Quanto bisogna preoccuparsi della nuova “variante indiana”

Pagella Politica
Nelle ultime settimane una nuova variante del coronavirus Sars-CoV-2 sta preoccupando la comunità scientifica per le sue possibili conseguenze sullo sviluppo della pandemia. Stiamo parlando della variante B.1.617.2, che è derivata dalla cosiddetta “variante indiana” (B.1.617), quella considerata responsabile della seconda ondata che ha colpito l’India da marzo in poi.

Secondo i dati più recenti dell’Istituto superiore di sanità (Iss), a metà maggio la presenza della variante indiana (considerando sia la B.1.617.2 che la B.1.617) era pari all’1 per cento dei nuovi contagi in Italia. Sembra una percentuale irrisoria, ma come vedremo tra poco, nel Regno Unito questa variante sta diventando quella dominante, sostituendo la cosiddetta “variante inglese”.

Ma che cosa c’è da sapere per capire le possibili conseguenze di questa nuova variante? Che caratteristiche ha e può essere contenuta dai vaccini? Abbiamo fatto un po’ di chiarezza.

Una variante probabilmente più contagiosa

La variante B.1.617.2 è stata dichiarata variant of concern (in italiano, “variante che desta preoccupazione”) dalla Public Health England (Phe) – un ente del governo inglese – il 6 maggio e poi l’11 maggio anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). La maggior parte dei dati su questa variante arriva dal Regno Unito, che come abbiamo spiegato in passato è il Paese che lavora di più sulla sorveglianza genomica del virus, sequenziando ogni giorno un ampio numero di campioni.

I dati della Phe sul tasso di attacco secondario – cioè quante persone contagia una persona infetta dopo esserci entrata in contatto – mostrano che la variante B.1.617.2 potrebbe avere una maggiore trasmissibilità del 50 per cento rispetto alla cosiddetta “variante inglese” (la B.1.1.7), che a sua volta era già del 40-50 per cento più trasmissibile delle altre varianti più comuni. In una valutazione del rischio del 27 maggio la Phe ha scritto che «è probabile che la B.1.617.2 sia più trasmissibile della B.1.1.7», anche se «l’entità del cambiamento nella trasmissibilità rimane incerta».

Che cosa sta succedendo nel Regno Unito

Nelle ultime settimane il Regno Unito ha una bassa incidenza di nuovi casi, nonostante l’alto numero di test che conduce ogni giorno. Alcune zone del Paese stanno però registrando un forte aumento dei casi e si sta assistendo a un costante aumento della variante indiana e a un calo di quella inglese.

Una delle zone più colpite è quella di Bolton, un centro urbano a nord-ovest di Manchester. L’area è arrivata a registrare oltre 400 casi ogni 100 mila abitanti su base settimanale, che corrisponderebbero – per avere un ordine di grandezza – a circa 270 mila casi in rapporto alla popolazione italiana. Il focolaio iniziale di Bolton è scoppiato in un quartiere dove il tasso di vaccinazione era relativamente basso. Anche le città di Blackburn, Bedford e Rosendale hanno avuto forti crescite.

Per via dei vaccini (ci torneremo tra poco), che sono andati innanzitutto agli anziani, i nuovi casi sono concentrati principalmente nelle fasce di popolazione più giovane, in particolare tra coloro che hanno meno di 24 anni. L’epidemia è quindi sensibilmente meno grave rispetto al passato, in termini di ospedalizzazioni e morti. Il Financial Times ha infatti stimato che a parità di casi rispetto all’ondata autunnale adesso ci sarà il 75 per cento di decessi in meno.

La maggiore trasmissibilità della variante B.1.617.2 sta facendo sì che i nuovi casi nel Regno Unito abbiano un andamento esponenziale, seppur molto lento, con un tempo di raddoppio dei casi intorno ai 20 giorni e un indice Rt – il numero medio di nuovi contagiati da un singolo infetto – pari a 1,25.
Grafico 1. La diffusione della variante B.1.617.2 in diverse aree dell’Inghilterra – Fonte: Financial Times
Grafico 1. La diffusione della variante B.1.617.2 in diverse aree dell’Inghilterra – Fonte: Financial Times

Ma i vaccini funzionano

Diversi studi hanno mostrato che i vaccini ad oggi a disposizione funzionano contro la variante inglese (la B.1.1.7), ma è importante che vengano somministrate entrambe le dosi. Discorso analogo sembra valere anche per la variante B.1.617.2, pur se con leggeri cali.

