Consenso e violenza sessuale: tutti i dubbi sulla nuova legge

Abbiamo parlato con alcuni esperti per capire come potrebbe cambiare la proposta, ora all’esame del Senato e al centro di un intenso dibattito
ANSA
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Da un paio di settimane, la Commissione Giustizia del Senato sta esaminando la proposta di legge, presentata dal Partito Democratico, che vuole introdurre la nozione di “consenso” nel reato di violenza sessuale. In concreto, alla base di questa proposta c’è l’idea che un rapporto sessuale sia lecito solo se tutte le persone coinvolte danno il proprio consenso, che il testo precisa debba essere anche «libero e attuale».

Dopo essere stata modificata una prima volta, la proposta di legge è stata approvata all’unanimità il 19 novembre alla Camera, grazie a un accordo raggiunto tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein. Il via libera definitivo del Senato era atteso per il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ma poi c’è stato un rallentamento, che ha messo in dubbio la solidità dell’intesa tra Meloni e Schlein. I partiti di maggioranza, infatti, hanno sollevato alcuni dubbi sulla proposta e hanno chiesto di poter ascoltare, prima del voto, il parere di altri esperti.  

Al di là delle legittime opinioni politiche sul tema, quali sono i dubbi principali sulla proposta di legge? Ne abbiamo parlato con alcuni esperti. I nodi principali sono quattro e riguardano: la definizione del consenso e la sua formulazione come «libero e attuale»; il possibile impatto sull’onere della prova nei processi; la necessità di graduare meglio le pene tra casi diversi; e, più in generale, il modello teorico da adottare per definire il reato di violenza sessuale.

Che cosa dice la proposta

Attualmente, l’articolo 609-bis del codice penale punisce con la reclusione da sei a 12 anni chiunque costringe qualcuno «a compiere o subire atti sessuali», usando la violenza o la minaccia, o abusando della propria autorità. È punito con la stessa pena chi commette il reato di violenza sessuale «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica» della vittima «al momento del fatto», o la trae in inganno «sostituendosi a un’altra persona».

La proposta di legge, ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato, propone di aggiungere una parte all’articolo 609-bis del codice penale. In base alla nuova versione, è punito con la reclusione da sei a 12 anni «chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima».

Il testo mantiene inoltre, pur aggiornandone la formulazione, tutte le ipotesi già previste dall’attuale articolo 609-bis. In sostanza, continua a prevedere la stessa pena per chi costringe qualcuno a compiere o subire atti sessuali attraverso violenza, minaccia o abuso di autorità, oppure per chi induce la vittima approfittando della sua condizione di inferiorità fisica o psichica o di una particolare vulnerabilità al momento del fatto, o ancora ingannandola fingendosi un’altra persona.

Una pratica già consolidata?

L’introduzione della nozione di “consenso” è in linea con quanto previsto da alcuni accordi internazionali e con quanto fatto da altri Paesi europei. Per esempio, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (meglio nota come “Convenzione di Istanbul” del 2011) definisce la violenza sessuale come un atto compiuto senza il consenso della vittima. Negli anni, il gruppo di esperte indipendenti incaricato di verificarne l’attuazione ha più volte richiamato vari Stati, tra cui l’Italia, evidenziando la necessità di recepire esplicitamente il principio del “consenso” nelle rispettive leggi.

Alla fine di ottobre, la Francia ha introdotto una nuova legge, in base alla quale qualsiasi atto sessuale non consensuale costituisce violenza sessuale. In altri Paesi esiste già un modello simile del reato di violenza sessuale, diffusosi in particolare dal 2017, anno in cui è iniziato il #MeToo, un movimento globale di denuncia pubblica di abusi e molestie sessuali.

In un certo senso, però, la nozione di “consenso” è presente da anni nell’interpretazione che i giudici danno all’articolo 609-bis del codice penale. Nella versione attuale, quest’articolo non dice in modo esplicito che la mancanza di consenso della vittima serve a definire il reato di violenza sessuale. Ma, nei fatti, i giudici considerano già violenza sessuale i casi in cui la vittima non ha dato il proprio consenso.

Con la nuova proposta di legge, dunque, «non si sta allargando l’ambito del penalmente rilevante, perché la giurisprudenza già da molti anni ricorre a questa interpretazione», ha spiegato a Pagella Politica Gian Luigi Gatta, professore di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano e presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. «La Corte di Cassazione da anni sostiene che c’è violenza sessuale anche quando manca la violenza perché il concetto viene interpretato in senso molto lato, fino a comprendere i casi in cui non si è espresso il consenso o non lo si poteva esprimere».

Un esempio recente è una sentenza del novembre 2024, in cui la Cassazione ha confermato la condanna per violenza sessuale in un caso che riguardava una donna descritta in uno stato di «passività», ribadendo che è necessaria «una inequivoca manifestazione di consenso». 

