Il mito di Mario Draghi: da quanti anni si parla dell’ex governatore della Bce

Ansa
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Piace a destra e a sinistra. È un accademico, ma ha esperienza dei più alti livelli di politica internazionale. È potente, ma parla poco e ha fama di grande discrezione. E come se non bastasse, il deputato Bruno Tabacci ha diffuso la leggenda secondo cui Obama, di fronte a problemi difficili, dicesse ai suoi collaboratori: «Chiamatemi Mario Draghi». L’ex governatore della Banca centrale europea, oggi presidente del Consiglio incaricato, gode di una stima trasversale che rischia a volte di sfociare in beatificazione.

Da anni di Mario Draghi si parla come una figura lontana, sempre pronta a giungere da un momento all’altro e portare in salvo il Paese. Sì, da anni, ma da quando esattamente?

Abbiamo ricostruito i passaggi di un mito costruito sotto traccia, anno dopo anno (e negli ultimi tre con maggiore insistenza), in un’invocazione bipartisan che alla fine ha preso la forma dell’incarico per la presidenza del Consiglio.

Prima della Bce

Il nome del banchiere veniva associato alla presidenza del Consiglio già nel lontano 2010. Ad agosto, il quarto governo presieduto da Silvio Berlusconi dava i primi segni di instabilità a causa dell’abbandono di 34 parlamentari vicini a Gianfranco Fini (sarebbe poi caduto per altre ragioni nel 2011, lasciando il posto al governo Monti). Ecco che sui giornali – qui un articolo del Fatto quotidiano – comparve la «Tentazione Draghi». Secondo il titolo, l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi avrebbe già avuto «pronto un programma per guidare un governo tecnico», con al primo posto due temi: evasione e legalità.

Alle fine il destino di Draghi fu un altro, ben noto. Il 1° novembre 2011 entrò in carica come presidente della Banca centrale europea, dove rimase fino a ottobre 2019.

È il periodo in cui la mitologia di Mario Draghi si è consolidata, grazie soprattutto all’episodio che più di ogni altro ha caratterizzato la sua figura. Il 26 luglio 2012, durante un forum di investitori a Londra, nel pieno della crisi economica che aveva duramente colpito l’Eurozona, Draghi disse in inglese che la Banca centrale europea avrebbe fatto «whatever it takes», «tutto il necessario» per salvare l’euro. Una frase che dal quel momento è stata scritta anche sui muri.

Per fare «tutto il necessario», tra gli strumenti della politica economica europea di Mario Draghi ci fu l’introduzione (e continua ad esserci con la direzione di Christine Lagarde) del quantitative easing (alla lettera “facilitazione quantitativa”), ovvero «la creazione e iniezione di liquidità nel sistema da parte delle banche centrali, mediante l’acquisto sul mercato di attività finanziarie come azioni, obbligazioni e titoli di Stato con il duplice fine di sopperire al pericoloso calo per numero e consistenza di prestiti concessi a famiglie e imprese e di eliminare dal mercato i titoli tossici», secondo la definizione della Treccani.

2018: l’ultimo anno di mandato a Francoforte

A un anno dalla scadenza del mandato all’Eurotower, il nome di Mario Draghi ricominciò a circolare esplicitamente negli ambienti della politica italiana. Specialmente nei periodi di maggiore travaglio. Il 4 marzo 2018, il giorno del voto per le elezioni politiche, una giornalista dell’Ansa chiese all’allora presidente della Bce all’uscita del suo seggio elettorale a Roma: «Accetterebbe di fare il nuovo presidente del Consiglio se glielo chiedesse Berlusconi? Lo farebbe un governo con Salvini?». Draghi non rispose ed entrò in macchina ridendo, mentre intervenne invece la moglie, Serenella Cappello: «Lui non lo fa il governo, non è un politico». «Dai, sta’ zitta», si sentì la voce di Draghi dall’interno della macchina.

Nella primavera 2018, a un mese dalle elezioni, il Paese non aveva ancora un governo insediato e assisteva alle difficili trattative per la formazione del primo esecutivo nato dall’accordo fra Lega e Movimento 5 stelle – non c’era ancora nemmeno il nome di Giuseppe Conte. In quei giorni, sui giornali compariva spesso l’ipotesi di un governo tecnico, talvolta abbinata alla speranza che a presiederlo fosse Mario Draghi: «Si dovrebbe individuare una personalità fuori dalle questioni di Palazzo, gradito al presidente della Repubblica e ai mercati. Chi meglio di Mario Draghi, presidente della Bce?», scriveva Libero 25 marzo 2018.

