Domenica 20 giugno un poliziotto ha sparato alle gambe di un immigrato armato di coltello alla stazione Termini di Roma. Al di là della dinamica dei fatti, su cui sta indagando la magistratura, ha fatto molto discutere la notizia – pubblicata il 23 giugno dal quotidiano la Verità e ripresa da numerosi politici di destra (qui, qui, qui e qui alcuni esempi) – secondo cui il poliziotto indagato «dovrà difendersi a sue spese».

Abbiamo approfondito la vicenda e abbiamo verificato che la notizia è scorretta: il poliziotto che subisce un processo per aver usato le armi mentre era in servizio ha la possibilità di farsi difendere gratuitamente dall’Avvocatura dello Stato o, in alternativa, di scegliersi un legale di fiducia. In questo secondo caso lo Stato rimborsa le spese legali sostenute.

Andiamo a vedere i dettagli.

Lo Stato difende i poliziotti, a che condizioni

C’è una legge degli anni Settanta che chiarisce molto bene le situazioni di cui stiamo parlando. In base all’articolo 32 della legge n. 152 del 1975, nei processi a carico di ufficiali o agenti di polizia (o carabinieri, guardia di finanza, polizia giudiziaria etc.) «per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, la difesa può essere assunta a richiesta dell’interessato dall’Avvocatura dello Stato». L’Avvocatura dello Stato è l’organo al quale sono assegnati compiti di consulenza giuridica e di difesa delle amministrazioni statali – e, a certe condizioni, dei loro dipendenti – in tutti i giudizi civili, penali, amministrativi o internazionali.

In alternativa l’agente può scegliersi un legale di fiducia. In questo caso le spese sono comunque a carico del Ministero dell’Interno, che rimborsa l’agente dietro presentazione delle fatture pagate. Vediamo un po’ meglio queste due ipotesi.

Avvocatura dello Stato

Come ci hanno riferito dall’Avvocatura dello Stato, l’agente indagato deve fare una richiesta per essere assistito nel processo e questa richiesta viene esaminata per vedere se ci sono i requisiti necessari, in particolare che il fatto sia stato compiuto in servizio da un membro delle Forze dell’ordine e usando armi o altri mezzi di coazione fisica (come sembra sia accaduto nel caso di cronaca in questione). In caso positivo, la difesa viene appunto esercitata dall’Avvocatura dello Stato e l’agente indagato non deve pagare le spese di giudizio.

Legale di fiducia

Se l’agente indagato il cui caso concreto ricade tra quelli previsti dall’art. 32 sceglie di affidarsi a un legale di fiducia, ci hanno riferito ancora dall’Avvocatura dello Stato, deve anticipare il pagamento delle spese ma viene rimborsato dal Ministero dell’Interno dietro presentazione delle fatture emesse dal suo avvocato.

Se il processo dovesse concludersi con un’assoluzione, o anche con una condanna per colpa, le spese restano comunque a carico dello Stato. Se invece si conclude con una condanna per dolo, allora lo Stato chiederà indietro i soldi che avesse eventualmente dato all’agente indagato come rimborso.

Anche un documento del sindacato di Polizia Silp del 2018 conferma che la situazione sia questa, così come una proposta di legge di Fratelli d’Italia (sempre del 2018) che nel suo preambolo ricostruisce il quadro normativo esistente.

Lo Stato rimborsa, ma non tutto e non sempre

Le situazioni in cui lo Stato debba rimborsare le spese sostenute in un primo momento dall’agente indagato possono essere di due tipi. In un primo caso può accadere, come visto, per una sua libera scelta di volere un legale di fiducia (se il suo caso ricade sotto l’art. 32 della l.152/1975). In alternativa può accadere perché al caso concreto non si può applicare la normativa appena descritta (ad esempio, l’agente non era in servizio, oppure non sono coinvolte armi o altri mezzi di coazione).

