Il 25 luglio il leader della Lega Matteo Salvini ha difeso sui social il presidente leghista della Regione Lombardia Attilio Fontana, indagato dalla Procura di Milano per l’ipotesi di frode in pubbliche forniture, attaccando il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti.
Secondo Salvini, mentre Fontana viene «indagato e diffamato per una donazione di migliaia di camici agli ospedali lombardi», il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti sarebbe stato «ignorato» per la questione dei «14 milioni» di euro «dati ad una società fantasma per fornire mascherine mai arrivate».
Il 26 luglio, in un’intervista con Il Giornale, il leader della Lega ha poi definito «una vergogna» l’inchiesta nei confronti di Fontana, aggiungendo: «Vogliamo parlare di un’inchiesta su una donazione? Vogliamo parlare dei trentacinque milioni che la Regione Lazio ha speso per mascherine mai arrivate? Su Zingaretti non c’è uno straccio di inchiesta, chissà perché».
Al momento, come avviene di solito in casi simili, tutte le informazioni disponibili sulla vicenda Fontana provengono per lo più da fonti stampa. Il segreto istruttorio infatti limita quanto si può sapere pubblicamente di un’indagine in corso. Discorso simile si può fare per la questione delle mascherine legata a Zingaretti, che è cominciata a marzo scorso.
Ma, in base a quanto sappiamo, il parallelo che fa Salvini tra il caso Fontana e quello Zingaretti è fondato? Oppure stiamo parlando di vicende diverse tra loro?
In breve: come vedremo nel dettaglio, ci sono tre punti principali su cui le due vicende sono molto diverse tra loro, nonostante ci siano indagini in entrambi i casi:
• Fontana è direttamente coinvolto nella questione della vendita dei camici, mentre Zingaretti no;
• nella vicenda lombarda è coinvolta un’azienda con un conflitto di interessi con il presidente della regione, mentre nel Lazio – a quanto si sa – no;
• la Regione Lazio sta cercando di recuperare le risorse anticipate per le mascherine non ricevute (che a differenza di quanto dice Salvini non sono 35 milioni di euro), mentre per quanto riguarda la Regione Lombardia non è in corso un procedimento di questo tipo.
Ma procediamo con ordine.
Il caso Fontana
Il servizio di Report e la questione della donazione dei camici
Le prime notizie sulla questione che ha portato alle indagini su Fontana risalgono all’inizio dello scorso giugno.
Il 7 giugno il programma di Rai 3 Report ha pubblicato un’anticipazione di un servizio, ripresa anche da Il Fatto Quotidiano, in cui si documentava che durante l’emergenza coronavirus la Regione Lombardia aveva stabilito, senza una gara di appalto e a fronte di un pagamento di 513 mila euro, l’acquisto di 75 mila camici e altri dispositivi di protezione individuale dalla società Dama Spa, che fa capo ad Andrea Dini, fratello di Roberta Dini (che possiede il 10 per cento della società), moglie del presidente leghista Fontana.
Nel servizio completo andato in onda l’8 giugno, Report ha mostrato un documento del 16 aprile di Aria Lombardia, la centrale acquisti della regione, in cui era scritto che entro due mesi avrebbe versato la somma di poco superiore al mezzo milione di euro alla società di Dini per l’acquisto dei camici.
Dini, parlando con Report, ha in prima battuta detto che non si trattava di una vendita, ma di una donazione, per poi correggersi una volta saputo che i giornalisti avevano in mano le carte che smentivano la sua versione dei fatti. In primo luogo Dini si è giustificato dicendo che la vendita era stata autorizzata quando lui non era al lavoro in azienda; in secondo luogo ha detto che ha poi proceduto lui stesso a far trasformare la vendita in donazione.
Report ha poi mostrato dei documenti, emessi tra il 22 e il 28 maggio, che confermano l’annullamento delle fattura di Dama Spa per i camici, e ha mostrato anche una email del 20 maggio di Dini al direttore generale di Aria Filippo Bongiovanni in cui si conferma la volontà di trasformare la commessa in donazione.
Questi documenti mostrano però che i documenti per l’annullamento della vendita contengono una cifra pari a 359 mila euro, una somma inferiore ai 513 mila euro visti prima. Questa incongruenza, nel servizio di Report, non ha trovato risposta.
Contattato da Report, Fontana ha confermato che la Regione Lombardia aveva assegnato una commessa all’azienda di suo cognato, dicendo però di essere estraneo ai fatti.
Come mai però c’è stato un cambio di idea, da vendita a donazione? L’ipotesi, suggerita da Report stessa, è che l’inchiesta – iniziata a fine maggio – del programma di Rai 3 abbia messo in allerta i dirigenti lombardi, spingendo per la soluzione di trasformare la vendita in donazione.
