Le omissioni di Meloni su par condicio e carcere per i giornalisti

Secondo la presidente del Consiglio, su questi due temi sono circolate «fake news» negli ultimi giorni. La sua ricostruzione dei fatti è però lacunosa
Pagella Politica
Nella serata di giovedì 18 aprile, in un punto stampa al termine del Consiglio europeo straordinario, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato due «grandi fake news» che, a detta sua, sono state diffuse in questi giorni contro il suo governo. Secondo Meloni, sono state fatte «ricostruzioni surreali» sul regolamento della par condicio per le elezioni europee e sull’inasprimento delle pene per i giornalisti accusati di diffamazione.

Punto per punto, abbiamo analizzato le dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia, che nel ricostruire i fatti ha omesso alcune informazioni importanti.

Il carcere per i giornalisti

«Adesso vogliamo mandare in carcere i giornalisti, quando la proposta che toglie il carcere ai giornalisti per diffamazione è a prima firma Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Perché vi comunico che il carcere per i giornalisti per diffamazione c’è, e c’è una legge di Fratelli d’Italia che sta togliendo il carcere per diffamazione»

Attualmente l’articolo 595 del codice penale dispone che la diffamazione è punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se la diffamazione avviene «a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità», oppure «in atto pubblico», è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con una multa non inferiore a 516 euro. La diffamazione è commessa quando una persona «offende» la reputazione di un’altra persona «comunicando con più persone».

A gennaio 2023 è stato presentato in Senato il disegno di legge n. 466, a prima firma del senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni, che al momento è all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Il testo è cofirmato anche da altri venti senatori del partito di Meloni e interviene su una serie di norme in materia di diffamazione, commessa anche a mezzo stampa o con altro mezzo di diffusione. Tra le altre cose, il disegno di legge propone di modificare l’articolo 595 del codice penale, prevedendo che la diffamazione sia punita con la multa da 3 mila euro a 10 mila euro e che, se la diffamazione avviene con qualsiasi mezzo di pubblicità diverso dalla stampa oppure «in atto pubblico», la pena sia aumentata della metà.

Dunque è vero, come dice Meloni, che se il disegno di legge fosse approvato così come proposto, non prevederebbe più il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione. Su questo tema però la presidente del Consiglio non la racconta tutta: vediamo perché.

Le sentenze delle Corti

Oggi la reclusione prevista dall’articolo 595 del codice penale rappresenta un’ipotesi residuale, come affermano le pronunce di diverse Corti. Per questo motivo la sua eliminazione attraverso una legge costituisce la presa d’atto di quanto già accade in sede giudiziaria.

Nel 2021 la Corte Costituzionale ha affrontato il tema con la sentenza n. 150, dove ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa (la n. 47 del 1948), che prevedeva il carcere per il reato di diffamazione a mezzo della stampa. Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha stabilito anche l’incostituzionalità dell’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 che disciplina il sistema radiotelevisivo pubblico e privato. Quest’ultima legge stabilisce che il reato di diffamazione stabilito dall’articolo 13 della legge sulla stampa vale anche per le trasmissioni radiofoniche e televisive.

Secondo la Corte Costituzionale, i giudici possono optare per l’ipotesi della reclusione «soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata». I giudici devono invece limitarsi «all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi». Nel 2021 anche la Corte di Cassazione si è espressa sul tema con la sentenza n. 13993, osservando che la reclusione non può essere inflitta dal giudice per il reato di diffamazione salvo che il soggetto colpevole abbia leso gravemente altri diritti fondamentali dell’individuo, come nei casi di istigazione all’odio o alla violenza. 

Questa sentenza della Corte di Cassazione si pone in linea con l’orientamento di precedenti pronunce della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU). Il problema delle pene detentive per i casi di diffamazione, infatti, è stato più volte affrontato dalla CEDU per quanto riguarda i limiti alla libertà di espressione stabiliti dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In base a questa Convenzione, la libertà d’espressione è considerata un diritto centrale nel sistema di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Nelle sue pronunce, la Corte ha sottolineato il ruolo, per così dire, di “cane da guardia” esercitato dagli organi di stampa, da cui consegue la loro funzione di riferire al grande pubblico su fatti di interesse. In base a questa premessa, la Corte ha considerato le sanzioni detentive a carico dei giornalisti come un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto, evidenziando i riflessi che queste sanzioni possono avere sul giornalismo investigativo e, più in generale, sulla partecipazione della stampa ai dibattiti di interesse pubblico. Nel 2020, con due diverse pronunce (qui e qui), la CEDU ha sottolineato che i messaggi diffamatori meritevoli della pena detentiva sono quelli che veicolano i discorsi d’odio e che istigano alla violenza.

