini, un tavolo tecnico composto dal Nucleo Carabinieri Ispettorato del lavoro e dagli organi di controllo sui lavoratori ha fornito le sue conclusioni basandosi su due riferimenti legislativi.
I rider, scrive la procura, rientrano nella definizione di «lavoratore» del decreto legislativo 81 del 2008 sulla sicurezza sul lavoro, ovvero una «persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione» (art. 2, co. 1, lett. a). Di conseguenza, i datori di lavoro hanno verso i ciclofattorini specifici obblighi di tutela della salute e della sicurezza, per esempio la valutazione dei rischi ai quali sono esposti, visite mediche preventive e la fornitura di adeguate attrezzature (mezzi di trasporto, caschi, giubbotti ad alta visibilità, ecc.).
Non solo, la procura ha anche imposto una «riqualificazione contrattuale»: ed è questo punto che riporta al Jobs act e alla dichiarazione di Matteo Renzi. Alle piattaforme è stato richiesto di considerare il lavoro dei 60mila rider dell’inchiesta non più una prestazione autonoma di natura occasionale, ma una «prestazione di tipo coordinato e continuativo», com’è previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 81 del 2015, uno dei decreti attuativi del Jobs act (la riforma è ramificata in più provvedimenti) sul riordino dei contratti di lavoro.
Secondo il testo del decreto, infatti, «si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente». In altri termini – come ha stabilito lo scorso anno anche la Corte di cassazione, con la sentenza 1663 del 2020 a cui rimanda la procura di Milano – il lavoro del rider si qualifica come una forma di lavoro autonomo a cui vanno applicate le tutele del lavoro dipendente, così come previsto da uno dei decreti legislativi del Jobs act.
In parallelo alla giurisprudenza, anche le indicazioni degli ultimi due governi e nello specifico del Ministero del Lavoro hanno contribuito a definire i criteri secondo i quali l’attività dei rider va considerata come lavoro subordinato, con le maggiori tutele che ne conseguono.
Il 19 novembre 2020 il Ministero del Lavoro – in linea con la sentenza della Corte di Cassazione – ha chiarito in una circolare che il lavoro dei ciclofattorini possa essere disciplinato proprio in base al decreto legislativo 81 del 2015 (parte del Jobs act) anche grazie a un’estensione prevista da un’altra legge, il decreto 128 del 2019, approvato dal governo Conte. Quest’ultimo provvedimento infatti ha specificato che l’articolo 2 del decreto legislativo – che estende le tutele del lavoro subordinato ad alcune forme di lavoro dipendente – si applica anche «qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali».
In conclusione
Secondo il leader di Italia viva Matteo Renzi, il Financial Times avrebbe scritto che il Jobs act ha fornito più tutele ai rider.
Renzi dà una lettura leggermente forzata di un articolo del quotidiano economico, ma ha ragione a dire che gli sviluppi più recenti nei contratti dei ciclofattorini si basano su una norma prevista dal Jobs act.
Com’è stato ribadito da un’inchiesta della procura di Milano, da una sentenza della Corte di cassazione e da una circolare del ministero del Lavoro, l’attività svolta dai rider rientra in una particolare forma di lavoro autonomo – comunque organizzato dal committente – a cui vanno riconosciute le tutele e i diritti del lavoro subordinato. Questa formula è stata in effetti disciplinata dal Jobs act, come dice Renzi, ma è stata esplicitamente estesa ai rider da un decreto del governo Conte.
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