La puntata di DiMartedì (La7) del 7 novembre doveva essere il giorno del confronto tra Matteo Renzi e Luigi Di Maio, ma dopo i risultati delle elezioni siciliane il candidato del Movimento 5 Stelle ha deciso di ritirare la sua partecipazione.



Negli studi del programma condotto da Giovanni Floris si è quindi presentato il solo Matteo Renzi, segretario del PD, che si è sottoposto a una lunga intervista – oltre un’ora – con domande del conduttore e poi anche dei giornalisti Massimo Franco (Corriere della Sera), Massimo Giannini (Repubblica) e Alessandro Sallusti (Il Giornale). Abbiamo sottoposto al nostro fact-checking tutte – o quasi – le dichiarazioni verificabili di Renzi (qui il video integrale della puntata).



Quando ti chiama Obama



«Quando ti chiama il presidente degli Stati Uniti e ti dice – dico una cosa che mi è accaduta: ‘abbiamo bisogno di 400 uomini a Mosul’, in una delle situazioni più difficili, in uno dei teatri più drammatici della scena internazionale, il presidente del Consiglio non è che può fare quello che fa lo spaccone» (14’ 45’’)



Non abbiamo modo di verificare con assoluta certezza l’affermazione secondo cui Barack Obama, presidente USA al momento dell’invio dei militari italiani a Mosul, abbia fatto la richiesta in una telefonata a Matteo Renzi, che peraltro ha menzionato quella telefonata anche più avanti nel corso del programma. Le tempistiche sembrano però plausibili. L’annuncio dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi che l’Italia avrebbe inviato 450 uomini a Mosul, per proteggere una diga sul fiume Tigri, è datato 16 dicembre 2015.



Secondo quanto riporta un comunicato stampa della Casa Bianca, il 20 novembre 2015 Obama chiamò effettivamente Renzi e, tra gli argomenti toccati, ci fu “cooperazione nell’antiterrorismo” e “nella campagna contro l’Isis”.



Si può dunque immaginare che la richiesta all’Italia di inviare un proprio contingente, anche se non magari nelle forme colloquiali espresse da Renzi, possa essere stata avanzata durante quella telefonata, e infatti a distanza di nemmeno un mese il presidente del Consiglio diede l’annuncio ufficiale.



Le presenze di Di Maio



«Io avrei chiesto volentieri a Di Maio, che costantemente imperversa negli studi televisivi, perché su 25 mila votazioni in Parlamento dal 2013 ad oggi ha partecipato soltanto al 30 per cento delle votazioni» (16’ 20’’)



Renzi parla della partecipazione ai voti a Montecitorio e, nel caso di Di Maio, su 24.360 votazioni elettroniche registrate nel database di Openpolis al 7 novembre 2017 le sue presenze risultano il 30,92%. Va però precisato, come specifica la stessa Openpolis, che cosa si intenda con presenza e assenza alle votazioni. Infatti, “con assenza si intendono i casi di non partecipazione al voto: sia quello in cui il parlamentare è fisicamente assente (e non in missione) sia quello in cui è presente ma non vota e non partecipa a determinare il numero legale nella votazione”.



Ecco perché la percentuale di assenza di Di Maio è pari al 16,82% e non al 69,08% (come ci si potrebbe aspettare): il leader del M5s era infatti in missione nel 52,26% delle votazioni.



Quello che il M5S non vota



«Come è possibile che i 5 Stelle non abbiano votato i vaccini, non abbiano votato il “dopo di noi”, non abbiano votato la legge sull’autismo, sul terzo settore, sugli ottanta euro, sull’IMU» (17’ 25’’)



Renzi fa un lungo elenco di provvedimenti ed è un elenco corretto, anche se almeno per alcuni casi si può dire che il voto contrario sia il normale atteggiamento di una forza politica all’opposizione.



Sul “Decreto vaccini”, il M5S ha votato contro (qui le ragioni del Movimento). Sul “dopo di noi”, cioè il provvedimento che introduce misure di sostegno per persone con disabilità grave rimaste senza genitori, di nuovo il M5S ha votato contro (qui le motivazioni addotte dal M5S).



Sulla legge contenente “Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie” il M5S si è astenuto. Sulla legge “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale” di nuovo il M5S ha votato contro (qui il perché di questa scelta).