Ricapitolando: è vero che alcuni esponenti di Fratelli d’Italia vorrebbero eliminare il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione, ma questa proposta è stata suggerita più volte da varie Corti. Non tutti i parlamentari di Fratelli d’Italia, comunque, pensano che questa proposta sia giusta.

Gli emendamenti del senatore di Fratelli d’Italia

Nel punto stampa, Meloni non ha detto un’altra cosa importante: da un lato, è vero che alcuni senatori di Fratelli d’Italia vogliono eliminare la disposizione che prevede il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, dall’altro lato almeno un senatore di Fratelli d’Italia ha provato comunque a reintrodurre la detenzione per questi ultimi, cambiando poi idea. 

Durante l’esame in Commissione Giustizia del disegno di legge a prima firma di Balboni, il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino ha presentato alcuni emendamenti per modificare il testo. Berrino è tra i cofirmatari del disegno di legge, di cui in commissione è il relatore. Questo è un ruolo di primo piano nei lavori parlamentari: come spiega il glossario del Senato, il relatore di un disegno di legge «è una sorta di regista politico del dibattito, che esprime il suo parere (in realtà, quello della maggioranza) su tutti gli emendamenti presentati».

Il 9 aprile sono stati depositati in Commissione Giustizia gli emendamenti al disegno di legge che chiede di modificare alcune norme sulla diffamazione. Un emendamento di Berrino proponeva di aggiungere alla già citata legge sulla stampa del 1948 il seguente articolo 13-bis: «Chiunque, con condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione, attribuisce a taluno con il mezzo della stampa o degli altri prodotti editoriali (…) fatti che sa essere anche in parte falsi, è punito, se l’evento si verifica, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50 mila euro a 120 mila euro. Quando le condotte di cui al primo comma consistono nell’attribuzione, a taluno che si sa innocente, di fatti costituenti reato, la pena è aumentata da un terzo alla metà». Un altro emendamento di Berrino chiedeva di mantenere la pena della reclusione, analogamente a quanto previsto dall’articolo 595 del codice penale, quello che come abbiamo visto punisce il reato di diffamazione. 

«Le condotte che mantengono una punizione detentiva non sono relative alla libertà di stampa, ma a un uso volutamente distorto e preordinato al killeraggio morale della libertà di stampa», ha dichiarato Berrino negli scorsi giorni per difendere i suoi emendamenti. Il senatore di Fratelli d’Italia sembrava ignorare che, come chiarito sopra, la Corte Costituzionale ha già dichiarato incostituzionali le norme che punivano con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa, della radio o della televisione. Come spiega un comunicato stampa della Corte Costituzionale sulla già citata sentenza del 2021, queste norme sono state giudicate incostituzionali «perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo». «La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri», si legge nel comunicato. 

Berrino ha poi ritirato gli emendamenti presentati in Commissione Giustizia, con tutta probabilità spinto dalle polemiche nate negli scorsi giorni. Il 18 aprile Balboni, che è presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, ha dichiarato in un’intervista con la Repubblica che Berrino non aveva condiviso con lui il contenuto degli emendamenti criticati. «Berrino ha presentato alcuni emendamenti che immagino siano stati il frutto di varie sollecitazioni giunte da suoi colleghi avvocati, ma che, appunto, ha ritirato dopo un approfondimento», ha detto Balboni. «Sono cose che nelle dinamiche parlamentari succedono, ma ormai il problema è superato visto che ha ritirato le sue proposte».

Al di là delle dinamiche interne al partito, resta il fatto che un senatore di Fratelli d’Italia ha proposto di cambiare un disegno di legge presentato dal suo partito nella direzione opposta rispetto a quella indicata da Meloni nel punto stampa.

Il regolamento sulla par condicio

«Mi ha divertito che oggi si sostenga che io voglio controllare la stampa e voglio limitare la par condicio perché il regolamento rimane quello che c’era prima. Quindi fatemi capire: se oggi io voglio controllare la stampa perché il regolamento rimane quello che c’era prima, prima controllavano la stampa in campagna elettorale? […] Quelli sulla par condicio sono emendamenti che sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione. Sa perché? Perché ricalcano la legge. […] L’emendamento è stato votato dai partiti che sono attualmente all’opposizione perché ricalca la legge in vigore da diversi anni»

Anche in questo caso la questione è complessa e va analizzata punto per punto per capire perché la presidente del Consiglio non la racconta tutta.

