Nordio sbaglia: l’apologia di fascismo non è punita da un codice firmato da Mussolini

Abbiamo verificato una dichiarazione scorretta fatta dal ministro della Giustizia in conferenza stampa
ANSA
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Il 15 giugno, presentando in conferenza stampa il nuovo disegno di legge del governo sulla giustizia, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che «se una persona viene condannata per apologia di fascismo viene condannata in base a un codice che è ancora quello firmato da Mussolini». In passato Nordio aveva fatto la stessa dichiarazione, per esempio in televisione ad agosto 2022, quando era considerato tra i favoriti per il ruolo di ministro della Giustizia in un futuro governo di centrodestra (previsione poi avveratasi).

Sull’apologia di fascismo le cose non stanno come dice Nordio, che sbaglia.

Che cosa dice la “legge Scelba”

Il codice penale italiano, noto come “codice Rocco” dal nome del ministro della Giustizia del regime fascista Alfredo Rocco, è stato approvato con il regio decreto n. 1398 del 19 ottobre 1930, quando al potere c’era Benito Mussolini. Successivamente il testo è stato reso conforme alla Costituzione da ripetuti interventi del Parlamento e della Corte costituzionale. 

Il reato di apologia del fascismo non è previsto dal codice penale, ma dalla cosiddetta “legge Scelba” (la legge n. 645 del 20 giugno 1952) che porta il nome del politico Mario Scelba e che fu firmata dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi. L’articolo 4 della “legga Scelba” stabilisce che chi fa propaganda «per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche» del disciolto partito fascista può essere punito con una reclusione in carcere dai 6 mesi ai due anni e con una multa. È punito con la stessa pena anche «chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo», oppure le sue «finalità antidemocratiche». Le pene sono inasprite se l’apologia di fascismo avviene per mezzo stampa. 

L’articolo 4 contiene un riferimento al codice penale, più precisamente al suo articolo 28, comma 2 (numeri 1 e 2), ma solo per dire che chi è condannato per apologia di fascismo è privato sia del diritto di votare e di essere eletto e sia di ogni pubblico ufficio o incarico non obbligatorio di pubblico servizio. 

La “legge Scelba” è stata introdotta per attuare la dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione, in base alla quale «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». La “legge Scelba” poi non ha modificato il codice penale all’epoca in vigore: nel codice penale infatti né è stato introdotto un nuovo articolo né è stato modificato un articolo preesistente che prevede il reato di apologia di fascismo. Stiamo quindi parlando di una legge penale a sé stante.

Ricapitolando: è sbagliato sostenere, come fatto da Nordio, che se una persona viene condannata per apologia di fascismo, questo accade in base al codice penale firmato da Mussolini. La condanna avverrebbe sulla base di una legge penale della Repubblica italiana, che attua una disposizione della Costituzione repubblicana.

Il confronto tra i due codici

Nella conferenza stampa Nordio ha anche contrapposto il “codice Rocco”, ossia il codice penale del 1930, e il “codice Vassalli”, ossia il codice di procedura penale che porta il nome dell’ex partigiano ed ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e che è stato introdotto con il decreto del presidente della Repubblica n. 447 del 22 settembre 1988. Secondo Nordio il “codice Vassalli”, a differenza del “codice Rocco”, «è stato demolito ed è stato snaturato» negli anni. 

Tempo fa abbiamo verificato una dichiarazione simile fatta dall’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto. In breve: il codice penale è stato ampiamente modificato dal Parlamento e dalla Corte costituzionale per depurarlo delle norme più chiaramente figlie dell’epoca fascista. Dire che il “codice Vassalli” è stato «demolito» è invece un’esagerazione: è vero che alcune rilevanti disposizioni del codice di procedura penale, che determina le norme che regolano il processo penale nel nostro Paese, sono state dichiarate incostituzionali da parte della Corte costituzionale. Ma il codice nel suo complesso è ancora in vigore e la “rivoluzione” introdotta dal codice nell’ordinamento italiano, ossia il passaggio in Italia dal modello inquisitorio a quello accusatorio, è rimasta in piedi.

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