La misura degli 80 euro è stata prevista per la prima volta dal decreto legge 66 del 24 aprile 2014. Sulla legge di conversione – Atto C.2433 – il Movimento 5 Stelle il 18 giugno 2014 ha votato contro.



L’abolizione dell’Imu sulla prima casa è infine contenuta – insieme a molte altre disposizioni – nella Legge di Stabilità 2016 a cui, ovviamente, il M5S ha votato contro.



Ti vinco e ti perdo



«Ci sono altre città che abbiamo vinto e che avevamo perso storicamente: Reggio Calabria, Lecce, Padova… Città che avevamo perso e poi rivinto» (25’ 30’’)



A fianco dell’ammissione della sconfitta a Roma e a Torino, Matteo Renzi ha provato a elencare anche qualche successo nelle elezioni locali.



In effetti, a Reggio Calabria si è votato il 26 ottobre 2014, dopo che la precedente amministrazione del Comune, guidata dal sindaco di centrodestra Demetrio Arena, era stata sciolta per contiguità con organizzazioni mafiose nell’ottobre 2012. Prima il Comune era stato guidato da Giuseppe Scopelliti, supportato sempre da una coalizione di centrodestra, e da Giuseppe Raffa, vicesindaco subentrato a Scopelliti quando questi era diventato governatore regionale. Alle elezioni del 2014 ha invece vinto Giuseppe Falcomatà con il 61% dei voti, supportato da una coalizione di centrosinistra a guida Pd (che ha ottenuto il 16,43% delle preferenze) e con il supporto di numerosi altri partiti e liste civiche.



A Lecce la situazione è più complicata: si è votato per il Comune l’11 giugno 2017, e a vincere al secondo turno è stato il candidato del centrosinistra Carlo Maria Salvemini con il 54,76% delle preferenze. Al primo turno il Pd aveva ottenuto l’8,46% e non era stato il primo partito della coalizione (40,57%), superato di poco dalla lista civica Lecce Città Pubblica (8,57%). Il centrodestra al primo turno aveva invece ottenuto il 52,11%, ma il suo candidato si era fermato al 45,3% e per questo si era andati al secondo turno. Il centrodestra governava Lecce da due decenni, ma al ballottaggio Salvemini ha ribaltato l’esito della prima tornata. La situazione è radicalmente mutata a ottobre, quando una sentenza del Tar ha di fatto ribaltato il voto reintegrando alcuni consiglieri del centrodestra: ora il sindaco Salvemini si trova in minoranza.



Anche a Padova era al governo il centrodestra con il sindaco leghista Massimo Bitonci, che però nel 2016 dopo soli due anni alla guida del Comune è stato sfiduciato da una parte della maggioranza. Si è ricandidato alle Amministrative dell’11 giugno 2017, ma è stato sconfitto al secondo turno dal candidato di centrosinistra Sergio Giordani. Il PD ha ottenuto il 13,49% delle preferenze.



Quante regioni vinte dal Pd con Renzi segretario?



«Abbiamo strappato al centrodestra cinque regioni, da quando noi siamo alla guida del partito, vale a dire il Piemonte, la Sardegna, la Campania, la Calabria e l’Abruzzo, e abbiamo perso due regioni, la Liguria e la Sicilia» (25’ 45’’)



Renzi fa un bilancio corretto. È diventato segretario del Partito Democratico per la prima volta l’8 dicembre 2013. All’epoca le cinque regioni “vinte” da lui citate erano guidate dal centrodestra: in Piemonte era governatore Roberto Cota, della Lega Nord; in Sardegna Ugo Cappellacci, di Forza Italia; in Campania Stefano Caldoro, di Nuovo Psi-Forza Italia; in Calabria Giuseppe Scopelliti, del Popolo della Libertà (successivamente passato a Ncd di Alfano); in Abruzzo Giovanni Chiodi, di Forza Italia.



Nelle elezioni regionali del 2014 (Piemonte, Sardegna, Calabria e Abruzzo) e del 2015 (Campania) i governatori sono cambiati e hanno vinto esponenti del Pd o sostenuti dal Pd, in particolare: Sergio Chiamparino in Piemonte, Francesco Pigliaru in Sardegna, Vincenzo De Luca in Campania, Mario Oliverio in Calabria e Luciano D’Alfonso in Abruzzo.



