Sono passati pochi giorni dalla Festa della Donna e il tema dei diritti delle donne – e della loro negazione o riduzione – continua, periodicamente, a tornare di attualità. Qualche settimana fa ad esempio alcune affermazioni di Matteo Salvini hanno riacceso il dibattito sulle interruzioni volontarie di gravidanza, scatenando numerose polemiche. Ma il tema dell’aborto è da sempre divisivo in Italia e non di rado viene affrontato dalla politica in modo ideologico.
Ma come funziona la procedura per interrompere una gravidanza? Si tratta sempre di un’operazione? Quali sono i numeri più aggiornati sul tema?
Prima di addentrarci nella nostra analisi dobbiamo rilevare che, come denunciato già a gennaio da Emma Bonino, non risulta ancora pubblicata la relazione del ministro Salute circa l’attuazione della legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza sull’anno 2018, attesa per gennaio. I dati più aggiornati disponibili sono dunque relativi al 2017.
Com’è regolato il diritto di abortire secondo la legge 194
Per capire la procedura che regola l’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) il primo passo è guardare alla legge 194 del 1978, che ha introdotto per la prima volta la possibilità per le donne di ricorrere all’aborto su base volontaria.
La legge (art. 4) prevede che l’aborto volontario sia consentito fino al novantesimo giorno di gravidanza se la donna «accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito».
Dopo il novantesimo giorno, invece, l’interruzione volontaria di gravidanza è concessa (art. 6) solamente nei casi in cui «la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» o «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Quando si tratta della procedura per l’Ivg, la legge stabilisce poi (art. 5) che la donna debba ottenere un documento firmato dal «medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia», che attesti lo stato di gravidanza e la richiesta di Ivg. Documento ottenibile solamente (art. 4) presso un «consultorio pubblico […], o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia».
Dopodiché, salvo i casi in cui sia urgente praticare l’operazione, la donna dovrà attendere sette giorni (art. 5), al termine dei quali potrà presentarsi presso una sede autorizzata e procedere con l’iter di interruzione di gravidanza (anche se, in realtà, dall’ottenimento del documento al momento dell’intervento possono passare anche molti più giorni).
Quindi, per farsi praticare un aborto non è sufficiente recarsi al Pronto Soccorso e farne richiesta.
Aborto chirurgico e farmacologico
Non è poi sempre vero che l’Ivg consista in un’operazione.
Esistono infatti due metodi per eseguire un’Ivg: uno farmacologico e uno chirurgico. Il metodo farmacologico prevede l’assunzione da parte della donna di almeno due principi attivi diversi: il mifepristone (la pillola abortiva RU486, che determina la cessazione della vitalità dell’embrione) e la prostaglandina (che determina l’espulsione dell’embrione), a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. La procedura si svolge nel corso di un ricovero ordinario della durata di circa tre giorni. Il ricorso all’aborto farmacologico è tuttavia possibile solamente se effettuato entro la settima settimana di amenorrea, ossia entro sette settimane dal momento in cui la paziente non presenta mestruazioni per via della gravidanza.
Il metodo chirurgico, invece, consiste appunto in un’operazione: prevede la somministrazione dell’anestesia e richiede una breve permanenza in ospedale, di circa 4-8 ore.
Quanti sono gli aborti in Italia?
Secondo i dati Istat più aggiornati, nel 2018 le donne che hanno ricorso in Italia all’Ivg sono state 76.044. Il 74,5 per cento di queste procedure sono state eseguite chirurgicamente mentre il 24,5 per cento con metodo farmacologico (nell’1,5 per cento dei casi o non viene dichiarato il metodo o si è ricorso ad altri metodi non specificati).
Dunque, se è vero che la maggioranza delle Ivg sono state operazioni, è anche vero che quasi un quarto delle donne che si è sottoposta ad interruzione volontaria di gravidanza non è ricorsa ad alcuna operazione chirurgica.
Un calo costante
Il numero di Ivg registrato nel 2018 rappresentata poi il dato più basso dal 1978.
Questo trend al ribasso si registra dal 1982, l’anno in cui – con 234.801 procedure – si è registrato il maggior numero di interruzioni volontarie di gravidanza. Nello specifico, il numero di Ivg è calato del 67,61 per cento rispetto al 1982, e del 5,81 per cento rispetto agli 80.733 casi del 2017.
Questo dato conferma la continua diminuzione del fenomeno documentata dal ministero della Salute, che sottolinea come questo calo sia dimostrato anche dagli altri indicatori: tasso di abortività (numero di Ivg rispetto a 1000 donne di 15-49 anni residenti in Italia) e rapporto di abortività (numero di Ivg rispetto a 1000 nati vivi).
Se si guarda agli ultimi dati disponibili si scopre infatti che nel 2017 il primo «è risultato pari a 6,2 per mille, con un decremento del 3,3 per cento rispetto al 2016 e con una riduzione del 63,6 per cento rispetto al 1982» e il secondo «nel 2017 è risultato pari a 177,1 per 1000 nati vivi (o 17,7 per 100 nati vivi), con una riduzione del 2,9 per cento rispetto al 2016 e del 53,4 per cento rispetto al 1982.
Secondo i dati del ministero della Salute, questo fa dell’Italia uno dei Paesi sviluppati con il più basso tasso di abortività. Tra i Paesi analizzati, hanno un tasso minore solamente Svizzera e Germania.
Quindi, dati alla mano, le donne residenti in Italia ricorrono sempre meno all’Interruzione volontaria di gravidanza.
Italiane e straniere
Abbiamo quindi visto quante siano state le interruzioni di gravidanza verificatesi nel 2018.
Ma da dove provengono le pazienti che ricorrono a queste procedure?
