Quando le leggi incomprensibili violano la Costituzione

Una recente sentenza della Corte costituzionale ha riportato d’attualità un tema spinoso, quello delle norme difficili da leggere e da capire 
ANSA
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Termini bizzarri, frasi lunghissime, rimandi a vecchie norme, elenchi di numeri e date: troppo spesso le leggi italiane sembrano davvero oscure al comune cittadino e difficili da decifrare. Di recente è arrivata una novità importante su questo tema: la Corte costituzionale ha infatti ribadito che le leggi incomprensibili violano la Costituzione. Con la sentenza n. 110 del 2023 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge di stabilità per il 2022 della Regione Molise, ossia la legge che stabilisce le variazioni delle entrate e delle uscite del bilancio regionale rispetto all’anno precedente. Come si può immaginare, questo tipo di leggi regionali può avere un contenuto piuttosto ampio, intervenendo su vari ambiti della legislazione regionale.

La decisione della Corte costituzionale di dichiarare incostituzionale la legge della Regione Molise è stata giustificata da vari motivi, ma quello più eclatante è legato alla scarsa chiarezza di una norma che sembrerebbe riferirsi a interventi edilizi sul territorio regionale.

L’articolo oscuro

Per rendere l’idea dell’indecifrabilità della legge, riportiamo qui per intero l’articolo 7, comma 18

«Nelle fasce di rispetto di tutte le zone e di tutte le aree di piano, in presenza di opere già realizzate e ubicate tra l’elemento da tutelare e l’intervento da realizzare, quest’ultimo è ammissibile previa V. A. per il tematismo che ha prodotto la fascia di rispetto, purché lo stesso intervento non ecceda, in proiezione ortogonale, le dimensioni delle opere preesistenti o sia compreso in un’area circoscritta nel raggio di mt. 50 dal baricentro di insediamenti consolidati preesistenti».

La lettura di questo articolo solleva subito una serie di domande. A quale «piano» fa riferimento la legge, visto che non è precisato dalle norme precedenti? Che cosa significa “V.A.”, definito dai giudici della Corte costituzionale un «acronimo incomprensibile»? Che cosa vogliono dire parole come «tematismo» e «fasce di rispetto»? Perché la norma è inserita in un articolo dedicato alle «modifiche di leggi regionali», ma non indica la legge che vorrebbe modificare?

Nel corso del giudizio la Regione Molise ha provato a spiegare alcune di queste espressioni, all’apparenza tecniche. Per esempio ha sostenuto che la norma fa riferimento al «Piano paesistico» istituito dalla legge regionale n. 24 del 1989, e che l’acronimo “V.A.” sta per «valutazione ambientale».

Secondo la Corte costituzionale però, la spiegazione della Regione Molise non elimina le ambiguità della legge. Per esempio con l’acronimo “V.A.” si potrebbero intendere vari procedimenti amministrativi, tra cui la valutazione ambientale strategica, che ha come oggetto piani e programmi, ossia provvedimenti che regolamentano ampie porzioni del territorio, oppure la valutazione di impatto ambientale, che come oggetto ha singoli progetti. A quale delle due valutazioni si riferisce l’acronimo? Secondo i giudici manca il contesto di riferimento, che sembra non essere chiaro nemmeno alla regione. 

Un altro punto ha lasciato ancora più perplessa la Corte costituzionale. Secondo la Regione Molise, «l’ipotizzata difficoltà di lettura della norma […] non costituirebbe motivo di illegittimità costituzionale, bensì presupposto per l’attività dell’interprete nell’applicazione della legge». Qui la regione sembra sostenere che la difficile comprensione di una legge sia un esito scontato dell’attività legislativa, o addirittura il presupposto del lavoro di chi la interpreta (per esempio i giudici e la pubblica amministrazione).

La Corte costituzionale ha rifiutato questa concezione del diritto come linguaggio inaccessibile: un testo «irrimediabilmente oscuro» rischia di generare non solo un’incertezza applicativa, ma anche le condizioni per applicare in modo diseguale la legge.

Le conseguenze imprevedibili

Ciascun cittadino si aspetta che la legge definisca con chiarezza i suoi diritti, in modo da poter compiere le proprie scelte in modo consapevole. Se da cittadino mi comporto in un certo modo, subirò in base alla legge quella conseguenza, e non un’altra, o avrò diritto a quella cosa, e non a un’altra. Sulla base della legge la pubblica amministrazione eserciterà poi i propri poteri: in materia edilizia, per esempio, potrà autorizzare o meno la realizzazione di una certa opera. I giudici verificheranno, a posteriori, se la pubblica amministrazione si sia comportata in maniera conforme alla legge. E soprattutto se abbia agito nell’ambito della cosiddetta “discrezionalità amministrativa”, ossia il potere della pubblica amministrazione di fare una scelta, in base alla legge, tenendo conto di più interessi.  

Secondo la Corte costituzionale tutto questo si rompe quando una legge è troppo vaga e interpretabile in modi addirittura opposti. In questo caso il cittadino perde la garanzia della prevedibilità della legge. E l’amministrazione non ha criteri guida «nella valutazione se assentire o meno un dato intervento richiesto dal privato». Si infrange così anche il principio di uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, previsto dall’articolo 3 della Costituzione, perché a quel punto rischia di essere consentito tutto e il contrario di tutto. E situazioni identiche potrebbero essere trattate dalla pubblica amministrazione in modo diverso. Tra l’altro se il cittadino volesse fare ricorso contro un provvedimento della pubblica amministrazione, mancherebbero regole comprensibili per capire se la pubblica amministrazione ha operato in modo corretto o meno: ecco perché è violato anche il diritto di difesa in giudizio, previsto dall’articolo 24 della Costituzione, secondo cui «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» e «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

Il linguaggio delle leggi è sempre indeterminato?

La sentenza della Corte costituzionale non è la prima in questo ambito. In passato aveva già stabilito che la legge, soprattutto quando interviene su materie delicate come il diritto penale, dove è in gioco la libertà delle persone, deve rispettare requisiti minimi di precisione e chiarezza. Il nostro apparato legislativo però non è l’unico ad avere questo tipo di problemi: sentenze simili sono state pronunciate in Francia dal Consiglio costituzionale e in Germania dal Tribunale costituzionale federale.

Non bisogna comunque pensare che per questo motivo sia sempre vietato usare espressioni tecniche o le cosiddette “clausole generali”, ossia le norme che hanno un contenuto ampio e devono essere calate nel caso concreto. A volte nella scrittura delle leggi è indispensabile far riferimento a fenomeni complessi, per cui l’intuizione del comune cittadino non basta.

Di questo i giudici costituzionali sono consapevoli quando dicono che quelle espressioni sono ammissibili purché si riesca a individuare un «nucleo centrale» di significati da attribuire alla norma, magari leggendola insieme ad altre norme già esistenti. Ma quando ogni sforzo di interpretazione è vano, quando la legge sembra «sospesa nel vuoto», cioè piena di parole improbabili e priva di collegamenti ad altre norme, dev’essere eliminata dal sistema giuridico tramite la dichiarazione di incostituzionalità.

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