Dallo smart working alle celebrazioni ovidiane, dal blocco degli sfratti ai Cinema Bond dell’Istituto Luce. Il 23 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto-legge “Milleproroghe” e, com’è ormai tradizione, le norme contenute all’interno sono quanto mai variegate.
L’espressione è consolidata nel gergo politico e giornalistico, ma che cos’è un decreto “Milleproroghe”? In parte, lo dice già il nome. Almeno una volta all’anno, spesso a dicembre, il governo emette un provvedimento con il quale “proroga” alcune leggi in scadenza o rinvia l’entrata in vigore di alcune norme.
Vediamo come funzionano questi decreti e da quanto tempo vengono utilizzati.
Una “tradizione” quasi ventennale
Il decreto “Milleproroghe” non è un passaggio istituzionale obbligatorio, per così dire, com’è la legge di Bilancio (richiesta dalla Costituzione). Più semplicemente, il provvedimento rappresenta una prassi che si è consolidata negli ultimi diciannove anni. In tanti, fra cui Wikipedia, indicano erroneamente il 2005 come primo anno in cui sia stato approvato un decreto “Milleproroghe”.
Come spiega invece il dossier della Camera sul decreto “Milleproroghe” del 2018, leggi di questo tipo vengono approvate dal 2001 una volta all’anno (2001, 2002, 2005, 2007, 2008, 2009, 2010, 2011, 2013, 2015 e 2016) o una volta ogni sei mesi (2003, 2006). Nel 2004 erano stati addirittura emanati due decreti-legge “Milleproroghe” a distanza molto ravvicinata, il 9 novembre e il 30 dicembre.
In quanto decreto-legge, il “Milleproroghe” ha il vantaggio di entrare immediatamente in vigore con l’approvazione del Consiglio dei ministri e serve dunque a intervenire in maniera tempestiva sulle scadenze imminenti, senza attendere i tempi più lunghi del normale iter parlamentare. Inoltre, permette di trattare una varietà di argomenti senza dedicare un provvedimento a ognuno di essi.
Con il tempo, tuttavia, governo e Parlamento hanno abusato eccessivamente di questo strumento. Se il primo “Milleproroghe” (decreto-legge n. 411 del 23 novembre 2001) conteneva solo 9 articoli, quello dell’anno scorso (decreto-legge n.162 del 2019), dopo l’approvazione del Parlamento, ne contava 44.
È un problema? Può esserlo, per due motivi. Il primo è di natura politica: talvolta finiscono nel grande contenitore di varie ed eventuali del “Milleproroghe” norme anche molto sensibili e controverse che richiederebbero un percorso autonomo. È successo nel 2018, quando l’approvazione del “Milleproroghe” ha di fatto congelato per un altro anno l’obbligo vaccinale nelle scuole previsto dal decreto Lorenzin. Ed è successo ancora con il decreto “Milleproroghe” del 2019 (poi convertito nel 2020), con il quale il governo interveniva sul tema della concessione autostradale ad Atlantia.
Il secondo problema è più tecnico e riguarda i limiti imposti allo strumento del decreto-legge. Su questo aspetto è intervenuta anche la Corte costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale
L’articolo 77 della Costituzione stabilisce che il governo possa adottare i decreti-legge solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza». Non sono gli unici criteri a cui dovrebbe rispondere questo strumento normativo. Secondo la legge n. 400 del 23 agosto 1988 (art.15, co. 3), il contenuto del decreto-legge «deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». Il “Milleproroghe” è, per definizione, un provvedimento in cui confluiscono norme disomogenee, su una grande varietà di temi. Come può essere compatibile con le caratteristiche di un decreto?
Del tema si è occupata anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 22 del 13 febbraio 2012. Nel 2011, le regioni Liguria, Basilicata, Puglia, Marche, Abruzzo e Toscana hanno fatto ricorso contro un articolo contenuto del “Milleproroghe” approvato alla fine del 2010 (art. 2, co. 2-quater, decreto-legge n. 225 del 29 dicembre 2010). La norma in discussione prevedeva che le regioni in stato di emergenza dopo calamità naturali, catastrofi e altri eventi straordinari fossero autorizzate ad aumentare i tributi e le aliquote regionali fino al massimo consentito o l’imposta sulla benzina fino a cinque centesimi in più del normale e che, solo nel caso in cui queste risorse non fossero sufficienti, potessero disporre del Fondo nazionale della Protezione civile. Una misura poco gradita alle regioni che sarebbero state costrette ad aumentare le tasse sui propri abitanti già colpiti da un’emergenza.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma per varie ragioni, fra cui l’«estraneità» alla materia del decreto (la proroga di disposizioni in scadenza e altri interventi urgenti). La sentenza è complessa e riguarda in gran parte il rapporto fra Stato e Regioni, ma qui ci concentreremo solo sulle valutazioni che la Consulta ha dato sulla tipologia di decreto “Milleproroghe”.