Secondo Gatta, però, il Parlamento dovrebbe precisare meglio che cosa si intende per “assenza di consenso”. «In questo modo si darebbe una disciplina a un’ipotesi che oggi non è espressamente prevista dalla legge ma che, per il momento, è considerata rilevante solo della giurisprudenza. E questo in diritto penale non va bene perché, per la nostra Costituzione, il giudice non può creare i reati, ma deve muoversi nei limiti di quello che prevede la legge. Ben venga quindi che il Parlamento disciplini questa ipotesi e cerchi di regolarla», ha commentato il professore.

Una definizione poco chiara

Il primo problema sollevato dagli esperti, quindi, è la necessità di avere una definizione chiara di “consenso”, così da evitare che un elemento così delicato dipenda soltanto dalle interpretazioni dei giudici.

Proprio questo tema era stato affrontato nel testo originale della proposta di legge, che conteneva una definizione dettagliata di consenso: era descritto come «quello espresso quale libera manifestazione della volontà della persona e che rimanga tale e immutato durante l’intero svolgersi dell’atto sessuale», con l’aggiunta che andava «valutato tenendo conto della situazione e del contesto» e che poteva essere revocato «in qualsiasi momento e con ogni forma». Questa parte è stata poi eliminata in Commissione Giustizia della Camera da un emendamento, presentato dalle relatrici Michela Di Biase (Partito Democratico) e Maria Carolina Varchi (Fratelli d’Italia).

Secondo Anna Maria Picozzi, sostituta procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo, il testo della proposta di legge invece «è chiaro, non lascia spazio a particolari interpretazioni». «È semplicemente una cristallizzazione di un’operazione che già la giurisprudenza ha fatto», ha detto a Pagella Politica. Per la magistrata, questa legge potrà portare dei cambiamenti, soprattutto sul piano culturale. «Finalmente si supereranno certi stereotipi per cui esiste un consenso cosiddetto “implicito”, per cui la donna che non si ribella, che non fugge, che non urla, che non si difende, ha detto sì», ha aggiunto Picozzi.

Anche l’Unione camere penali – l’associazione che rappresenta gli avvocati penalisti in Italia – ha espresso dubbi sulla formulazione del concetto di “consenso”. «Va bene che il consenso sia libero, ma l’aggiunta di attuale può essere problematica. Che cosa si intende per attuale? Quanto tempo vale un sì ed entro quali limiti?», ha dichiarato a Pagella Politica Giulia Boccassi, vicepresidente dell’Unione. «Su questo punto è stata fatta dell’ironia, ma al di là delle battute poi i processi dobbiamo farli noi e vi assicuro che diventa complicato stabilire queste cose, oltre che potenzialmente doloroso per la persona offesa».

Le battute a cui fa riferimento Boccassi, circolate in alcuni casi come vere e proprie notizie false, riguardano l’idea che gli uomini dovranno far firmare un modulo per ottenere il consenso prima di un rapporto sessuale.

L’onere della prova

Qui entra il secondo problema sollevato da alcuni esperti sulla proposta di legge. «Abbiamo suggerito di modificare alcune parti della legge, perché il concetto di consenso così come è espresso nel testo può portare a un ribaltamento dell’onere probatorio», ha detto Boccassi.

L’onere probatorio è il principio secondo cui spetta a chi accusa dimostrare che il reato è stato commesso. Dopo il passaggio da un sistema giuridico inquisitorio a quello accusatorio, in Italia l’obbligo della prova spetta all’accusa, visto che ogni imputato è innocente fino a prova contraria. Secondo l’Unione camere penali, invece, se la proposta di legge fosse approvata così come è scritta, nei processi per violenza sessuale potrebbe finire per essere l’imputato a dover provare di aver ottenuto il consenso della persona offesa.

Secondo Picozzi questo rischio non c’è. «Dovremmo separare la questione di come è strutturato il reato rispetto alla questione di come va provato il reato. La prova del reato si dà sulla base di quelle che sono le regole del processo penale, che dicono che la valutazione di un testimone va fatta in relazione alla valutazione della sua attendibilità intrinseca», ha detto la magistrata. Picozzi ha dichiarato che, per come è scritto ora il testo, l’uomo non dovrà dimostrare qualcosa in più rispetto a quanto avveniva prima. La valutazione del giudice dovrà invece concentrarsi sulla testimonianza della vittima, «non come se fosse quella di un pentito o di un collaboratore di giustizia, per cui bisogna trovare altri riscontri a quello che dice, ma semplicemente valutandone la sua attendibilità».

Per la magistrata, questo punto è particolarmente importante: «In molti casi, quando si tratta di una donna che denuncia una violenza sessuale, le vengono fatte domande per dimostrare qualcosa in più rispetto alla veridicità del suo racconto. Il processo segue determinate regole, secondo cui la persona offesa va creduta solo ed esclusivamente sulla base dell’attendibilità del suo racconto», ha aggiunto.

