Italia e Francia riavvicinano i loro rapporti industriali dopo anni difficili

Il ministro Urso e il suo collega francese Le Maire hanno firmato un accordo sulla politica industriale, ma negli ultimi anni i due Paesi si sono scontrati su vari dossier
ANSA
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In quasi cinque mesi di governo, l’esecutivo di Giorgia Meloni si è scontrato in almeno due occasioni con la Francia del presidente Emmanuel Macron. A novembre i due Paesi hanno mostrato visioni diverse sulla gestione dell’immigrazione nel Mediterraneo, mentre a febbraio Meloni ha criticato Macron per aver incontrato a Parigi il presidente ucraino Volodymyr Zelensky insieme soltanto al cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Nelle ultime settimane però c’è stato un riavvicinamento tra Italia e Francia, in particolare per quanto riguarda le strategie industriali. Il 3 marzo il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ha firmato insieme al ministro dell’Economia, delle Finanze e della Sovranità industriale e digitale francese Bruno Le Maire una dichiarazione congiunta di politica industriale. Nel documento si sostiene «una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi europei» e «l’istituzione di un fondo sovrano a sostegno della capacità produttiva nei settori strategici». 

L’accordo è stato il risultato del primo Forum di Consultazione ministeriale tra Italia e Francia previsto dal Trattato del Quirinale, firmato a novembre 2021 dal governo Draghi per migliorare la cooperazione tra i due Paesi. «Inizia una nuova era di collaborazione tra Italia e Francia», ha dichiarato il 3 marzo Le Maire a Sky Tg24. «Abbiamo stabilito una vera e propria tabella di marcia tra i nostri due Paesi per accelerare la decarbonizzazione dell’economia e per riuscire nelle delocalizzazioni industriali». Tra i temi della dichiarazione ci sono anche la transizione verde e digitale, la competitività dell’industria europea e l’autonomia strategica. Le Maire ha parlato della volontà di collaborare con l’Italia a un fondo comune di investimento nelle cosiddette “materie prime critiche”, ossia quei materiali di strategica importanza economica per l’Europa, come il cobalto e il neodimio, caratterizzati da un alto rischio di fornitura.

I due ministri hanno poi sottolineato la necessità di accelerare gli sforzi dell’Unione Europea su questi temi. L’anno scorso Le Maire aveva firmato un documento simile con la Germania, senza però menzionare o sostenere un fondo specifico per l’industria, dal momento che questa idea non aveva raccolto l’entusiasmo tedesco.

Il Trattato del Quirinale e le recenti tensioni

L’intesa tra Italia e Francia arriva dopo settimane di disaccordi tra le due parti su vari dossier di politica industriale, con una rivalità italo-francese di lunga data sullo sfondo. Come ricostruisce Politico, all’inizio dell’anno l’Italia aveva messo in guardia contro la volontà del Paese confinante di allentare le regole sugli aiuti di Stato, criticando i ministri dell’Economia francese e tedesco per essersi recati insieme negli Stati Uniti a chiedere maggiore trasparenza sui sussidi statunitensi alla transizione ecologica.

Le tensioni tra i due Paesi hanno raggiunto il picco recente durante il Consiglio europeo di febbraio a Bruxelles, quando Meloni ha duramente criticato il presidente francese Macron per non averla invitata a una cena a Parigi con il presidente ucraino Zelensky e il cancelliere tedesco Scholz. Ora la cooperazione sembra essere tornata al centro dell’attenzione tra i due Paesi.

L’incontro a Roma tra Le Maire e Urso, a cui ha partecipato anche il ministro italiano dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti (Lega), ha mostrato una ritrovata sintonia nell’ambito degli incontri previsti dal Trattato del Quirinale, che mira a stabilire una maggiore cooperazione tra due dei Paesi più influenti dell’Ue. Il trattato copre una serie di settori, dall’industria alla cultura, e mira a creare un quadro di partenariati permanenti su questioni fondamentali come l’immigrazione, la giustizia e la tecnologia 5G. 

Nonostante i disaccordi del passato su questioni come i migranti, i progetti industriali e la Libia, l’Italia e la Francia si sono avvicinate particolarmente durante il governo Draghi, coordinandosi anche sul piano di ripresa economica dell’Ue dopo la pandemia di Covid-19. Questa nuova intesa è arrivata però dopo un decennio piuttosto travagliato, ricco di dossier delicati sui tavoli dei rispettivi governi.

I dossier italo-francesi

Dalla cantieristica navale ai media fino al latte, i legami industriali italo-francesi sono stati caratterizzati da tensioni in tempi recenti. La politica industriale europea è stata tradizionalmente dominata dal binomio franco-tedesco, mentre le relazioni industriali tra Francia e Italia sono spesso state tese, con offerte di acquisizione e fusioni su cui entrambi i governi hanno posto il veto. Nel 2020 per esempio il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha espresso preoccupazione per «una presenza crescente e pianificata di operatori economici e finanziari di origine francese» nell’economia italiana, in particolare nel settore dei servizi finanziari.

