Siamo un Paese sempre più povero?

Salari fermi, redditi concentrati, povertà in aumento, divari tra Nord e Sud, e tra uomini e donne: tutti i numeri per capire a che punto è l’Italia e dove sta andando
ANSA
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Povertà, disparità di genere e concentrazione della ricchezza. Le regioni del Nord hanno un reddito superiore a quelle del Sud, gli uomini continuano a guadagnare più delle donne, e gli anziani più dei giovani. La povertà assoluta è più che raddoppiata negli ultimi quindici anni, i salari sono fermi da trent’anni, al contrario che negli altri grandi Paesi europei, e nel 2020 la parte più ricca della popolazione ha avuto un reddito quasi sei volte superiore rispetto a quella più povera, contro una media europea pari a poco più di cinque volte. 

Abbiamo a che fare con questi temi, direttamente o meno, tutti i giorni, ma contestualizzare fenomeni così ampi non è sempre semplice. Per questo motivo, abbiamo analizzato i numeri per descrivere l’Italia di oggi, ma anche di ieri e di domani, per capire come sono cambiate le cose negli ultimi decenni – se qualcosa è cambiato, come non sempre successo – e in quale direzione sta andando il Paese. 

L’andamento dei redditi

Quanto guadagnano gli italiani, oggi? Per avere un’idea possiamo guardare i dati sulle dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti italiani nel 2021, relative all’anno d’imposta 2020, pubblicate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) lo scorso 13 aprile. 

Secondo i dati del Mef, il reddito medio dichiarato dai singoli contribuenti in Italia è aumentato tra il 2012 e il 2020, passando da 18,7 mila euro nel 2012 a 21,6 mila nel 2020. Il 2019 è stato l’anno con il reddito medio dichiarato più alto, pari a 21,8 mila euro, mentre il salto più ampio è stato fatto tra il 2017 e il 2018, quando i redditi medi sono passati da 20,7 a 21,7 mila euro. 

Nello stesso periodo, il tasso di inflazione in Italia, ossia l’aumento medio dei prezzi, è andato tra un massimo di 3,3 punti percentuali nel 2012 e un minimo di -0,1 nel 2016 e nel 2020. In generale i prezzi sono cresciuti, ma solo leggermente: un paniere di prodotti che nel 2015 costava 100 euro ne costava 98,4 nel 2012, e 103 nel 2020. Negli ultimi mesi, l’inflazione nel nostro Paese è invece salita parecchio, complice la ripresa post-pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina: secondo i dati Istat più aggiornati, ad aprile l’inflazione è aumentata infatti del 6,2 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, una crescita che non si registrava da oltre trent’anni.

La differenza tra il reddito dichiarato in media dai lavoratori dipendenti e da quelli autonomi è molto ampia. I primi dichiarano un reddito pari a 20,7 mila euro, meno della metà dei 53 mila euro dichiarati dagli autonomi. Qual è la ragione di questa discrepanza? «La categoria dei lavoratori indipendenti è molto eterogenea: include sia i freelance occasionali che gli avvocati e i notai», ha spiegato a Pagella Politica Michele Raitano, professore di Politica economica all’Università Sapienza di Roma. Tra gli autonomi, dunque, è più ampia la forbice tra le diverse categorie professionali rispetto a quanto avviene tra i dipendenti.

Tra l’altro, negli otto anni tra il 2012 e il 2020, i redditi dei lavoratori autonomi sono aumentati tre volte di più rispetto a quelli dei dipendenti: un +46 per cento contro un +16,3 per cento.
Ampie differenze tra dipendenti e autonomi ci sono anche nelle singole regioni, una dinamica che come vedremo caratterizza in larga parte la distribuzione dei redditi nel nostro Paese. Nel 2020, i redditi medi dei dipendenti andavano dai 15 mila euro in Calabria ai 22 mila euro nella Provincia autonoma di Bolzano, mentre quelli da lavoro autonomo partivano dai 36,3 mila euro medi dichiarati in Molise per arrivare ai quasi 76 mila della Provincia autonoma di Bolzano.

I redditi del 2020, qui considerati, hanno inevitabilmente subito l’impatto della pandemia di Covid-19, che a partire da marzo ha bloccato gran parte della popolazione in casa e fermato molte attività produttive. In generale, però, l’emergenza sanitaria  non sembra aver causato grandi sbalzi rispetto alle tendenze registrate nel periodo pre-pandemico.