Il 9 aprile, Il Giornale pubblicò un retroscena secondo cui, invece, il banchiere avrebbe fatto sapere – non si sa bene a chi – di non essere disponibile: «Nein! Dall’Eurotower di Francoforte fanno sapere l’indisponibilità di Mario Draghi, presidente della Bce, a lasciare il suo prestigioso incarico per “scendere” a Palazzo Chigi e pilotare un governo istituzionale in grado di portare l’Italia fuori dalle secche della crisi se il presidente Mattarella non riuscirà a mettere d’accordo i litiganti». Ovviamente, ad oggi, non è possibile sapere se ci fosse del vero nell’ipotesi che qualcuno – o persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – avesse davvero sondato le intenzioni del governatore della Bce.

L’idea che l’economista non avrebbe rinunciato al suo ruolo a Francoforte prima del tempo era comunque la più diffusa, al di là degli auspici di giornali e politici. Nel giugno 2018 poi un governo arrivò, il primo guidato da Giuseppe Conte, e per un po’ di Draghi non si parlò più. Almeno fino alla crisi successiva.

L’ultimo anno alla Bce

Nell’aprile 2019, il primo governo Conte cominciava già a traballare sotto i colpi reciproci di Lega e Movimento 5 stelle. Il 7 aprile, Luigi Bisignani riportò sul Tempo un retroscena che, ancora una volta, vedeva protagonista il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi, in scadenza a ottobre di quell’anno: «Mario Draghi senatore a vita per dare una sferzata al governo più pazzo del mondo che, dalla Libia alle infrastrutture, non ne indovina una? Pare sia questa l’idea che sta maturando in gran segreto il Quirinale».

Così come Giorgio Napolitano aveva fatto con Mario Monti, si avanzava su alcuni quotidiani l’ipotesi che Mattarella volesse nominarlo senatore a vita per poi aprirgli la strada a un eventuale governo (e dunque mandare un preavviso a quello in carica). Anche questa voce di corridoio, nei fatti, non trovò nessun riscontro e Draghi concluse il proprio mandato alla Banca centrale europea alla sua scadenza naturale: il 24 ottobre 2019.

L’ultimo giorno, ai cronisti che chiedevano cosa gli riservasse il futuro, rispose solo: «Chiedete a mia moglie». Forse un ironico riferimento alla risposta di Serenella Cappello fuori dai seggi dopo le elezioni del 2018. A quel punto, però, Mario Draghi era libero davvero, non ricopriva più nessuna carica e nessuno credeva davvero che si avviasse al “pensionamento”. Le candidature – sempre attribuitegli da altri – cominciarono a moltiplicarsi.

Nel frattempo in Italia c’era un nuovo governo, il Conte bis, retto da Partito democratico e Movimento 5 stelle. Il 25 ottobre 2019, il numero due della Lega Giancarlo Giorgetti – che con Draghi ha ancora un rapporto personale – fece addirittura una profezia (sbagliata solo nei tempi). Secondo un retroscena riportato da Augusto Minzolini sul Giornale ma anche da Ilario Lombardo su La Stampa, Giorgetti in quei giorni avrebbe detto: «Questo governo [Pd-M5s] non dura. Vedo che traballa. Alla fine arriverà Mario Draghi, visto che in questo momento è disoccupato e non ha certo bisogno del reddito di cittadinanza. Del resto l’identikit di Renzi su quello che potrebbe essere il premier perfetto, corrisponde esattamente a Draghi».

Il 27 ottobre, Libero ha ripreso un altro retroscena del Giornale – firmato di nuovo da Minzolini – che parlava di un «piano» di Matteo Renzi per una «staffetta» a Palazzo Chigi, ovvero per sostituire il presidente Conte alla prima occasione utile. Secondo il giornalista il premier del futuro per il leader di Italia viva sarebbe stato proprio «uno che somigli a un Draghi».