Per Boccassi, non è così e questa situazione rischierebbe di produrre l’effetto opposto a quello dichiarato: «Si finirebbe per fare alla donna proprio quelle domande scomode da evitare e che possono causare una vittimizzazione secondaria, perché si dovrebbero ripercorrere tutti i momenti di un evento per lei doloroso per stabilire la validità delle prove». 

A questo si aggiunge, secondo alcuni esperti, un aspetto pratico: la necessità di rafforzare la formazione dei magistrati chiamati a gestire questi procedimenti. «Una cosa che andrebbe valorizzata è la necessità, per questo tipo di reati, di finanziare maggiormente e di promuovere la formazione sia dei pubblici ministeri sia dei giudici», ha aggiunto Gatta. «Se io normalmente come giudice o pubblico ministero mi occupo di reati finanziari o di evasione fiscale, e poi mi capita un caso di violenza sessuale, mi manca un bagaglio di conoscenza e di esperienza. In alcuni tribunali, per esempio, ci sono sezioni specializzate con magistrati che hanno visto tanti casi e quindi possono essere agevolati nel capire se la persona che denuncia è attendibile o meno».

La questione delle sanzioni

La vicepresidente dell’Unione camere penali ha criticato poi un altro aspetto della legge: «Non è giusto che la sanzione rimanga la stessa tra l’assenza di consenso e la violenza o minaccia: chi compie atti sessuali senza avere un consenso libero e informato non può essere sanzionato come chi aggredisce una donna in un parco, la getta in una siepe e la stupra. Sono cose molto diverse».

Per esempio, secondo questa impostazione, una situazione in cui una persona non recepisce un “no” sussurrato o espresso con esitazione non potrebbe essere equiparata, sul piano sanzionatorio, a un’aggressione fisica violenta e premeditata.

Su questo tema sono d’accordo sia Gatta sia Picozzi. «Io lascerei come massimo di pena quello che c’è adesso, 12 anni, ma in questa cornice bisognerebbe graduare la pena diversamente per le ipotesi meno gravi e, in particolare, la mera assenza del consenso, rispetto alla violenza o alla minaccia», ha spiegato il professore.

Un cambio di principio

In generale, il dibattito sulla proposta di legge riflette una questione più ampia: quale modello adottare per definire il reato di violenza sessuale. Nel diritto penale, quando si parla di questo tema, sono messi a confronto tre modelli teorici. 

Il modello consensuale puro (spesso riassunto con l’espressione “solo sì è sì”) prevede che il reato di violenza sessuale sia commesso in assenza di un consenso valido espresso dalla vittima. Il modello consensuale limitato (“no è no”) prevede che la vittima debba manifestare il proprio dissenso, quindi la volontà contraria all’atto sessuale. Il modello vincolato è quello attualmente in vigore in Italia: si concentra sulla costrizione o sulla minaccia per stabilire se è stata commessa una violenza sessuale, non sul consenso o dissenso esplicito.

Secondo Boccassi, «sarebbe meglio parlare di “violazione del dissenso”, prediligendo il modello tedesco rispetto a quello francese», che come detto si basa sul consenso, perché «è più facile riconoscere il dissenso piuttosto che l’assenza di un consenso, che rischia di lasciare troppe cose poco chiare o di privilegiare l’accusa», penalizzando la difesa.

Uno dei punti più delicati della proposta di legge sta nella difficoltà di dimostrare qualcosa che non c’è, in questo caso il consenso. «Il problema è come si fa a provare qualcosa di negativo, cioè qualcosa che manca, che è l’assenza di consenso. È difficile da dimostrare perché nella maggior parte dei casi non ci sono registrazioni o testimoni. È decisiva la valutazione che il giudice fa sull’attendibilità della vittima, cioè se è credibile o meno ciò che dice. Forse per far fronte a questa difficoltà si potrebbe provare a valorizzare il dissenso, come in Germania», ha aggiunto Gatta. «L’introduzione della mancanza di consenso è un passo normativo importante, che però richiederebbe un maggiore sforzo di definizione, anche per le implicazioni che ne derivano». 

Ricapitolando: il confronto sulla proposta di legge mostra come l’introduzione esplicita del consenso nel reato di violenza sessuale sia considerata da molti un passo necessario per allineare la normativa italiana agli standard internazionali e alla stessa evoluzione della giurisprudenza. Allo stesso tempo, restano aperti alcuni nodi critici: dalla definizione precisa di che cosa debba intendersi per consenso, al rischio percepito di squilibri nell’onere della prova, fino alla necessità di calibrare meglio le pene e di scegliere un modello teorico chiaro cui ancorare la riforma. Su questi aspetti si concentrerà ora il lavoro del Senato, chiamato a valutare se e come modificare il testo prima del voto. Nel caso ci fossero modifiche, la proposta dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva.

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