Stipendi degli insegnanti e “gabbie salariali”: una guida al dibattito

Abbiamo ricostruito la storia di un’espressione tornata di moda dopo una proposta del ministro dell’Istruzione Valditara, spiegando quanto guadagnano oggi i docenti italiani
ANSA/MATTEO CORNER
ANSA/MATTEO CORNER
Di recente il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara (Lega) ha proposto maggiori finanziamenti privati alla scuola pubblica e stipendi più alti per i docenti che vivono in regioni dove il costo della vita è più alto. Questa proposta, avanzata dal ministro lo scorso 25 gennaio in un dibattito organizzato da Pwc Italia in collaborazione con il gruppo Gedi, ha suscitato reazioni opposte e riportato di moda un’espressione uscita da anni dal dibattito politico, le “gabbie salariali”.

Ma che cosa sono queste “gabbie salariali”? E quali sono le posizioni in campo?

Che cosa sono le “gabbie salariali”?

A poche ore di distanza dalle dichiarazioni di Valditara, varie testate hanno dato la notizia della sua proposta ricollegandola all’espressione “gabbia salariale”. Questo termine fa riferimento alla rigida distinzione delle paghe minime per zone territoriali, che mette in relazione i salari con vari parametri, tra i quali il costo della vita. Questa distinzione era stata introdotta il 6 dicembre 1945, in seguito a un accordo denominato «per la perequazione delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria nell’Italia del Nord», che stabiliva l’adeguamento degli stipendi su base territoriale in seguito alla svalutazione della moneta nell’immediato dopoguerra.

L’accordo era stato stipulato tra la Confederazione generale dell’industria italiana (Confindustria) e la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), l’unica organizzazione dei lavoratori allora esistente. L’articolo 1 dell’accordo sottolineava il bisogno di «porre un freno alla rincorsa rovinosa fra i salari e il costo della vita» e la necessità di placare le agitazioni operaie.

Per combattere gli effetti dell’inflazione, le paghe minime orarie degli operai furono fissate sulla base dell’area territoriale di appartenenza. Il 23 maggio 1946, durante il primo governo guidato da Alcide De Gasperi (Democrazia cristiana), l’accordo venne esteso anche al Centro e al Sud Italia. In totale le “zone salariali” erano sette: tre al Nord e quattro al Centro-Sud. A tal proposito, nelle norme non compariva il termine “gabbia salariale”, utilizzato in un secondo momento per criticare questa logica retributiva. Basandosi sui dati presenti nelle tabelle degli accordi, a Milano un operaio specializzato nel settore metallurgico percepiva 21 lire all’ora, mentre a Reggio Calabria ne guadagnava 18,05. Uno studio, realizzato nel 2014 da Guido De Blasio, economista della Banca d’Italia, e Samuele Poy, professore di sociologia del lavoro all’Università degli studi del Piemonte orientale, ha mostrato che l’effetto di questo schema salariale sull’occupazione degli anni Cinquanta è stato piuttosto modesto. 

In seguito a diverse proteste sindacali, le “gabbie salariali” furono abolite il 18 marzo 1969, con un accordo firmato tra Confindustria e i sindacati dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil. L’articolo 3 del testo stabiliva che, a partire dal 1° luglio 1972, tutte le differenziazioni zonali sarebbero state soppresse.

Com’è la situazione oggi

Lo scorso 10 novembre, a pochi giorni dall’insediamento del governo Meloni, è stato trovato l’accordo tra il Ministero dell’Istruzione e del Merito e le organizzazioni sindacali sul rinnovo del contratto degli insegnanti. Secondo il Ministero dell’Istruzione, l’intesa coinvolgerà 1,2 milioni di lavoratori.

Ma quanto guadagnano attualmente gli insegnanti italiani? I dati più aggiornati, che consentono di fare un confronto con altri Paesi, sono contenuti nel rapporto Education at a Glance 2022, pubblicato dall’Ocse. Questo rapporto raccoglie il valore degli stipendi annui lordi (espressi in dollari a parità di potere d’acquisto) degli insegnanti delle scuole pubbliche (asilo, elementari, medie e superiori), basati su quattro momenti della loro carriera (esordio, stipendio dopo 10 anni di esperienza, dopo 15 anni e al raggiungimento del vertice).