L’effetto della pandemia

In Italia, due anni fa scorso il reddito complessivo dichiarato è stato superiore agli 865 miliardi di euro: un calo del 2,2 per cento rispetto al 2019, da confrontare però con un crollo del Pil del 9 per cento. Il reddito medio nel 2020 era di 21.570 euro, inferiore dell’1,1 per cento rispetto al 2019. «Le tendenze sono simili a quelle degli anni passati», ha confermato Raitano a Pagella Politica. «Considerando l’impatto dell’emergenza sanitaria, potevamo aspettarci differenze molto più marcate». Che cosa ha attutito, per ora, le conseguenze della crisi?

In parte, la risposta sta alle misure di sostegno economico attivate dal governo italiano nelle prime fasi della pandemia. Secondo un rapporto Istat, pubblicato a luglio 2021, l’«intervento pubblico» messo in atto nel 2020 ha ridotto le diseguaglianze tra il reddito primario delle famiglie – cioè quello effettivamente guadagnato tramite il lavoro – e quello disponibile, che include anche i contributi pubblici, come i vari bonus per i lavoratori, la cassa integrazione straordinaria o il reddito di emergenza. L’indicatore utilizzato per calcolare il divario tra i due redditi è il coefficiente di Gini, che misura proprio l’intensità delle diseguaglianze e va da zero (diseguaglianze minime, quindi tutti guadagnano allo stesso modo) a 100 (diseguaglianza massima, in cui pochi guadagnano molto e molto poco). 

Secondo l’Istat, complessivamente le misure di sostegno introdotte durante la pandemia hanno permesso di diminuire le diseguaglianze di 14,1 punti, passando da un valore di 44,3 per i redditi primari a 30,2 per quelli disponibili. L’impatto dei sussidi è stato notevolmente più marcato nel Sud, dove le disparità sono più forti.

Le disuguaglianze tra Nord e Sud

Le dichiarazioni dei redditi relative al 2020 consolidano infatti un’altra tendenza nota: le regioni più ricche sono quelle del Nord, mentre al Sud i redditi sono più bassi. Il reddito medio della Lombardia, la regione al primo posto in questa speciale classifica, era del 43 per cento superiore rispetto a quella della più povera, la Calabria: 25,3 mila euro lordi all’anno contro 15,6 mila. Tra le prime dieci regioni con i redditi più alti, otto sono nel Nord Italia, mentre le altre due, Lazio e Toscana, sono del Centro. La prima regione del Sud è l’Abruzzo, al quattordicesimo posto su 21.

Questi dati non sono una novità. Anche dieci anni fa, nel 2012, i redditi erano notevolmente più bassi al Sud rispetto al Nord, con un minimo di 13,5 mila euro dichiarato dai residenti del Molise, seguito in fondo alla classifica da Basilicata, Calabria, Abruzzo, Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna. 

Negli otto anni tra il 2012 e il 2020 i redditi medi sono poi cresciuti in tutte le regioni, anche se quelle del Nord hanno generalmente visto aumenti maggiori. In Lombardia, per esempio, i redditi medi sono aumentati del 21,5 per cento, in Friuli Venezia-Giulia del 21 per cento e in Veneto del 20,4 per cento. In Puglia, Sicilia, Campania, Sardegna e Calabria l’aumento è stato inferiore al 10 per cento. Fa eccezione il Molise, che è stata invece la regione dove il reddito medio è cresciuto di più: +24,4 per cento, un salto da 13,5 mila euro medi nel 2012 a 16,8 mila nel 2020. 

Al Sud i redditi, già inferiori alla media nazionale, sono anche distribuiti in maniera più diseguale. Nel 2020 l’indice di Gini per i redditi primari era di 46,5 punti, contro i 42,1 del Centro e i 40,7 del Nord. Secondo Istat, però, nel primo anno di pandemia i sostegni pubblici hanno ridotto il divario nel Mezzogiorno di 16,9 punti, più dei 14,2 del Centro e i 12,4 del Nord.

A livello territoriale, nel 2020 le riduzioni maggiori nei redditi sono state registrate nelle città strettamente legate al turismo, prima tra tutte Venezia (-4,86 per cento), ma anche Como (-2,71 per cento) e Firenze (-1,98 per cento). Diversi capoluoghi di provincia, tra cui molti al Sud, hanno invece visto aumentare il reddito complessivamente dichiarato, come Campobasso (+2,69 per cento) o Nuoro (+1,12 per cento).

Le disparità non si fermano al livello territoriale e alla divisione tra Nord e Sud del Paese. Da anni, infatti, la ricchezza è concentrata nelle mani di una piccola parte della popolazione, che guadagna sei volte più della fetta più povera.

I salari sono fermi

Secondo i dati più aggiornati del Mef, nel 2020 in Italia solo il 4 per cento dei contribuenti ha dichiarato un reddito superiore ai 70 mila euro lordi, mentre quasi la metà dei contribuenti, circa il 45 per cento, sta sotto la soglia dei 15 mila euro.

