Solo l’11 per cento? Sulla pioggia recuperata tutti citano un dato sballato

Molti politici ripetono che solo l’11 per cento di tutta l’acqua piovana viene trattenuta e usata per vari scopi. Questa stima è vecchia di oltre cinquant’anni ed è stata mal interpretata
ANSA
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Questo inverno il Nord Italia è stato colpito da una siccità che dura ormai da circa un anno a causa delle scarse piogge. Per questo motivo, in questi mesi vari politici hanno detto che bisogna migliorare la capacità di trattenere la pioggia destinandola, per esempio, a uso agricolo. «L’accumulo di acqua da precipitazioni è pari solo all’11 per cento», ha dichiarato l’8 marzo al Giornale il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia). Lo stesso giorno il leader della Lega Matteo Salvini, ospite a un evento sulla logistica, ha detto (min. 5:38) che «noi riusciamo a trattenere solo l’11 per cento dell’acqua che il buon Dio ci manda», difendendo la necessità di potenziare «dighe, invasi, laghi, laghetti, bonifiche». 

In realtà le cose non stanno come viene ripetuto ormai da anni: la percentuale dell’«11 per cento» circola da tempo, ma è una stima molto vecchia e, tra l’altro, mal interpretata.

La fonte del dato

La fonte dell’«11 per cento» di acqua piovana recuperata dall’Italia è l’Anbi, ossia l’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue. Questi consorzi gestiscono una parte delle infrastrutture per l’irrigazione e per la regolazione delle acque, come i canali irrigui e gli invasi, presenti su tutto il territorio italiano. Insieme a Coldiretti, la principale organizzazione a livello nazionale di imprenditori agricoli, Anbi promuove da tempo la costruzione di circa 10 mila invasi di medie e piccole dimensioni attraverso il cosiddetto “Piano laghetti”, finanziato anche dallo Stato, che finora sta procedendo a rilento. 

Negli ultimi anni l’Anbi ha ripetuto in molte occasioni, tra cui interviste e convegni, che l’Italia recupera solo l’11 per cento dell’acqua piovana. E che, viceversa, l’89 per cento della pioggia caduta ogni anno sul nostro Paese finisce in mare. 

Messo così, il dato sembra a prima vista piuttosto chiaro: su 100 metri cubi di acqua piovuta dal cielo, 11 metri cubi riusciamo a recuperarli e a utilizzarli per usi disparati, tra cui l’irrigazione dei campi, mentre il resto va perduto. 

Se si cerca di capire meglio come è stata calcolata la percentuale dell’«11 per cento», però, la questione si complica.

Che cosa dicono Istat e Ispra

Secondo le stime Istat più aggiornate, prodotte in collaborazione con l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), tra il 1991 e il 2020 in Italia sono piovuti ogni anno circa 285 miliardi di metri cubi di acqua. Se la stima di Anbi fosse corretta, vorrebbe dire che l’Italia riesce a recuperare – o meglio, a invasare – intorno ai 31 miliardi di metri cubi di acqua piovana ogni anno.

Nelle stime di Istat e di Ispra questo dato non è però presente. Più in generale non si parla di quanta acqua piovana viene immagazzinata con invasi o strutture simili. Secondo le stime dei due istituti, il 53 per cento dell’acqua piovana che cade in Italia torna in atmosfera a causa dell’evaporazione, per esempio dal terreno o dagli specchi d’acqua, e a causa della traspirazione della vegetazione. Un 47 per cento di acqua rimane invece sul terreno, alimentando le falde acquifere, i fiumi, i laghi artificiali e quelli naturali: il 21 per cento si infiltra nel sottosuolo, mentre il 26 per cento scorre in superficie. Da dove viene dunque l’11 per cento che si sente ripetere spesso quando si parla di siccità?

Come interpretare l’«11 per cento»

Anbi ha spiegato a Pagella Politica che la stima dell’«11 per cento» è stata fatta oltre cinquant’anni fa, durante la Conferenza nazionale delle acque che si è tenuta dal dicembre 1968 al luglio 1971. Come spiega Ispra in un rapporto pubblicato nel 2021 e dedicato al bilancio idrologico in Italia, la Conferenza era durata quasi tre anni per l’«estrema complessità del tema». Gli studiosi che vi avevano partecipato erano giunti a risultati di «assoluta autorevolezza e del massimo grado di accuratezza possibile per l’epoca, costituendo ancora oggi un solido riferimento per la valutazione delle risorse idriche in Italia», sottolinea l’Ispra. In ogni caso si parla ormai di dati che vanno aggiornati.