Ancor più che alla presidenza del Consiglio, il nome di Mario Draghi negli ultimi due anni è stato proiettato direttamente al Quirinale, per la successione a Sergio Mattarella, in scadenza all’inizio del 2023. Il 20 ottobre 2019, un articolo del Giornale lo metteva già al primo posto fra i “papabili” alla corsa al Colle.

Pochi giorni più tardi, il 26 ottobre, anche il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari scrisse un editoriale dal titolo «Conte, Renzi e una speranza che si chiama Mario Draghi». Nel sommario si leggeva: «Il governatore uscente della Bce può fare qualunque cosa, che abbia naturalmente gestione d’un potere che rechi benessere al nostro Paese e ai circostanti. Molti pensano che sarebbe un ottimo capo del governo italiano; altri ritengono che sarebbe validissimo per una carica al vertice dell’Unione europea; infine potrebbe succedere nel 2022 all’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella».

Una proposta che sembrava non dispiacere nemmeno al leader della Lega Matteo Salvini. A dicembre dello stesso anno, il segretario del Carroccio, in conferenza stampa a Bruxelles, a un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse di Mario Draghi al Quirinale, disse: «Why not? Non avremmo controindicazioni, ma non decido io i destini altrui».

Fra i sostenitori di Draghi c’è sempre stato anche Silvio Berlusconi. A maggio 2019, in un’intervista al Mattinodefinì l’economista «l’uomo giusto per un incarico di alta responsabilità in Italia». Alla fine dello stesso anno, alla presentazione di un libro di Bruno Vespa, a una domanda sull’ipotesi di un governo guidato da Mario Draghi rispose senza esitazioni che sarebbe stato «un premier capace» (va detto che in quel periodo il governo era litigioso, ma non sul punto di cadere, quindi si trattava più che altro di un esercizio teorico).

Dal 2020 a oggi: dai sussurri alla realtà

Nonostante la pandemia abbia blindato per diversi mesi il governo Pd-M5s, è stato il 2020 a covare gradualmente – e forse con una certa efficacia – l’idea di un ingresso di Mario Draghi nella politica italiana. Fin quando non è diventato uno scenario reale, proprio nelle ultime due settimane.

I sussurri e le teorie sull’ex presidente della Banca centrale europea, l’anno scorso, si sono puntualmente intensificati in corrispondenza delle due uniche occasioni in cui Draghi ha fatto sentire la propria voce in pubblico: a marzo con un articolo sul Financial Times e ad agosto, ospite del Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Entrambi i contributi sono stati citati innumerevoli volte da allora.

L’editoriale del 25 marzo 2020 sul Financial Times si intitolava «Ci troviamo davanti una guerra contro il coronavirus e dobbiamo agire di conseguenza». L’ex governatore della Bce apriva la strada a una nuova prospettiva europea anti-austerità: «La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico».

E poi ancora, continuava l’economista: «La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

I giorni successivi il nome di Mario Draghi riempiva i giornali. Il 27 marzo, Luca De Carolis ha scritto sul Fatto quotidiano un articolo dal titolo «Il Senato s’incendia. I due Matteo invocano il governo Draghi». Il giorno prima, in occasione di un’informativa, il premier Conte si era trovato davanti Matteo Salvini e Matteo Renzi, «tecnicamente su versanti opposti, ma di fatto gemelle diversi, che gli citano Mario Draghi: uno schiaffo e un auspicio di sfratto», raccontava il giornalista. La coincidenza veniva messa in risalto anche dalle altre testate: «Draghi il più citato nell’aula grigia dei senatori distanti e mascherati» (Il Quotidiano del Sud), «Schiacciato tra Draghi, Merkel e M5s il premier ora è isolato in aula e fuori» (La Verità), «La politica ora ha un sogno: Draghi subito a Palazzo Chigi» (Il Giornale), «I due Mattei al lavoro: un governo a guida Draghi per la ricostruzione» (Il Messaggero). Su La Stampa, Fabio Martini chiedeva a Renzi esplicitamente: «Lei non rilancia Draghi per evitare che si dica: riecco i due Matteo che vogliono buttar giù Conte?». Risposta: «Ogni equiparazione che si continua a fare fra me e Salvini è semplicemente ridicola». E poi ancora: «Se fosse Draghi non sarebbe preoccupato dall’idea di infilarsi nel casino italiano», chiedeva il giornalista. «Dovremo uscire convivendo con il virus. Per questo non tiro per la giacchetta Mario Draghi. Non lo candido a nulla ma dico: lui che è stato custode delle regole europee, con tempismo ci indica la strada giusta, dicendoci che ci serve un’economia di guerra».