Anche in questo caso, la concentrazione dei redditi nelle mani di una piccola parte della popolazione non è un fenomeno nuovo. «La gran parte dei redditi dichiarati per l’Irpef sono redditi da dipendente, principalmente del settore privato, che in media sono molto bassi», ha spiegato Raitano a Pagella Politica. «Esiste poi un’ampia quota di persone che guadagna poco, oppure lavora poco, magari solo alcuni mesi all’anno». Questo fa diminuire la retribuzione media e contemporaneamente genera una grande concentrazione dei redditi nelle fasce più alte. «C’è un problema nella dinamica dei redditi dei dipendenti, che rimangono bassi e stagnanti, mentre la concentrazione della ricchezza cresce nelle fasce già più abbienti», ha sottolineato Raitano.  

Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), utilizzando come base i prezzi del 2020, negli ultimi 30 anni i salari reali medi degli italiani sono diminuiti di più di mille euro, il 3,6 per cento, passando da 28.800 euro a 27.800. Negli altri principali Paesi europei è successo il contrario: in Spagna i salari medi sono aumentati del 6 per cento, in Francia del 31 per cento e in Germania del 34 per cento.
Una marcata concentrazione dei redditi non è però un fenomeno solo italiano, anzi. 

La concentrazione dei redditi nell’Ue

Secondo i dati Eurostat più recenti, nel 2020 in Italia il 20 per cento più ricco della popolazione ha avuto un reddito quasi sei volte superiore rispetto al 20 per cento più povero, contro una media europea pari a poco più di cinque volte. 

Detta altrimenti, siamo il settimo Paese europeo con la maggiore concentrazione di reddito: al primo posto c’è la Bulgaria, dove i più abbienti hanno un reddito otto volte superiore ai poveri, e all’ultimo la Slovacchia, dove il rapporto è di tre volte. Tra i grandi Paesi europei, la Germania e la Spagna fanno comunque peggio di noi, con valori rispettivamente di 6,47 e di 5,77, mentre in Francia il rapporto è pari a 4,5. 
Negli ultimi dieci anni in Italia la concentrazione dei redditi si è grossomodo mantenuta stabile, toccando un picco di 6,27 nel 2016 e un minimo di 5,64 nel 2012. Anche nei principali Paesi europei non ci sono stati grandi balzi.
Un altro dato che possiamo considerare quando parliamo di concentrazione dei redditi sta nella divisione in percentili, un parametro utilizzato anche da Eurostat, che divide i contribuenti in dieci fasce di redditi e stabilisce poi quale percentuale del reddito totale dichiarato a livello nazionale sia stato dichiarato da ognuna delle dieci fasce. In particolare, in Italia il primo decile, che rappresenta la fascia più povera della popolazione, raccoglie le persone con un reddito da zero a 7.900 euro, mentre l’ultimo quelle con un reddito superiore a 34.500 euro. Questi valori sono superiori rispetto a quelli della Spagna, dove il range va da 6.600 euro (primo decile) a 31.500 euro (ultimo decile), ma inferiori a quelli di Francia (11.600-39 mila euro) e Germania (10.200-47 mila euro)

In Italia due anni fa il 10 per cento più povero della popolazione ha guadagnato il 2,2 per cento dei redditi complessivi, mentre il 24,5 per cento dei redditi è andato al 10 per cento più ricco. Entrambi i valori erano in linea con quelli degli altri principali Paesi europei. 

Così come le differenze territoriali e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, anche un’altra fonte di disparità nella situazione economica dei cittadini risiede in una caratteristica che spesso non dipende da noi: il genere.

Il fenomeno del gender pay gap

I dati raccontano che, in Italia, la disparità tra gli stipendi di uomini e donne è evidente: mentre i primi dichiarano in media un reddito di circa 25.400 euro, per le donne la cifra scende a 17.400 euro. Le differenze di genere non spariscono nemmeno tra le fasce più agiate della popolazione, considerando che le donne con un reddito superiore a 100 mila euro sono state circa 100 mila, e gli uomini quasi 400 mila. 

Tra il 2016 e il 2020 (i dati sul 2017 non sono al momento disponibili) gli uomini hanno sempre dichiarato redditi medi superiori a quelli delle donne per circa 8 mila euro, senza grandi cambiamenti. 

«Il divario tra i redditi di uomini e donne esiste da sempre, ma è diventato oggetto di attenzione solo a partire dalla fine dell’Ottocento», ha spiegato a Pagella Politica Ilaria Pitti, ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna. «Le misure adottate per limitare la discriminazione salariale e lavorativa hanno indubbiamente migliorato la condizione femminile, non sono riuscite a risolvere realmente le disparità economiche tra i due sessi». 