Le due regioni “perse”, a fine 2013 erano in effetti ancora governate dal centrosinistra: in Liguria era governatore Claudio Burlando, del Pd, e in Sicilia Rosario Crocetta democratico in origine e che poi ha fondato una sua formazione politica sempre di centrosinistra. La Liguria è passata al centrodestra, con l’elezione di Giovanni Toti, nel 2015. La Sicilia è infine passata al centrodestra pochi giorni fa, con l’elezione di Nello Musumeci, candidato indipendente di destra, sostenuto prima da Fdi e Noi con Salvini, e poi anche da Forza Italia e altri.



I posti di lavoro



«Ci sono 986 mila posti di lavoro in più in Italia, di questi il 61 per cento è a tempo indeterminato» (27’ 30’’)



I dati Istat mostrano come gli occupati nel febbraio 2014 fossero 22 milioni e 151mila, mentre secondo l’ultima rilevazione, riferita al settembre 2017, sono diventati 23 milioni e 138mila. Una differenza, dunque, pari a 987mila persone che negli ultimi tre anni circa hanno trovato un impiego.



Se si guarda alla tipologia di contratto, nel febbraio 2014 gli occupati a tempo indeterminato erano 14 milioni e 427mila, mentre nel settembre 2017 il numero era cresciuto a 14 milioni e 962mila. Quindi oggi hanno un contratto a tempo indeterminato 535 mila persone in più rispetto a quando entrò in carica il governo Renzi. In prima approssimazione, si può dire che la percentuale rispetto al totale dei nuovi occupati è pari al 54,2%.



È un numero più ridotto rispetto a quello citato da Renzi, ed è anche un’approssimazione che non tiene conto di alcuni fenomeni: ad esempio, quanti non sono stati nuovi assunti, ma hanno visto trasformato il loro contratto da determinato – magari perché precari storici – a indeterminato. Queste situazioni alzano il totale dei rapporti a tempo indeterminato, ma non sono “nuovi” posti di lavoro.



Per renderci conto meglio delle dinamiche del mercato del lavoro abbiamo a disposizione i dati dell’INPS, che però partono solo dal 2015 e riguardano solo il settore privato. Ci sono parecchi indizi che fanno pensare che il numero indicato da Renzi sia troppo ottimista: nei primi otto mesi del 2017 le assunzioni a tempo indeterminato sono state appena il 24 per cento, mentre nel 2015 – quando erano in vigore le decontribuzioni per i neoassunti – del 38,4 per cento.



Renzi per il sociale



«Abbiamo messo una serie di provvedimenti sul sociale che hanno portato a triplicare i fondi sulla cooperazione internazionale, a fare la legge sul caporalato, la legge sul falso in bilancio, la legge che ha permesso a delle persone di pensare al futuro dei propri figli se disabili»




Torneremo più nel dettaglio su questa dichiarazione. Ma vale la pena menzionare che quella sulla cooperazione internazioanle non è una dichiarazione nuova: ce ne eravamo già occupati – trovando che non è vera.



Riassumiamo i punti salienti: la legge finanziaria del 2017, l’ultima approvata da Renzi, certifica in 4,8 miliardi di euro le risorse dedicate ai “fondi per l’aiuto pubblico allo sviluppo”, che però includono per circa il 40% gli stanziamenti per la gestione dell’emergenza migranti in Italia. Non solo: analizzando quanti fondi erano stati messi destinati allo stesso scopo nel 2014, anno in cui il governo Renzi era entrato in carica, si scopre che il totale era di 3,2 miliardi di euro.



È facile constatare che nell’arco del suo percorso da presidente del Consiglio Renzi ha accresciuto le risorse al massimo del 50%. E questo includendo anche i soldi dedicati alla gestione dell’emergenza migranti in Italia, che difficilmente possono essere considerati, in senso proprio, “cooperazione internazionale”.



Chi ha il merito del commissariamento di Banca Etruria?



«Il vicepresidente di Banca Etruria è stato commissariato […], lo abbiamo mandato a casa noi.» Giovanni Floris: «Banca d’Italia lo dice e voi lo dovete fare…» «No, non è così, lo ha commissariato il governo della Repubblica italiana» (47’ 15’’)



L’intervistatore Giovanni Floris e Matteo Renzi hanno avuto uno scambio sui meriti del commissariamento di Banca Etruria e, in base alle leggi, Renzi esagera un po’ a darsi il merito integrale nella vicenda.