Il 7 giugno Fontana si è difeso su Facebook dalle accuse di Report, dicendo che l’errore è stato frutto di un «automatismo burocratico» e che la società Dama non aveva incassato nulla dalla Regione Lombardia per la commessa dei camici.
Negli ultimi giorni però sono emerse alcune novità significative proprio sul ruolo di Fontana in questa vicenda.
Perché Fontana è indagato
L’8 giugno la Procura di Milano aveva subito avviato un’indagine «senza ipotesi di reato né indagati», scriveva il Corriere della Sera. Un mese dopo, La Repubblica scriveva che Fontana non risultava essere tra gli indagati, ma aggiungeva un dettaglio importante.
«Per la Procura il presidente della Regione Attilio Fontana (non indagato) avrebbe avuto un ruolo attivo nella vicenda: avrebbe fatto modificare il contratto da vendita a donazione perché sarebbe stato consapevole che quell’affidamento favoriva una società legata a sua moglie», si legge su La Repubblica.
Il 24 luglio è uscita poi la notizia che Fontana è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di frode in pubbliche forniture (art. 356 del Codice penale). Tra gli indagati, ci sono anche Dini e Bongiovanni, per l’ipotesi di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353 bis c.p.).
Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, il 19 maggio – pochi giorni dopo essere stato intervistato da Report, che ha poi mandato in onda la sua intervista nel servizio dell’8 giugno – Fontana ha tentato di fare un bonifico da 250 mila euro alla società Dama da un suo conto personale svizzero.
Secondo le ricostruzioni dei giornali, questo conto svizzero è stato ereditato da Fontana nel 2015 con la morte della madre. Il suo valore all’epoca era di oltre 5 milioni di euro, che dal 2005 erano detenuti in Svizzera da due trust – «strumento giuridico di origine anglosassone per proteggere il patrimonio», come ha spiegato il Corriere della Sera – creati alle Bahamas, uno Stato famoso per essere un paradiso fiscale.
Queste risorse sono state “invisibili” al fisco italiano fino al 2016, quando Fontana ha dichiarato la loro esistenza grazie al procedimento della voluntary disclosure (chiamato anche “scudo fiscale”), con cui l’allora sindaco di Varese aveva regolarizzato le somme detenute all’estero. Ma questa regolarizzazione in un primo momento è stata tenuta nascosta al pubblico. Nel 2017, l’Autorità nazionale anticorruzione ha infatti multato con mille euro Fontana per non aver comunicato le novità sulla sua situazione patrimoniale complessiva nel 2016, come invece era tenuto a fare dal momento che ricopriva un ruolo istituzionale come sindaco di Varese.
«Fontana al momento non è accusato di niente di illegale, su questo patrimonio, ma il fatto che abbia fatto ricorso allo scudo fiscale gli ha attirato molte critiche», ha poi spiegato Il Post il 27 luglio scorso.
Il problema da un punto di vista giuridico per Fontana riguarda invece il suo possibile intervento per trasformare la vendita in donazione.
Il tentativo di fare un bonifico da 250 mila euro è stato infatti bloccato dall’Unione Fiduciaria, la società che gestisce il patrimonio del presidente della Regione Lombardia, perché insospettita dalla causale inserita da Fontana, che rimandava proprio al pagamento della fornitura dei camici.
Sia il tentativo di bonifico che le dichiarazioni rilasciate dal governatore in Consiglio regionale il 27 luglio dimostrerebbero poi che Fontana, a differenza di quanto dichiarato a Report, fosse a conoscenza della fornitura dei camici, intesa come vendita e non donazione.
Come ha giustificato il presidente della Regione Lombardia il tentativo di fare un bonifico per “risarcire” parzialmente il cognato della mancata vendita dei camici?
«Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione, ho voluto partecipare anch’io», ha detto Fontana in un’intervista a La Stampa del 26 luglio. «Fare anch’io una donazione. Mi sembrava il dovere di ogni lombardo».
«Ho spontaneamente considerato di alleviare in qualche modo il peso economico della operazione di mio cognato, partecipando io stesso personalmente – proprio perché si trattava di mio cognato – alla copertura di una parte di quell’intervento economico», ha sottolineato il 27 luglio a La Repubblica Fontana. «Si è trattato di una decisione spontanea, volontaria e dovuta al rammarico di constatare che il mio legame di affinità aveva solo svantaggiato una azienda legata alla mia famiglia».
Ricapitolando: al di là della questione sul conto milionario detenuto in Svizzera, ora le indagini dovranno chiarire quale sia stato il ruolo di Fontana in questa vicenda (e se sia stato contrario alla legge) e che cosa effettivamente abbia modificato le intenzioni delle parti in causa, nel voler trasformare una commessa da mezzo milione di euro in una donazione.
Ma tutto questo che paralleli ha con la vicenda delle mascherine, citata da Salvini e che vedrebbe coinvolto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti? Andiamo a vedere i dettagli.