Un’analisi della Phe – non ancora sottoposta al controllo della comunità scientifica – ha rilevato che le due dosi di vaccino Pfizer passano dal 93 all’88 per cento di protezione, mentre quelle di AstraZeneca dal 66 al 60 per cento. Va tenuto conto che c’è ancora molta incertezza su queste stime, ma il problema principale è quando si ha ricevuto soltanto la prima dose: in questo caso la protezione di entrambi i vaccini si ferma al 33 per cento. Un altro studio preliminare ha mostrato che due dosi di Pfizer proteggono dalla B.1.617.2, mentre una singola dose di AstraZeneca ha un effetto quasi nullo.

Nel Regno Unito le seconde dosi vengono somministrate 12 settimane dopo le prime, ma a metà maggio il governo ha deciso di fare i richiami dopo otto settimane nelle persone di più di 50 anni proprio per via della B.1.617.2. Nel Paese finora sono state somministrate come prime dosi 12,7 milioni di dosi Pfizer, 24,2 milioni di AstraZeneca e 0,3 milioni di Moderna, mentre le seconde dosi sono 10,5 milioni di Pfizer e 10,7 milioni di AstraZeneca.

I dati raccolti dal Phe tra il 1 febbraio e il 25 maggio sui contagi da variante indiana hanno evidenziato che il 77 per cento dei casi non aveva ricevuto neanche una dose di vaccino (situazione in cui si trova il 40 per cento della popolazione inglese), mentre solo il 3 per cento dei casi erano tra i completamente vaccinati (anche qui il 40 per cento della popolazione).

Partendo da questi dati il matematico James Ward ha stimato che l’efficacia nel prevenire l’ospedalizzazione sia dell’85-90 per cento dopo una dose e vicina al 100 per cento dopo due dosi, e quella di contagiarsi tra del 40-50 per cento dopo una dose e del 90-95 per cento dopo due dosi.

Raggiungere l’immunità di gregge è ancora più difficile

Come abbiamo spiegato in passato, una variante più contagiosa rende più complesso raggiungere l’immunità di gregge, ossia quella percentuale di individui vaccinati nella popolazione che permette di ridurre progressivamente i casi, fino ad azzerarli.

Se la trasmissibilità della variante B.1.617.2 è del 50 per cento più alta rispetto alla variante inglese, per arrivare all’immunità di gregge potrebbe essere necessario dover vaccinare fino all’85 per cento della popolazione.

Questo non è necessariamente un problema. Una volta che si è vaccinata la parte più a rischio della popolazione – gli anziani e i soggetti più fragili – gli effetti sociali della Covid-19 possono diventare minimi. Ripetiamolo, ancora una volta: è necessario procedere velocemente alla vaccinazione della popolazione over 60. Inoltre, un alto livello di vaccinati porta comunque a una riduzione dell’indice Rt, in quanto un positivo incontra pochi individui ancora suscettibili.

Allo stesso tempo raggiungere l’immunità di gregge permetterebbe di evitare la nascita di nuove varianti. Il problema è che raggiungerla a livello globale è molto complesso, motivo per il quale gli esperti ritengono che il virus diventerà endemico.

In conclusione

La variante indiana B.1.617.2 è probabilmente più trasmissibile di circa il 50 per cento rispetto alla inglese B.1.1.7, anche se vi è ancora molta incertezza.

Questa variante sta diventando dominante nel Regno Unito – dove c’è una leggera crescita dei casi, parecchio accentuata in alcune aree – e si sta diffondendo in altri Paesi.

Le prime evidenze dicono che i vaccini funzionano, anche se vi è un leggero calo della protezione rispetto alle varianti precedenti. È però fondamentale vaccinare con entrambe le dosi, cosa che ha spinto il governo britannico a ridurre l’intervallo dei richiami per la parte più anziana della popolazione. La protezione dei vaccini e la vaccinazione della popolazione anziana possono prevenire ospedalizzazioni e decessi, rendendo sensibilmente meno grave l’impatto della variante.

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