In questo secondo caso si applica la la disciplina generale per i dipendenti del pubblico impiego (articolo 18 del decreto-legge n. 67 del 25 marzo 1997), che è meno favorevole. Questa prevede che le spese di giudizio siano «rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato», e dunque l’agente non ha la facoltà di scegliere di farsi difendere dall’Avvocatura dello Stato. Il rimborso avviene poi solo in caso di assoluzione, in caso di condanna – anche per colpa – le spese restano a carico dell’agente.

Come ci hanno confermato Daniele Tissone, segretario generale del Silp (sindacato dei lavoratori nella polizia, parte della Cgil), e Domenico Pianese, segretario generale del Coisp (un sindacato di settore indipendente), è proprio nelle situazioni in cui il poliziotto deve attendere un rimborso da parte dello Stato che si registrano i problemi più gravi.

La procedura è particolarmente lunga e farraginosa, con vari passaggi e con la decisione finale dell’Avvocatura dello Stato che valuta la congruità del rimborso finale. Viene esaminato sia il diritto dell’agente a ottenere il rimborso sia l’entità che il rimborso deve avere. Capita quindi spesso, secondo quanto ci hanno raccontato i dirigenti sindacali Silp e Coisp, che l’agente anche quando viene assolto non venga rimborsato integralmente e subisca un danno economico, senza contare le difficoltà che può incontrare nel dover anticipare le spese di giudizio a fronte di uno stipendio spesso inferiore ai 1.500 euro netti mensili.

È vero che, in base alla legge che ha recepito l’accordo sindacale per il personale non dirigente delle forze di polizia (art. 12 co.2 del Dpr 39/2018), una parte delle spese di giudizio possa essere anticipata dall’amministrazione di appartenenza, ma solo fino a un massimo di 5 mila euro. Una cifra giudicata insufficiente dai sindacati di polizia.

In ogni caso, a meno che non ci siano elementi imprevedibili e che al momento sfuggono alle cronache, il caso dell’agente che ha sparato a Roma Termini non sembra debba ricadere in questa più problematica disciplina (stabilita dall’art. 18 del Dpr 67/1997) in base alla quale l’agente non ha scelta e deve pagare di tasca propria la difesa e poi attendere il rimborso delle spese da parte dello Stato.

In conclusione

Un poliziotto che finisca a processo per fatti avvenuti mentre era in servizio e con l’uso di armi da fuoco, come nel recente caso di cronaca alla stazione di Roma Termini, non è costretto a pagarsi le spese legali di tasca propria, in base a una legge del 1975.

Se, come sembra, l’agente indagato era un membro della Polizia di Stato, era in servizio e ha utilizzato un’arma da fuoco, potrà scegliere se farsi difendere dall’Avvocatura dello Stato o se nominare un difensore di fiducia, i cui costi saranno coperti dal Ministero dell’Interno dietro presentazione delle fatture dell’avvocato da parte dell’agente. Il Ministero dell’Interno poi si rivarrà sull’agente solo in caso di condanna per fatto doloso (non per fatto colposo).

In caso di rimborso – o perché l’agente ha scelto di non farsi difendere dall’Avvocatura dello Stato, ma da un legale di fiducia, o perché non ha avuto scelta, non ricadendo il suo caso in quelli previsti dall’art. 32 della l.152/1975 – è vero che l’agente indagato debba anticipare di tasca sua le spese di giudizio (salvo un anticipo massimo di 5 mila euro da parte dell’amministrazione di appartenenza), che verranno rimborsate solo in un secondo momento dallo Stato. Come lamentano i sindacati di Polizia, è in questi frangenti che le procedure burocratiche farraginose causano spesso gravi problemi economici agli agenti indagati.

In ogni caso, la notizia de la Verità, ripresa da molti politici di destra, secondo cui l’agente che ha sparato all’immigrato armato di coltello alla stazione Termini di Roma «dovrà difendersi a sue spese» è scorretta: in base agli elementi noti della vicenda – un agente della Polizia di Stato, in servizio, che va a processo per l’uso delle armi – il poliziotto potrà scegliere se farsi assistere gratuitamente dall’Avvocatura dello Stato o se scegliere un legale di fiducia, affrontando in questo secondo caso le difficoltà di cui abbiamo dato conto circa la procedura di rimborso.