Come la politica vuole cambiare le regole sul cognome dei figli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale, tornano d’attualità le proposte di legge che in passato non hanno avuto fortuna in Parlamento
ANSA/DANIEL DAL ZENNARO
ANSA/DANIEL DAL ZENNARO
Il 27 aprile la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le regole che non consentono ai genitori di dare al figlio, di comune accordo, solo il cognome della madre, e che obbligano a usare il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori, in caso di mancato accordo. Secondo i giudici, la norma che attribuisce automaticamente ai figli il cognome del padre è «discriminatoria e lesiva» dell’identità del figlio – ha spiegato un comunicato dell’ufficio stampa della Corte costituzionale – dal momento che il cognome «costituisce elemento fondamentale dell’identità personale». 

«La regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due», hanno deciso i giudici, che però hanno specificato come sia ora «compito del legislatore», ossia del Parlamento, di regolare tutti gli aspetti connessi a questa decisione.

L’annuncio non arriva nel vuoto: da anni nel nostro Paese si discute della necessità di cambiare le regole sull’assegnazione dei cognomi ai figli e in passato la stessa Corte costituzionale era intervenuta sul tema, non trovando però risposta dal Parlamento. Ora però le cose potrebbero cambiare.

Una storia lunga

In Italia non esiste una regola specifica che stabilisce l’automatica attribuzione del cognome paterno a un figlio nato all’interno di un matrimonio, in presenza di una diversa volontà dei genitori (l’articolo 262 del codice civile regola invece l’assegnazione del cognome per i figli nati fuori dal matrimonio). 

Come ha sottolineato la Corte costituzionale in una sentenza del 2016, questa automaticità è però «desumibile» da alcuni articoli del codice civile e di alcune leggi. Proprio nel 2016 i giudici costituzionali avevano già dichiarato illegittima questa norma, definendo come «indifferibile» l’intervento del Parlamento per «disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità».

In realtà, in quegli anni qualcosa si stava muovendo in Parlamento, sebbene i tentativi di riforma si siano poi rivelati infruttuosi. A inizio 2014, infatti, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva definito la preclusione all’assegnazione al figlio del solo cognome della madre una forma di discriminazione basata sul sesso, in violazione del principio di uguaglianza tra uomo e donna.

Il 24 settembre 2014, durante il governo guidato da Matteo Renzi, alla Camera dei deputati era stata approvata una proposta di legge, frutto dell’unione di diversi testi, che, tra le altre cose, chiedeva di superare l’assegnazione automatica del cognome del padre a un figlio. La proposta era quella di inserire un nuovo articolo nel codice civile (l’art. 143-quater) in base al quale i genitori coniugati potessero attribuire al figlio o solo il cognome del padre o solo quello della madre o entrambi, «nell’ordine concordato». «In caso di mancato accordo tra i genitori – spiegava la proposta di legge – al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico». Se la coppia di genitori avesse avuti altri figli, a questi sarebbe dovuto essere dato lo stesso cognome scelto per il primo figlio. Nel caso in cui i genitori avessero optato per dare entrambi i cognomi a un proprio figlio, quest’ultimo avrebbe dovuto a sua volta poi trasmetterne solo uno ai propri figli.

La proposta si era poi arenata in Senato: a fine dicembre 2017, dopo più di tre anni dall’approvazione della Camera, il testo, supportato in particolare dal Partito democratico, aveva concluso il suo esame alla Commissione Giustizia del Senato, ma non era giunto al voto finale in aula. Secondo le ricostruzioni dell’epoca, fu decisiva l’opposizione al testo soprattutto dei partiti di centrodestra, che criticavano anche le norme contenute nella proposta di legge relative all’assegnazione del cognome coniugale dopo le nozze.

Le proposte in Parlamento

In questa legislatura, iniziata a marzo 2018, in Parlamento sono stati depositati almeno 11 proposte di legge per cambiare le norme sull’attribuzione dei cognomi ai figli, provenienti da diversi partiti dell’arco parlamentare, dal Partito democratico al Movimento 5 stelle, passando per Forza Italia e Liberi e uguali. 

Non tutte queste proposte partono però alla pari: cinque di loro hanno infatti già iniziato il loro esame congiunto alla Commissione Giustizia del Senato. Stiamo parlando dei cinque testi rispettivamente a prima firma di Laura Garavini (Pd), Julia Unterberger (Gruppo per le autonomie), Paola Binetti (Forza Italia), Loredana De Petris (Liberi e Uguali) e Simona Malpezzi (Pd). 

Le proposte principali contenute in questi testi sono pressoché identiche e in linea generale ricalcano le parole contenute nel testo approvato dalla Camera nel 2014. Come quest’ultima, le proposte all’esame della Commissione Giustizia del Senato tracciano anche alcune disposizioni relative, per esempio, ai figli adottati o nati fuori dal matrimonio. Per quest’ultimi, la proposta è di adottare le regole avanzate per i figli nati all’interno del matrimonio, in caso di riconoscimento di entrambi i genitori, o l’assegnazione del singolo cognome di un genitore che riconosce da solo il figlio.

Al momento non è chiaro se queste proposte avranno maggiore fortuna rispetto a quelle degli anni scorsi, anche se la recente sentenza della Corte costituzionale ha sicuramente riportato d’attualità il tema nei lavori parlamentari, ricordando la necessità di un intervento legislativo. A meno di un anno dalla fine della legislatura, un eventuale testo approvato dalla Commissione Giustizia dovrebbe ricevere l’approvazione dall’aula del Senato e successivamente passare all’esame della Camera.

Le reazioni

Tra i partiti politici, i commenti alla sentenza della Corte costituzionale sono stati perlopiù positivi, ma con alcune eccezioni.

«Per l’ennesima volta, la Corte è arrivata prima del legislatore», ha commentato la capogruppo del Pd al Senato Simona Malpezzi. «Ora chiediamo al presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari che si adoperi perché il provvedimento venga approvato rapidamente e in piena aderenza a quanto stabilito dalla Corte». Lo stesso Ostellari (Lega) ha replicato, dicendo che «l’iter della Commissione Giustizia prevede che ora si svolgano le audizioni» «La senatrice Malpezzi, se ritiene la questione effettivamente prioritaria, si adoperi nell’ambito dell’ufficio di presidenza della commissione per accelerare i lavori», ha aggiunto Ostellari. «Da parte nostra non ci sono preclusioni: segnalo solo che la sentenza della Corte non è ancora stata depositata e merita un’attenta analisi».

Alcuni parlamentari hanno espresso dubbi sulla sentenza della Corte costituzionale. «La sentenza della Consulta è sicuramente una rivoluzione che può avere però effetti negativi sulla famiglia che si troverà a discutere, in caso di disaccordo, davanti a un giudice per stabilire la precedenza del cognome», ha scritto il 27 aprile su Facebook Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia. «La lettura manichea che la sinistra fa di questa sentenza conferma ancora una volta l’impostazione distruttiva della famiglia e il desiderio di alimentare la guerra tra uomo e donna, padre e madre».

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