È vero, come afferma Renzi, che il vicepresidente di Banca Etruria – Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena –, e con lui tutto il consiglio di amministrazione, sia stato commissariato dal governo, come avevamo già scritto. L’atto di commissariamento è un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in questo caso il n. 45 del 10 febbraio 2015.



Spetta alla Banca d’Italia, l’organo incaricato della vigilanza, proporre il commissariamento, come ha fatto notare Floris, che però esagera quando sostiene che il governo “debba” fare quello che gli dice Palazzo Koch.



Come spiega il Consiglio di Stato (Sez. IV, 9 febbraio 2015, n. 657), a fronte della proposta avanzata da Banca d’Italia, “il Ministro dell’Economia e delle Finanze ‘può disporre’ con decreto detto scioglimento: questa facoltà di scelta implica una valutazione discrezionale – o, meglio, di opportunità – che il Ministro è tenuto ad effettuare sulla base della proposta avanzata dall’autorità di vigilanza”.



“L’obbligatorietà della proposta della Banca d’Italia non impone al Ministero dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto”, prosegue ancora il Consiglio di Stato. Infatti la legge attribuisce al Ministero la “facoltà di discostarsi dalla proposta”, se non la condivide.



È però vero che il governo non può commissariare una banca senza l’impulso di Banca d’Italia. Diciamo dunque che il “merito” del provvedimento va condiviso tra esecutivo e organo di vigilanza.



Tutti zitti su Mps?



«MPS si è comprato una banca a 9 miliardi dopo che se l’era venduta a sei. Tre miliardi in tre mesi. Tutti zitti i controllori, tutti zitti i giornalisti, tutti zitti gli opinionisti, tutti zitti i politici» (49’)



Renzi fa riferimento all’acquisizione, da parte di Monte dei Paschi di Siena, di Banca Antonveneta, avvenuta nel 2007, ma ne parla in modo impreciso.



Dopo lo scandalo “Bancopoli”, che la vedeva coinvolta e che ebbe tra le conseguenze le dimissioni dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, Antonveneta fu rilevata per 8 miliardi dall’olandese Abn Amro a inizio 2006. Abn Amro venne poi acquisita a sua volta nell’ottobre 2007 da un consorzio composto da Rbs, Fortis e Santander. Durante l’operazione, i revisori valutarono Antonveneta 6,6 miliardi.



Nonostante ciò, il consorzio riuscì a cedere subito dopo (novembre 2007) Antonveneta a Mps per 9 miliardi, incassando una plusvalenza di 2,4 miliardi.



Dunque non è che Mps abbia comprato una banca che aveva in precedenza venduto, come pare di capire dal discorso di Renzi. Le tempistiche infine sono leggermente diverse, ancora più strette: Mps acquistò infatti Antonveneta appena un mese dopo che questa era stata rilevata dal consorzio Rbs-Fortis-Santander.



Che siano stati “tutti zitti” poi, come dice Renzi, non è esatto. È vero che sul momento la notizia dell’acquisizione sia stata data senza troppi approfondimenti. Era del resto una stagione di grande fermento del settore bancario, con acquisizioni e fusioni, durante la quale, ad esempio, era nato il colosso bancario Intesa Sanpaolo e aveva fatto il salto di qualità Unicredit. Che Mps, mediante la fusione con Antonveneta, realizzasse l’obiettivo di diventare il terzo polo bancario italiano era all’epoca sembrato ragionevole a diversi commentatori.



Le informazioni date al pubblico giustificavano l’operazione e l’allora presidente di Mps Mussari aveva esplicitamente dichiarato: “Riteniamo che Antonveneta possa fare oltre 700 milioni di utile netto, quindi [9 miliardi] non è un prezzo caro: completiamo la rete e facciamo del Monte una banca realmente nazionale”.



Stampa ed esperti avrebbero potuto fare di più? Col senno di poi è facile rispondere di sì, ma non sembra corretto dire che siano stati “tutti zitti”.



Se tra i “controllori” ricomprendiamo infatti anche i giudici, sulla questione Mps sono state aperte diverse indagini dalla Procura di Siena (la prima il 9 maggio 2012) e dalla Procura di Milano (le indagini sono state chiuse a gennaio 2016, ma un nuovo filone si è aperto a ottobre 2017), in particolare sui derivati sottoscritti da Mps per coprire il buco che l’operazione Antonveneta aveva lasciato nei suoi conti. Ovviamente il mondo dell’informazione ha riportato le notizie relative.