Inoltre, queste disuguaglianze di genere non dipendono solo dai tempi, ma anche dagli spazi. «Gli studi mostrano come la riduzione del divario economico tra uomini e donne si realizzi nei contesti che promuovono una distribuzione paritaria del lavoro di cura in famiglia, che si dotano di servizi pubblici in grado di semplificare il lavoro di cura, che adottano politiche lavorative mirate a prevenire e contrastare il sottoinquadramento e la segregazione professionale femminile e che impongono trasparenza sui dati relativi al differenziale retributivo delle aziende», ha sottolineato Pitti.

In questo ambito le statistiche vanno però lette con cautela. In Italia il gender pay gap, ossia la differenza tra i guadagni orari di uomini e donne, è tra i più ridotti dell’Unione europa. Secondo dati Eurostat, nel 2020 la paga oraria lorda delle donne era del 4,3 per cento più bassa di quella degli uomini, il quarto valore più basso tra i 25 Paesi membri dell’Ue per cui sono disponibili dati (mancano Grecia e Irlanda). Al primo posto c’era il Lussemburgo, dove la differenza era di appena 0,7 punti percentuali, e all’ultimo la Lettonia, con una differenza del 22,3 per cento. La Germania era tra i Paesi con il gender pay gap più alto (18,3 per cento), mentre facevano meglio Francia (15,8 per cento) e Spagna (9,4 per cento).

La situazione, però, cambia notevolmente se si analizza il cosiddetto gender overall earnings gap, un parametro più esaustivo che considera non solo la differenza tra le paghe orarie, ma anche il tasso di occupazione femminile nei vari Paesi e il numero di ore lavorate da uomini e donne. Con l’unione di questi tre fattori, nel 2018 (ultimo anno per cui sono disponibili dati) l’Italia era il terzo Paese con le differenze più marcate tra gli stipendi di uomini e donne, pari al 43 per cento. Solo Austria (44,2 per cento) e Paesi Bassi (43,7 per cento) avevano due percentuali più alte di quella italiana. Subito sotto il nostro Paese, nella classifica si posizionava la Germania, con un valore del 41,9 per cento, mentre sopra c’erano la Spagna (33 per cento) e la Francia (29,6 per cento).

Parlando di disparità nei redditi, di tasse e di ricchezza, è impossibile non affrontare un altro dei temi centrali in questo dibattito, spesso citato come responsabile di molti dei nostri problemi: l’evasione fiscale. 

Il problema dell’evasione

I dati che abbiamo considerato finora non includono i redditi evasi dai contribuenti, che per definizione non vengono dichiarati al fisco e rientrano quindi nell’economia sommersa. L’Irpef, in particolare, è da anni la tassa con il tasso di evasione più alto, specialmente per quanto riguarda il lavoro autonomo. Secondo l’ultima “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” del Mef, pubblicata nel 2021 ma aggiornata al 2018, ogni anno lo Stato perde oltre 38 miliardi di euro a causa dell’evasione dell’Irpef da parte dei contribuenti, di cui la grande maggior parte, quasi 33 miliardi, non viene versata dai lavoratori autonomi. 

Secondo le stime del Mef, nell’ultimo decennio il rapporto tra la quota evasa e il gettito potenziale dagli autonomi è cresciuto, passando dal 53 per cento del 2010 al 69 per cento del 2019. In termini assoluti, tra il 2014 e il 2018 l’evasione complessiva si è invece ridotta di circa 6,7 miliardi di euro, soprattutto grazie ai miglioramenti nella raccolta dell’Iva, dell’Ires e dell’Irap. Al contrario, nello stesso periodo l’evasione relativa all’Irpef è aumentata, soprattutto per quanto riguarda il lavoro autonomo e di impresa. 

Questo settore ha la propensione all’evasione di gran lunga superiore rispetto a tutte le altre imposte considerate dalla relazione del Mef. Nel 2019 il 69,2 per cento dell’Irpef teoricamente dovuta dai contribuenti autonomi è stato evaso, di cui il 65 per cento non dichiarato e il 4 per cento dichiarato ma non versato. Il valore è cresciuto negli ultimi anni, a partire dal 63,9 per cento del 2014. 