Nel testo, infatti, la Corte ha riconosciuto una ragione unitaria in questo tipo di decreti. Secondo la Consulta, i decreti “Milleproroghe” che, «con cadenza ormai annuale, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal governo e dal parlamento». È questo criterio a rendere omogeneo un decreto così sfaccettato. La norma sulle imposte regionali al centro della sentenza era invece stata dichiarata incostituzionale perché disciplinava un settore senza limiti temporali e senza motivazioni di urgenza.
Richiamando la sentenza della Consulta, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrisse il 23 febbraio 2012 una lettera alle camera criticando il “decreto Milleproroghe” del 29 dicembre 2011 proprio perché il testo, nella fase finale, aveva accolto delle modifiche che poco avevano a che fare con la materia del decreto.
La lezione è stata in parte raccolta l’anno successivo, nel 2012, quando il presidente del Consiglio era Mario Monti. Il 23 dicembre il Consiglio dei ministri aveva comunque approvato un decreto per la proroga di alcune leggi in scadenza ma il premier aveva fatto sapere, con un comunicato, che il decreto non poteva più essere «denominato “Milleproroghe”» perché erano state prorogate solo alcune scadenze su cui era «assolutamente necessario» intervenire «per garantire efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa».
Ma, finito il governo Monti, la tradizione di riempire i “Milleproroghe” di norme varie ed eventuali è stata poi portata avanti negli anni successivi, governo dopo governo.
Il “Milleproroghe” per il 2021
Il decreto “Milleproroghe” approvato il 23 dicembre dal Consiglio dei ministri (ma non ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale) non fa eccezione. Per quanto, nell’anno della pandemia, un filo rosso evidente c’è ed è il rinnovo di gran parte delle misure messe in campo in questi mesi per contrastare la crisi sanitaria.
La più importante è proprio la proroga (art. 21, pag. 19) fino al 31 marzo 2021 dello stato di emergenza che sarebbe altrimenti scaduto il 31 gennaio 2021. Sulla stessa linea, il rinnovo dello smart working per chi ha figli di meno di 14 anni, la possibilità di richiamare al lavoro i medici in pensione o gli specializzandi per rinforzare il personale sanitario e la conferma dei cosiddetti “Covid Hotel” – le strutture che accolgono i positivi che non hanno bisogno di cure ospedaliere – che dunque potranno restare aperti per tutto il 2021. Nel decreto è stato anche previsto un rinnovo di altri sei mesi sul blocco degli sfratti (art. 14, pag. 17) che si applica ai casi di mancato pagamento degli affitti e di trasferimento di immobili pignorati.
Ma non c’è solo la pandemia: il provvedimento contiene misure molto eterogenee. C’è ad esempio il rinnovo della cassa integrazione per tutto il 2021 per i dipendenti del gruppo Ilva di Taranto. E poi ancora la trasformazione dell’Istituto Luce in una società per azioni che può emettere i propri bond sul mercato e la norma che rinvia di nuovo (dal 2017) le celebrazioni per i duemila anni dalla morte di Ovidio.
In conclusione
Il 23 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto-legge “Milleproroghe”, il provvedimento annuale con la quale i governi prolungano alcune misure in scadenza o rinviano l’entrata in vigore di alcune norme.
Gli esecutivi usano questo tipo di decreto con continuità dal 2001 e, anno dopo anno, i provvedimenti si sono allargati sempre di più, fino a contenere norme molto eterogenee. La Consulta ha tuttavia stabilito che c’è un criterio possibile per reggere questi decreti ed è proprio la necessità di intervenire con urgenza sulle scadenze imminenti.
Ambiente
Un emendamento sulla caccia ha fatto arrabbiare gli ambientalisti