I “controllori” per eccellenza del sistema bancario, Banca d’Italia e Consob, hanno delle responsabilità in più perché, come risulta dalle inchieste, erano stati destinatari di lettere che denunciavano l’anomalia dell’operazione Mps-Antonveneta.



Banca d’Italia allora chiese dei chiarimenti in più occasioni, ma fu – secondo la Procura di Siena – ingannata (probabilmente nelle tre audizioni del 5 marzo, 30 marzo e 21 aprile 2010) dalle risposte dell’allora presidente di Mps, Giuseppe Mussari, che poi fu condannato – col resto degli ex vertici Mps – in primo grado a 3 anni e 6 mesi per concorso in ostacolo alla vigilanza in una vicenda collegata.



L’intreccio della vicenda è insomma molto complesso e, se qualche critica al sistema di vigilanza e controllo di allora (si è parecchio evoluto negli anni successivi grazie all’Unione europea) appare dunque legittima, non si può comunque sostenere come fa Renzi che fossero stati “tutti zitti”.



Zingaretti e Appendino



«Oggi c’è la pagina ufficiale del M5S che mette la faccia di Nicola Zingaretti con scritto ‘indagato per falsa testimonianza’ […] e accade lo stesso giorno in cui il sindaco di Torino, Chiara Appendino, è indagata per omicidio colposo e disastro» (56’ 15’’)



Renzi ha ragione, al netto di una piccola imprecisione. Sul blog delle stelle (il blog ufficiale del M5S) il 7 novembre è stato pubblicato un articolo sul fatto che Nicola Zingaretti sia stato indagato, e nell’immagine del presidente della regione Lazio è inserita la scritta “Indagato per falsa testimonianza in Mafia Capitale”.



Il sindaco di Torino, Chiara Appendino, è stata indagata per omicidio e disastro colposi in relazione ai fatti di Piazza San Carlo, ma non “lo stesso giorno” come dice Renzi. Secondo quanto riportato dalle cronache giudiziarie, e dal profilo Facebook della stessa Appendino, l’avviso di garanzia è giunto il 6 novembre mattina.



Il sindaco di Torino era già indagata anche in precedenza per i fatti i Piazza San Carlo, ma solo per lesioni personali colpose, un’ipotesi di reato meno grave.



L’uscita dalla crisi



«Questo Paese quando sono arrivato a Palazzo Chigi era a -2%, adesso è fuori dalla crisi» (1h 06’ 40’’)



Renzi è impreciso sul Pil ma ha sostanzialmente ragione, anche se la valutazione di “fuori dalla crisi” è una cosa complessa e in definitiva che dipende anche da giudizi non oggettivi. Nel 2013, anno precedente all’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi, il Pil italiano segnava -1,7% di decrescita, non il -2%.



Nel 2017 il Pil è in crescita. Secondo le stime di luglio di Bankitalia dovrebbe arrivare a +1,4% e secondo quelle di fine giugno di Confindustria al +1,3%. Si tratta di un livello di crescita vicino a quelli immediatamente pre-crisi, quando oscillavano tra pochi e decimali e i due punti.



Anche guardando al Pil espresso a prezzi di mercato, l’Italia è tornata ai livelli pre-crisi. Nel 2008 il Pil aveva infatti raggiunto il picco di 1.632,150 miliardi di euro. Tale soglia è stata toccata di nuovo (a parte un picco nel 2011) solo nel 2015, quando il Pil ammontò a 1.642,433. Nel 2016, secondo le stime più recenti dell’Istat, è salito ulteriormente fino a 1.680,523 miliardi di euro.



Anche sul lato dell’occupazione, secondo i dati riportati nel database Istat (percorso: “Lavoro e retribuzioni”, “Occupazione”, “Occupati”), l’Italia è tornata oramai ai livelli pre-crisi. Il livello record del 2008, di 23 milioni e 90 mila occupati, è stato praticamente eguagliato nel secondo trimestre del 2017, quando gli occupati sono arrivati a 23 milioni e 89 mila.



Il M5S in Sicilia ha guadagnato o perso?