Infine, in un editoriale su La Stampa Marcello Sorgi restituiva una fotografia esatta della situazione: «Con un ritardo di 24 ore (ma si sa, i politici di nuova generazione leggono poco i giornali italiani, figurarsi quelli stranieri) l’uscita di Mario Draghi sul Financial Times ha terremotato la politica italiana. E non perché l’ex-capo della Bce abbia parlato di chissà che – la necessità di misure straordinarie, anche a costo di un forte aumento del debito pubblico, di fronte a una situazione eccezionale. Ma perché in questo momento le sue affermazioni sono state percepite come una specie di programma politico del suo ipotetico nuovo governo, di cui apertamente si parla da settimane in Italia».
Pagella Politica
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Titoli di giornale del 27 marzo 2020
Titoli di giornale del 27 marzo 2020
L’invocazione di Draghi è ritornata a farsi insistente dopo la partecipazione dell’ex banchiere europeo al Meeting di Rimini, il 18 agosto. Del discorso ha in particolare colpito la distinzione fra «debito buono», che genere crescita, e «debito cattivo» (legato all’osservazione che i sussidi non siano sufficienti a rilanciare l’economia). L’analisi di Draghi è sembrata – indirettamente – una critica all’operato del governo Conte II.

«L’ex presidente della Bce ed ex governatore di Bankitalia è da mesi, da quando a novembre lasciò il vertice di Francoforte, il convitato di pietra della politica italiana. Anzi, a sua insaputa e senza che abbia fatto nulla per accreditarsi al ruolo di premier, Draghi è una sorta di spettro che aleggia su Palazzo Chigi. E spaventa il suo inquilino», sintetizzava quel giorno un articolo sul Messaggero. «Il manifesto di Super Mario e la sferzata al governo. Gelo di Conte, ma c’è il tifo Pd», titolava lo stesso quotidiano il giorno dopo.

E in effetti, il presidente del Consiglio Conte lo spettro lo percepiva, eccome. Il 5 settembre, ospite alla festa del Fatto quotidiano e al Forum Ambrosetti di Cernobbio, alle domande su Draghi ha risposto: «Lo avrei visto bene come presidente della Commissione Ue. Lo ho incontrato perché non volevo spendere il suo nome invano, ma lui mi disse che non si sentiva disponibile perché era stanco della sua esperienza europea». Un’uscita valutata inelegante nei confronti dell’ex governatore della Bce – senza considerare che la presidenza della Commissione europea non viene di certo stabilita da palazzo Chigi.

Il nome di Draghi a quel punto era lì – il primo nella lista delle “riserve della Repubblica” – evocato sempre più spesso quando la crisi di governo ha cominciato a prendere forma ed è stato chiaro che non avrebbe avuto una semplice risoluzione.

In conclusione

Per oltre dieci anni, l’opinione pubblica e i retroscena della politica hanno coltivato l’idea di una partecipazione di Mario Draghi nella politica italiana. Già nel 2010, si parlava di un possibile governo tecnico da lui guidato.

Dal 2011 al 2019, Draghi è stato presidente della Banca centrale europea e, al di là degli apprezzamenti, era chiaro a tutti che non avrebbe rinunciato al posto di comando a Francoforte per invischiarsi nelle vicende italiane.

Dal 2018 in poi, però, con l’approssimarsi della scadenza del suo mandato alla Bce, il suo nome ha cominciato a farsi gradualmente più insistente. Fino a diventare una speranza esplicita quando Draghi ha lasciato Francoforte, alla fine di ottobre 2019.

Due soli interventi l’anno passato, infine, hanno concentrato nei suoi confronti un ulteriore carico di aspettative. Con la crisi di governo – e il fallimento della precedente maggioranza – la figura dell’economista è sempre rimasta nello sfondo, invocato da parti politiche fra loro molto diverse. Finché non è stato effettivamente chiamato a costruire un nuovo esecutivo.

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