Secondo il dossier, un docente italiano della scuola secondaria superiore appena assunto guadagna 35.428 dollari l’anno a parità di potere d’acquisto, circa tremila dollari in meno rispetto alla media europea, pari a 38.197 dollari, e meno della metà di un suo collega tedesco, che percepisce uno stipendio pari a 80.911 dollari l’anno. La situazione non migliora di molto per chi ha accumulato anni di esperienza: un insegnante italiano a fine carriera percepisce 55.077 dollari l’anno a parità di potere d’acquisto, mentre in Francia con la stessa qualifica si guadagnano 61.282 dollari. La media dei 22 su 27 Paesi dell’Unione europea monitorati e quella dei Paesi Ocse ammontano rispettivamente a 65.399 dollari e 64.987 dollari.

Il rapporto ha inoltre confrontato gli stipendi medi annui degli insegnanti, inclusi bonus e indennità, con quelli degli altri lavoratori laureati e impiegati a tempo pieno. In Italia, il rapporto tra i salari di queste due categorie è pari a 0,78: tradotto in parole semplici, un docente di scuola superiore ha in media una retribuzione del 20 per cento inferiore rispetto a un lavoratore di un altro settore con lo stesso titolo universitario.

I finanziamenti della scuola pubblica

Oltre ad esprimere un parere favorevole circa la differenziazione degli stipendi dei docenti, il ministro dell’Istruzione Valditara ha parlato anche della volontà del suo ministero di «incrementare gli investimenti privati» nella scuola, generando quello che a suo parere è «un percorso virtuoso, che coinvolga sempre di più la società e il mondo dell’impresa, che responsabilizzi tutti, oltre al governo che deve fare la sua parte».

È bene ricordare che la scuola pubblica, seppur in minima parte, si avvale già oggi di forme di finanziamento private. Oltre ai contributi volontari delle famiglie, ai mutui e alla raccolta fondi, esistono anche le sponsorizzazioni da parte di soggetti privati. In base alle leggi in vigore, le scuole possono stipulare accordi con i cosiddetti “sponsor”, che possono essere persone giuridiche aventi o meno scopo di lucro o associazioni senza fine di lucro. In concreto la sponsorizzazione può realizzarsi in tre modi: attraverso contributi economici, da versare direttamente all’istituto; attraverso la cessione gratuita di beni o servizi; o attraverso la compartecipazione economica, con il sostegno dello sponsor a spese relative ad attività già programmate dall’istituto. In cambio la scuola offre la possibilità di pubblicizzare in determinati spazi il nome, il logo e il marchio dello sponsor.

Le reazioni di sindacati e politica

Nel complesso, le proposte di Valditara hanno suscitato reazioni diverse da parte della politica. 

Da una parte sono arrivate le critiche dell’opposizione e dei sindacati, contrari al ripristino di stipendi differenziati e convinti che gli attori privati, mossi da un tornaconto personale, investirebbero soltanto su aree “sicure” e su istituti d’eccellenza. La deputata Elly Schlein, candidata alle primarie del Partito democratico, ha per esempio affermato che quella di Valditara è «l’idea di avere una scuola dei ricchi, magari collocate nei quartieri più belli delle città e in grado di attirare finanziamenti dei privati per aumentare l’offerta educativa, e dimenticare invece le scuole dei poveri». Secondo i detrattori, quindi, il piano abbozzato dal ministro aumenterebbe le disparità socio-economiche tra Nord e Sud.

Al contrario, la proposta del ministro è stata accolta con favore da alcuni presidi. Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma, ha dichiarato che aumentare gli stipendi al personale scolastico che vive al Nord sarebbe una «misura abbastanza sensata».

In ogni caso, in base alla legge di Bilancio per il 2023, approvata dal Parlamento alla fine di dicembre 2022, gli stanziamenti previsti per l’istruzione pubblica diminuiranno di quasi 3,9 miliardi di euro nel triennio tra il 2023 e il 2025: da 51 miliardi e 879 milioni nel 2023 a 47 miliardi e 997 milioni nel 2025.

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