Il fallimento dell’acquisizione della francese Chantiers de l’Atlantique da parte dell’italiana Fincantieri nel gennaio 2021 e le tensioni per la possibile vendita di parte di Leonardo al consorzio franco-tedesco Knds hanno dimostrato in tempi recenti che la rivalità economiche tra i due Stati sono ancora vive. Segni di sospetto reciproco sono emersi fin dall’inizio del processo di negoziazione della fusione tra Chantiers e Fincantieri e, in un dibattito televisivo durante la campagna presidenziale del 2017, la candidata del Front National Marine Le Pen aveva accusato il suo avversario Macron di aver «venduto» Chantiers «agli italiani».

L’amministrazione Macron, una volta in carica, ha però deciso di nazionalizzare temporaneamente Chantiers, impedendo l’acquisizione italiana. Successivamente è arrivato l’accordo con l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per provare a fondere i due cantieri navali creando «un campione globale nel settore». Ma l’intesa non è mai decollata del tutto: non c’erano i presupposti per superare le regole dell’Ue in materia di fusioni, in quanto il nuovo gruppo avrebbe avuto un solo concorrente in Europa, la tedesca Meyer Werft. 

Inoltre l’operazione è stata osteggiata anche da alcuni senatori francesi di centrodestra, guidati da Sophie Primas, che avevano espresso il loro scetticismo sulla trasparenza di Fincantieri, invitando il governo a rinunciare all’accordo. Allo stesso tempo, anche in Italia sono emerse voci contrarie: proprio l’allora vicepresidente del Copasir Adolfo Urso aveva commentato l’affare Fincantieri definendolo una «resa» e associando l’Italia a «una colonia di Parigi».

Negli ultimi anni anche nel settore alimentare la rivalità tra aziende italiane e francesi ha coinvolto i governi dei due Paesi. Un esempio è l’acquisizione di Parmalat da parte della multinazionale francese Lactalis nel 2011, inizialmente osteggiata dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che adottò un decreto “anti-scalate” per proteggere le aziende in settori strategici, in un momento in cui gli investitori francesi stavano acquistando gruppi italiani in numero crescente. In quel periodo infatti la francese Edf stava per assumere il controllo della società energetica Edison, mentre Bulgari era appena stata acquistata dal gruppo francese Lvmh. Il decreto del governo Berlusconi ebbe però il solo effetto di ritardare l’acquisizione di Parmalat da parte del colosso lattiero-caseario francese, che in mancanza di un acquirente italiano completò l’affare e assunse il controllo dell’azienda nata in provincia di Parma.

Lo stesso Berlusconi, non come politico ma come imprenditore, qualche anno fa dovette difendersi dai tentativi di scalata francese. Nel 2016 infatti il gruppo francese Vivendi ha tentato di acquisire la maggioranza delle quote di Mediaset, incrinando ulteriormente le relazioni economiche tra Italia e Francia. Pochi mesi dopo il lancio dell’operazione da parte del capo di Vivendi Vincent Bollorè, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha però bloccato l’operazione, citando una norma che impedisce a un singolo investitore di rappresentare più del 40 per cento dei ricavi nel settore delle telecomunicazioni.

La delibera dell’Agcom ha imposto a Vivendi di scegliere tra la presenza nel capitale di Mediaset e la conservazione della partecipazione in Tim, di cui era azionista con il 24 per cento circa: ciò ha portato al congelamento di quasi il 20 per cento di Mediaset detenuto dall’azienda francese. Le tensioni sono arrivate fino al 2021, quando è stata siglata la rinuncia delle parti a tutte le cause pendenti, con la distribuzione di un dividendo straordinario e l’impegno del gruppo francese a vendere sul mercato l’intera quota del 19,19 per cento.

Le reciproche tensioni non hanno impedito però di realizzare nel 2021 la fusione tra il gruppo italiano Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e la francese Peugeot S.A. (Psa), creando un polo industriale di livello globale nel settore automobilistico. Anche questo affare non è stato esente da sospetti, con l’Italia che aveva espresso preoccupazioni per la fusione. Lo  Stato francese, a differenza di quello italiano, deteneva una quota di minoranza nel gruppo Psa che, secondo alcuni osservatori in Italia, gli avrebbe permesso di tutelare gli impianti di produzione e i posti di lavoro francesi. La questione non era infatti del tutto nuova: sul tavolo c’era il passato travagliato legato alle trattative per la fusione tra Fca e Renault. Nel 2019 il gruppo automobilistico di Torino aveva ritirato la proposta di fusione con il polo francese. In un comunicato l’azienda italiana aveva spiegato «che non vi erano in Francia le condizioni politiche perché una simile fusione potesse procedere con successo».

A far saltare l’accordo, secondo i principali osservatori internazionali, sarebbe stato un ripetuto rinvio del voto finale da parte del consiglio di amministrazione di Renault. In particolare, a ostacolare l’approvazione definitiva sarebbe stata la posizione del governo francese, presente con una quota del 15 per cento della società, che avrebbe chiesto un posto per un suo delegato nel nuovo cda. Allo stesso tempo anche la giapponese Nissan, parte del gruppo, aveva espresso scetticismo sull’affare.

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