La par condicio (in italiano “parità di trattamento”) è quell’insieme di norme che, durante le campagne elettorali, devono garantire a tutti i partiti lo stesso spazio in tv, in radio e negli altri mezzi di informazione. Negli scorsi giorni i partiti di opposizione e il sindacato dei giornalisti della Rai (l’Usigrai) hanno criticato duramente i partiti che sostengono il governo Meloni, accusandoli di aver approvato delle norme sulla par condicio in vista delle elezioni europee di giugno che favoriscono le figure istituzionali, e di conseguenza gli esponenti del governo.

Il 9 aprile la Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, che è composta da 20 deputati e 20 senatori, si è riunita per esaminare il nuovo regolamento sulla par condicio valido per la campagna elettorale delle elezioni europee nei programmi televisivi, radiofonici e multimediali del servizio pubblico, ossia la Rai. Lo schema del nuovo regolamento è stato presentato in commissione dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), un’autorità indipendente che ha il compito di tutelare i consumatori e garantire la concorrenza nel mercato della comunicazione. Durante l’esame del regolamento in Commissione di Vigilanza Rai, due emendamenti, presentati da tre parlamentari della maggioranza e poi parzialmente riformulati, hanno attirato le critiche dei partiti di opposizione. 

Un emendamento ha stabilito, all’articolo 4, comma 6 del regolamento, che durante la campagna elettorale per le europee i programmi di approfondimento informativo in Rai, «qualora in essi assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politico-elettorali, sono tenuti a garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici, facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative». I partiti di opposizione hanno criticato quest’ultimo inciso, che consentirebbe ai politici che rappresentano il governo e le istituzioni di avere più spazio nei programmi di approfondimento e sfruttarlo per fare indirettamente campagna elettorale, spiegando le loro attività governative e istituzionali. 

Discorso analogo vale per un altro emendamento, che ha stabilito (art. 4, comma 4) che, nella partecipazione a «programmi di informazione», per i «rappresentanti delle istituzioni» valgono le stesse regole che valgono per gli altri candidati ed esponenti politici, «salvo intervengano su materie inerenti all’esclusivo esercizio delle funzioni istituzionali svolte». Tra i «programmi di informazione» sono compresi i telegiornali, i giornali radio, i notiziari, le rassegne stampa e «ogni altro programma di contenuto informativo, a rilevante presentazione giornalistica». 

Che cosa non dice Meloni

Nel punto stampa Meloni ha sostenuto tre cose: che «il regolamento rimane quello che c’era prima», e che quindi la sua maggioranza non ha introdotto novità rispetto al passato; che gli emendamenti approvati in Commissione di Vigilanza Rai «ricalcano la legge» sulla par condicio; e che «sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione».

La prima affermazione è scorretta. È vero che l’articolo 4, comma 4 del regolamento approvato dalla Commissione di Vigilanza Rai per le elezioni europee del 2019 è uguale a quello approvato di recente per le prossime elezioni europee. Ma il regolamento approvato nel 2019 non conteneva però all’articolo 4, comma 6, l’inciso contestato in questi giorni (il «facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative»).

È scorretto anche dire che i due emendamenti «ricalcano la legge» sulla par condicio. Dopo le proteste dei partiti di opposizione, i due emendamenti sono stati riformulati, con l’aggiunta dell’inciso: «secondo le regole stabilite dalle leggi n. 28 del 2000 e n. 515 del 1993». La legge del 2000 contiene le norme sulla «parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie». Disciplina puntualmente la «comunicazione politica», ossia i programmi sul modello delle tribune elettorali e politiche, e i «messaggi politici autogestiti», che sono una forma di pubblicità elettorale regolamentata. Per i «programmi di informazione», invece, la legge si limita a disporre che vada garantita «la parità di trattamento, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità». La legge quindi fissa solo tre principi di massima e affida all’Agcom e alla Commissione di Vigilanza Rai il compito di stabilire, previa consultazione tra loro, i regolamenti sulla par condicio rispettivamente per le emittenti private e per la Rai.

Infine, è solo parzialmente vero che in Commissione di Vigilanza Rai gli emendamenti «sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione». Come detto e come risulta dal resoconto dei lavori in commissione, i due emendamenti sono stati criticati in Commissione di Vigilanza Rai da vari esponenti dei partiti all’opposizione. Sull’emendamento che riguarda l’articolo 4, comma 6 del regolamento sulla par condicio, hanno espresso voto contrario tra gli altri il PD, il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra. L’emendamento che ha modificato l’articolo 4, comma 4, è stato in un primo momento accantonato durante l’esame in commissione, e successivamente solo il PD ha espresso parere favorevole alla sua riformulazione, almeno da quanto si evince dal resoconto sui lavori in Commissione. Nel 2019 il testo di quell’articolo del regolamento sulla par condicio, uguale a quello per le prossime elezioni europee, fu approvato all’unanimità dalla Commissione, ma la composizione del Parlamento era diversa da quella attuale.

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