Secondo i dati comunicati da Anbi a Pagella Politica, la Conferenza nazionale sulle acque aveva stimato che l’afflusso medio annuo di pioggia in Italia corrispondesse all’epoca a circa 300 miliardi di metri cubi di acqua (un po’ calati negli ultimi anni, come abbiamo visto). Di questi 300 miliardi, quasi la metà evaporava nell’atmosfera, mentre della parte rimanente circa 110 miliardi di metri cubi erano considerate “risorse potenziali superficiali disponibili”, a cui si aggiungevano 13 miliardi di metri cubi di “risorse potenziali sotterranee disponibili”, che potevano essere messe a disposizione di infrastrutture artificiali. A sua volta, di queste “risorse potenziali disponibili”, solo 55 miliardi di metri cubi (poi abbassati a 52 miliardi alla fine degli anni Ottanta) erano considerati dalla Conferenza nazionale delle acque realmente “utilizzabili”, ossia potevano essere valorizzati per vari scopi. E qui arriva il punto centrale da tenere a mente: cinquant’anni fa solo l’11 per cento di questi 55 miliardi di metri cubi erano trattenuti da invasi, ha chiarito Anbi.

Ecco dunque da dove viene la percentuale citata in questi mesi e anni: l’Italia non recupererebbe l’11 per cento di tutta la pioggia che cade ogni anno sul suo territorio, ma solo l’11 per cento di quella che, una volta caduta, è considerata come “utilizzabile”. Prendendo per corretta e ancora valida la stima degli oltre 6 miliardi di metri cubi di acqua immagazzinata fatta nel 1971, al giorno d’oggi staremmo parlando del 2 per cento circa sul totale della pioggia caduta, e non dell’11 per cento.

I limiti della stima

Come anticipato e come ci ha confermato la stessa associazione, la stima riportata da Anbi è comunque ormai datata. Per esempio non tiene conto dell’impatto dei cambiamenti climatici e delle modifiche fatte in cinquant’anni nel sistema degli invasi: alcuni di questi sono stati dismessi, altri sono stati modificati, ne sono stati costruiti di nuovi, e così via.

Nel suo ultimo rapporto sul bilancio idrologico in Italia, pubblicato nel 2021, l’Ispra non ha fatto stime su quanta sia la pioggia “utilizzabile” tra quella che cade ogni anno sul nostro territorio. Questa valutazione, spiegano i ricercatori dell’istituto, implica infatti «considerazioni di varia natura: tecnica, economica, sociale, ambientale e politica», che dunque rischiano di non essere del tutto oggettive. In più l’istituto ha ribadito che «anche nell’ipotesi estrema che sia tecnicamente ed economicamente» considerata come tutta recuperabile, l’acqua a disposizione del territorio «non potrà mai essere utilizzata totalmente per i vincoli di carattere ambientale che è necessario considerare per la salvaguardia degli ecosistemi».

Fonti di Ispra hanno spiegato a Pagella Politica che al momento esistono stime ufficiali del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti solo per il volume invasabile nelle cosiddette “grandi dighe”, ossia quelle con un volume di invaso superiore a un milione di metri cubi o con una diga alta più di 15 metri. Il volume invasabile nelle “grandi dighe” ammonta a 11,8 miliardi di metri cubi. Non esistono invece stime complete e ufficiali su scala nazionale del volume invasabile nelle cosiddette “piccole dighe”, che sono di competenza regionale. Quindi, rispetto alle precipitazioni annue medie che sono cadute in Italia tra 1991 e il 2020, il volume invasabile nelle “grandi dighe” è circa il 4 per cento, a cui andrebbe aggiunta la quota invasabile nelle piccole dighe.

Infine va comunque sottolineato che, a differenza di quanto lascia spesso intendere Anbi con le sue comunicazioni, l’acqua effettivamente utilizzata tramite gli invasi può essere maggiore della capacità totale degli invasi. Si tratta infatti di una quantità dinamica che cambia nel tempo a seconda delle piogge e degli utilizzi dell’acqua invasata.

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