I dati del Ministero non dicono però in quale fascia di reddito tra gli autonomi si concentri di più l’evasione. Secondo Massimo Baldini, docente presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, questa è diffusa sia tra i lavoratori più abbienti che tra quelli con redditi modesti: «I ricchi di certo evadono, ma c’è tanta evasione anche nella parte bassa della distribuzione dei redditi», ha spiegato Baldini a Pagella Politica

Sebbene l’evasione fiscale sia senza dubbio un problema in Italia, questa non può comunque essere l’unica giustificazione per le altre tendenze negative che abbiamo visto: gli stipendi in calo, la sempre maggior concentrazione della ricchezza nelle mani di una fascia ristretta della popolazione, le evidenti disparità tra Nord e Sud del Paese e tra i redditi medi di uomini e donne.

Infine, è utile guardare all’estremo opposto, e quindi alla porzione sempre più folta della popolazione che ricca non è.

La crescita della povertà

Negli ultimi anni, mentre i redditi medi degli italiani aumentavano leggermente, il tasso di povertà è cresciuto in modo marcato. Questa dinamica può essere studiata seguendo due fonti, una relativa al consumo, e una relativa al reddito, ha spiegato a Pagella Politica Maria Ferrante, docente di Statistica economica all’Università di Bologna. La prima fonte, relativa al consumo, è quella applicata anche dall’Istat, che definisce come in “povertà assoluta” le persone o le famiglie che hanno una spesa mensile pari o inferiore al valore dell’insieme dei beni o servizi considerati essenziali per mantenere uno standard di vita accettabile. 

Nel 2005, per esempio, secondo Istat 819 mila famiglie – il 3,6 per cento del totale – si trovavano in una situazione di povertà assoluta, mentre nel 2021 il numero è salito a quasi di 2 milioni, il 7,5 per cento del totale. Si tratta della percentuale più alta degli ultimi 15 anni dopo quella del 2020, quando le famiglie in povertà assoluta erano il 7,7 per cento del totale. 

Nello stesso arco di tempo il numero di individui in povertà assoluta è passato da 1,9 milioni a 5,6 milioni: un aumento del 195 per cento. 

In generale, «negli ultimi dieci anni la povertà assoluta è raddoppiata», ha confermato Ferrante a Pagella Politica. Dal 2011 al 2021, infatti, il tasso di individui che vivono in famiglie sotto la soglia di povertà assoluta è passato dal 4,4 per cento al 9,4 per cento. 
Anche in questo caso, le differenze territoriali sono evidenti. Al Nord le famiglie in povertà assoluta rappresentavano il 2,5 per cento del totale nel 2005 e il 6,7 per cento nel 2021, mentre nel Mezzogiorno il dato era del 5,5 per cento nel 2005 e del 10 per cento nel 2021. Rispetto al primo anno di pandemia, la povertà è diminuita di quasi un punto percentuale nelle regioni del Nord, mentre è invece aumenta dello 0,6 per cento al Sud. 

Inoltre, nel 2020 – l’ultimo anno per cui abbiamo a disposizione dati più precisi – la maggior parte delle famiglie povere (il 71,7 per cento) era composta da soli cittadini italiani, mentre circa il 28 per cento aveva almeno un componente straniero. Per leggere correttamente il dato, però, bisogna considerare che in Italia le famiglie con stranieri rappresentano l’8,6 per cento delle famiglie totali, e quindi hanno un tasso di povertà più elevato rispetto a quelle con soli italiani. Nel 2020 gli individui stranieri in povertà assoluta erano oltre un milione e 500 mila, con un’incidenza pari al 29,3 per cento, contro il 7,5 per cento dei cittadini italiani. 

Infine, come sottolineato dall’Istat, la diffusione della povertà diminuisce al crescere del titolo di studio. Nel 2020 l’incidenza di povertà assoluta tra persone con almeno il diploma di scuola secondaria superiore era al 4,4 per cento, mentre saliva al 10,9 per cento tra gli individui con al massimo la licenza media. 

Come spiegato da Ferrante, per comprendere quanto è esteso il problema della povertà in Italia, facendo anche un confronto con gli altri Paesi europei, possiamo guardare ai dati diffusi da Eurostat e basati non sulla spesa mensile ma sul reddito. Eurostat infatti considera come “a rischio povertà” le persone che hanno un reddito inferiore al 60 per cento del reddito mediano nazionale. Nel 2020, in Italia questa soglia era pari a 10.840 euro, e il 20 per cento della popolazione era considerato a rischio povertà. La quota si è mantenuta più o meno stabile dal 2018, quando era a rischio povertà il 19,8 per cento della popolazione.

Due anni fa eravamo il settimo Paese europeo con il più alto numero di persone a rischio povertà, meglio della Spagna (al quarto posto con il 21 per cento) ma peggio della Germania (18,5 per cento) e soprattutto della Francia, con il 13,8 per cento. 

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