Zingaretti e le mascherine “fantasma”
Il 7 aprile scorso Il Fatto Quotidiano dava la notizia secondo cui a metà marzo la Regione Lazio aveva commissionato l’acquisto di 10 milioni di mascherine professionali alla Eco.Tech, una «piccola società italo-cinese» che «solitamente si occupa di forniture elettriche».
«Una partita da 35,8 milioni di euro mai andata a buon fine», scriveva all’epoca Il Fatto Quotidiano. «Tutto ciò, nonostante una somma totale di circa 11 milioni di euro anticipata dalla Regione Lazio e che ora andrà in qualche modo recuperata». Quando Salvini parla dunque di «trentacinque milioni che la Regione Lazio ha speso per mascherine mai arrivate» scambia il valore della commessa con quello dell’anticipo dato, più basso.
Per quanto riguarda le mascherine, i primi due ordini sono stati effettuati il 16 marzo, ma l’arrivo previsto del 18 marzo era stato disatteso. Nonostante questo, il 20 marzo è stato eseguito un terzo ordine.
Come ha ricostruito la consigliera regionale di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo in un’interrogazione del 3 luglio scorso, è stata l’Agenzia regionale di Protezione civile del Lazio a decidere per l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale da Eco.Tech, «attraverso affidamento diretto», ossia senza gara, vista l’emergenza in corso.
Come aveva già sottolineato Il Fatto Quotidiano ad aprile, c’erano però già all’epoca dubbi sull’affidabilità di Eco.Tech come possibile fornitore di mascherine, a cui la Protezione civile ha poi revocato la commissione. Ma come vedremo tra poco, resta il problema del recupero dei soldi anticipati dalla regione.
Nelle settimane successive alla commessa mancata, hanno tra gli altri iniziato a indagare sulla questione la Corte dei Conti, la Guardia di finanza, la magistratura e l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac).
Dunque, anche se è vero che Zingaretti non risulta al momento indagato per questa vicenda, Salvini sbaglia quando dice che su questa vicenda non c’è uno «straccio d’inchiesta».
Con il passare delle settimane però, come ha scritto il Corriere della Sera il 9 luglio scorso, la vicenda è stata «ridimensionata sul piano penale» – a differenza di quanto sta avvenendo in Lombardia con Fontana – ma «continua ad avere strascichi politici in un pasticcio contabile-amministrativo di non facile soluzione».
Da un punto di vista amministrativo, appunto, la questione è molto articolata: da un lato, Eco.Tech ha deciso di rifarsi sui suoi fornitori e di fare ricorso al Tar contro la decisione di risoluzione del contratto da parte della Regione Lazio; dall’altro lato, secondo la Regione Lazio l’unica soluzione per riottenere quanto anticipato per la fornitura è il ricorso ingiuntivo, per ottenere il recupero del credito.
Il rischio ora è che la regione non riesca a recuperare le risorse impegnate, dal momento che, per di più, una polizza assicurativa che era stata sottoscritta da Eco.Tech si è rivelata non essere valida in Italia.
Ricapitolando: è vero che abbiamo a che fare anche nel Lazio con un problema nella gestione di risorse pubbliche (per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale) su cui, al contrario di quanto affermato da Salvini, ci sono delle indagini in corso. Ma, a differenza di quanto successo in Lombardia con Fontana, al momento Zingaretti non risulta implicato direttamente nella vicenda né è implicata un’azienda in cui siano coinvolti suoi parenti o che abbia un potenziale conflitto di interessi con lui.
In conclusione
Secondo Matteo Salvini, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana è «indagato e diffamato per una donazione di migliaia di camici agli ospedali lombardi», mentre il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti sarebbe «ignorato» nonostante la sua amministrazione abbia dato «14 milioni» di euro «ad una società fantasma per fornire mascherine mai arrivate».
Abbiamo fatto un po’ di ordine e il confronto del leader della Lega è malposto.
Da un lato, Fontana non è indagato per «una donazione», ma per frode in pubbliche forniture, mentre sull’essere «diffamato» si esprimerà la magistratura nel caso in cui ci dovessero denunce in proposito.
Secondo le informazioni a oggi disponibili, il presidente della Regione Lombardia avrebbe infatti cercato di trasformare in donazione una commessa da oltre 500 mila euro – di cui era a conoscenza, nonostante le sue dichiarazioni opposte – a una società di suo cognato. Per “risarcire” il parente del mancato incasso, Fontana – come lui stesso ha ammesso – avrebbe provato a fare un bonifico da 250 mila euro al cognato, poi bloccato.
Dall’altro lato, è vero che nella Regione Lazio è nato un caso per una commessa milionaria di mascherine, che è stata poi disattesa. Ma in questo caso non è coinvolto direttamente né Zingaretti né una società con conflitti di interessi con lui, anche se ormai da mesi resta il problema di come la Regione Lazio potrà recuperare le risorse già impegnate per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale.
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