«[In Sicilia] il M5S è passato dal 33% delle politiche al 26% di queste elezioni» (1h 11’ 30’’)



Per il M5S, le elezioni politiche del 2013 furono il primo grande appuntamento nazionale dopo alcuni anni di elezioni amministrative a livello locale, culminate con le elezioni in Sicilia del 28 ottobre 2012, quando il M5s raggiunse il 14,89% e il candidato governatore – anche allora Giancarlo Cancelleri – il 18,18%.



Alle politiche successive, nella circoscrizione 1 della Camera (comprendente Agrigento, Caltanissetta, Palermo e Trapani) il M5s ottenne il 34,55%, mentre nella circoscrizione 2 (che include Catania, Enna, Messina, Ragusa e Siracusa) raggiunse il 32,74%. Al Senato invece, per il quale possono votare gli elettori sopra ai 25 anni di età, il Movimento 5 stelle si fermò al 29,53%.



Alle ultime regionali, Cancelleri – capogruppo dei Cinque stelle in Regione – ha ottenuto il 34,65% delle preferenze, quasi raddoppiando il dato di cinque anni prima (18,18%). La lista M5s invece ha raggiunto un risultato sensibilmente più basso, ma comunque nettamente superiore a quello del 2012, e cioè il 26,67% dei voti rispetto al 14,89%, con un incremento dell’11,78%. Insomma, è vero che la lista del M5S ha ottenuto un risultato più basso, confrontando regionali 2017 e politiche 2013: ma il suo candidato alla Regione ha raggiunto una percentuale simile di voti, e rispetto alle regionali precedenti il miglioramento è innegabile.



Le clausole di salvaguardia



«Non scattano clausole di salvaguardia dal primo ottobre 2013 […] allora scattò l’aumento dell’Iva di un punto percentuale. […] È stata cancellata la clausola per il 2014-15-16-17-18, sono 5 anni (…) non è che la spostiamo, sono nuove realtà» (1h 12’ 35’’)



Renzi ha sostanzialmente ragione.



Come avevamo già spiegato, la “clausola di salvaguardia” è la norma che prevede scattino misure automatiche – come l’aumento dell’Iva o il taglio delle agevolazioni fiscali – nel caso in cui lo Stato non sia in grado di reperire le risorse pianificate.



Sono state previste per la prima volta nel 2011, dal governo Berlusconi, coi decreti legge 98/2011 del 6 luglio e 138/2011 del 13 agosto, a copertura di una spesa prevista di 20 miliardi di euro.



Il governo Monti ne trovò più di 13, ma per la parte restante decise (con il decreto legge 201 del dicembre 2011) che, invece di far scattare subito il taglio delle agevolazioni fiscali, fosse preferibile prevedere un aumento dell’Iva come misura di salvaguardia.



Tale aumento, dal 21% al 22%, arrivò a ottobre 2013, come riporta Renzi, durante il governo Letta.



Il governo Letta, a sua volta, lasciò in eredità al successore, con la legge di stabilità 2014 (comma 430), un’altra clausola di salvaguardia a copertura rispettivamente 3 miliardi di euro per l’anno 2015, 7 miliardi per l’anno 2016 e 10 miliardi a decorrere dal 2017.



Il governo Renzi, con la legge di stabilità per il 2015, neutralizzò la clausola di salvaguardia ereditata per quell’anno. Allo stesso tempo ne introdusse una nuova (comma 718), che consisteva in un incremento automatico delle aliquote Iva e delle accise e che poteva essere evitato con interventi di revisione della spesa. Dovevano essere trovati 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 22 miliardi dal 2018.



Per il 2016 e per il 2017, il governo è riuscito a far quadrare i conti in modo che la clausola di salvaguardia non scattasse. La legge di Bilancio 2017, in particolare, ha disposto che quell’anno non scattasse l’aumento di altri due punti dell’Iva, sia ordinaria che agevolata.



La legge di Bilancio 2018 allo stesso modo, congiuntamente con la “manovrina” di aprile 2017, ha reperito le risorse (oltre 15 miliardi) per non far scattare gli aumenti nemmeno quest’anno. Era infatti previsto l’aumento di un punto e mezzo per l’Iva agevolata e di tre punti per l’Iva ordinaria.



Dunque è corretto sia affermare che dal 2013 in poi non siano più scattate clausole di salvaguardia, sia sottolineare la diversità di ogni clausola dalla precedente (cambiano sia gli importi sia le misure previste per coprirli eventualmente).