Per rispondere a questa domanda utilizzeremo ancora una volta i dati di Istat, che riporta come nel 2018 il 69,7 delle Ivg fosse stata somministrata a donne con cittadinanza italiana. Le restanti procedure erano state invece richieste da donne con cittadinanza extra-Ue (22,8 per cento del totale) e da donne cittadine di altri Paesi europei (7,3 per cento del totale), con una piccola parte (0,2 per cento) di donne con nazionalità non identificata.
Rispetto al 2017 e al 2016, i valori assoluti hanno segnato un calo per tutte le categoria di nazionalità. A questo proposito, la relazione annuale sulla legge 194 sul 2017, pubblicata a fine 2018 dall’allora ministro della Salute Giulia Grillo, riporta che «dopo un aumento importante nel tempo, le Ivg tra le straniere si sono stabilizzate e negli ultimi anni cominciano a mostrare una tendenza alla diminuzione».
Allo stesso tempo, il ministero della Salute riporta come il tasso di abortività delle donne straniere fosse ancora nel 2017 il triplo di quello delle donne italiane (15,5 per le donne straniere contro il 5,8 delle donne con cittadinanza italiana). Però, differentemente da quanto viene detto da alcuni, il maggiore ricorso all’Interruzione di gravidanza da parte delle donne straniere non deriva da una sottovalutazione della procedure.
Infatti, alcuni studi dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) affermano che «il più frequente ricorso all’Ivg da parte delle donne straniere può dipendere da una loro scarsa conoscenza della fisiologia della riproduzione e dei metodi per la procreazione responsabile, e dalle condizioni di vita, e non da una scelta di utilizzare l’Ivg come metodo per il controllo della propria fecondità» e che vi è «un’attitudine positiva delle donne straniere a evitare gravidanze indesiderate».
L’obiezione di coscienza
Chiudiamo adesso trattando un’altra questione che viene spesso dibattuta quando si tratta di Ivg: l’effettiva disponibilità della procedura.
La possibilità delle donne di accedere alle procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza può essere limitata dalla presenza di medici obiettori di coscienza. La legge 194 prevede (art. 9) che il personale sanitario, qualora sollevi obiezione di coscienza, non sia tenuto a prendere parte «agli interventi per l’interruzione della gravidanza». Secondo la relazione annuale del ministro della Salute sulla legge 194 del 31 dicembre 2018, nel 2017 il 68,4 per cento dei ginecologi italiani esercitavano l’obiezione di coscienza. Un valore in calo di 2,5 punti percentuali rispetto al 70,9 per cento del 2016, ma ben lontano dal 58,7 per cento del 2005.
Al tempo stesso, la 194 garantisce però che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure […] e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza».
Sempre secondo la relazione citata in precedenza, nonostante l’alta percentuale di obiettori, questa procedura nel 2018 era comunque assicurata a livelli adeguati. Infatti, l’offerta del servizio Ivg in relazione al numero assoluto di strutture disponibili era pari al 64,5 per cento del totale delle strutture con reparto di ginecologia/ostetricia o ginecologia. Una copertura che veniva considerata dal ministero come «adeguata» su tutto il territorio nazionale, con l’eccezione di Campania e Provincia autonoma di Bolzano, dove i punti Ivg erano meno del 30 per cento delle strutture censite.
La pensa però diversamente il Consiglio d’Europa che, con due risoluzioni – una del 2014 e una del 2016 – ha giudicato (tra le altre cose) insufficiente le misure adottate dalle autorità italiane per limitare l’impatto dell’alta percentuale di medici obiettori e per garantire a tutte le donne un facile e sicuro accesso alle Ivg. Un’opinione che è stata poi ribadita nel 2018, quando il Comitato europeo dei diritti sociali – un organo del Consiglio d’Europa – ha notato che «sebbene sembri che la situazione stia migliorando, ci sono ancora grosse disparità a livello locale».
Simili preoccupazioni erano poi già state espresse nel 2017 dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che, in un rapporto sullo stato di applicazione dei diritti civili e politici in Italia, si era detto «preoccupato riguardo alle difficoltà nell’accedere ad aborti legali [in Italia, n.d.r.] causate dall’alto numero di medici obiettori», esprimendo il timore che questo potesse portare «ad un significante numero di aborti somministrati in maniera clandestina».
Quindi, nonostante il ministero della Salute reputi adeguato l’accesso all’Ivg in Italia, alcune organizzazioni internazionali ritengono che l’alta percentuale di medici obiettori finisca per rischiare di limitare le possibilità effettive di abortire in maniera sicura.
In conclusione
Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di diritti delle donne, in particolare del loro diritto di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. Per questo, abbiamo raccolto una serie di dati e informazioni aggiornate sul fenomeno.
Per prima cosa si può notare che, anche se la maggior parte delle interruzioni volontarie di gravidanza avvenga per via di un’operazione, un quarto di tutte le Ivg avviene per via farmacologica.
Il numero di Ivg è poi in costante diminuzione da diversi anni, e ha fatto registrare nel 2018 numeri in calo del 67,6 per cento rispetto al picco del 1982. Questo rende l’Italia uno dei Paesi sviluppati con il minor tasso di abortività, preceduto solamente da Svizzera e Germania.
Infine, nonostante l’alto percentuali di ginecologi obiettori di coscienza (pari nel 2017 al 68,4 per cento del totale), il ministero della Salute ritiene adeguato il numero di strutture che garantiscono l’Ivg. Il Consiglio d’Europa e il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno di recente invece espresso una posizione più critica, sottolineando come l’alto numero di medici obiettori rischi di compromettere il diritto delle donne all’Ivg.
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