Tutti gli errori di Orsini sui bambini in Yemen e le sanzioni alla Russia

Secondo il professore, bisognerebbe seguire la soluzione adottata dall’Onu contro l’Arabia Saudita dal 2016 al 2020. Ma questa proposta ha basi poco solide
Pagella Politica
Nelle ultime settimane il professor Alessandro Orsini, direttore e fondatore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale dell’università Luiss di Roma, ha proposto più volte di legare le sanzioni contro la Russia al numero di bambini uccisi in Ucraina. Secondo Orsini, una decisione simile è stata presa negli anni scorsi dalle Nazioni Unite contro l’Arabia Saudita, riducendo le vittime nella guerra in Yemen dal 2016 al 2020. 

Dopo averne parlato in televisione, Orsini ha dettagliato la sua proposta il 18 marzo, in un primo articolo su Il Fatto Quotidiano, rilanciandola poi il 29 marzo sullo stesso quotidiano come «unica speranza a nostra disposizione per salvare la vita di qualche bimbo». Questa idea poggia però su basi fattuali poco solide, come abbiamo già spiegato in un nostro fact-checking e come hanno fatto, tra gli altri, anche il direttore del quotidiano Domani Stefano Feltri e il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa

Visto che di recente Orsini ha difeso dalle critiche la sua proposta, vediamo più nel dettaglio perché questa ha diverse lacune.

Le sanzioni all’Arabia Saudita non esistono

L’Onu non ha imposto alcuna sanzione all’Arabia Saudita in base al numero di bambini uccisi in Yemen. Ciò a cui fa riferimento Orsini è una lista (nota come “lista nera”  o “lista della vergogna”) che ha l’obiettivo di screditare i Paesi considerati responsabili di crimini contro i bambini nell’ambito di conflitti armati. L’unico effetto per un Paese inserito in questa lista – avvenuto nel 2016 per l’Arabia Saudita – è dunque un danno reputazionale. 

«Questa obiezione è corretta in apparenza, ma non nella sostanza. Essere inseriti in quella tragica lista ha causato danni seri all’Arabia Saudita», ha però replicato Orsini il 29 marzo su Il Fatto Quotidiano, citando una sentenza della Corte di appello inglese del 20 giugno 2019 che avrebbe decretato come «illegale» la vendita di armi del governo britannico all’Arabia Saudita. 

In nessun punto, però, la sentenza della corte inglese fa esplicito riferimento alla lista dell’Onu, ma elenca le violazioni al diritto umanitario internazionale di cui l’Arabia Saudita sarebbe stata responsabile.

Qual è il ruolo del Jiat

Secondo Orsini, dopo essere stata inserita nella lista nera dell’Onu, l’Arabia Saudita avrebbe deciso di istituire il Joint incident assessment team (Jiat), un organismo composto da membri della coalizione saudita in Yemen (dunque non indipendente) con il compito di monitorare il numero di bambini uccisi nella guerra. In realtà le cose sono andate un po’ diversamente rispetto a quanto raccontato dal professore della Luiss. 

Il Jiat è stato costituito a maggio 2016, mentre l’Arabia Saudita è stata inserita nella lista dell’Onu il mese prima. Ma la creazione del Jiat, come indicato dalla stessa sentenza inglese citata dal professor Orsini e come confermato da documenti ufficiali del governo britannico, era stata già annunciata a febbraio 2016, dunque prima dell’inserimento della coalizione saudita nella lista nera, mentre i primi risultati delle sue indagini sono stati pubblicati ad agosto 2016. La sentenza riporta inoltre che il Ministero della Difesa britannico aveva offerto assistenza tecnica per la formazione del Jiat già a marzo 2016.

Dalla lista dell’Onu l’Arabia Saudita è stata in un primo momento rimossa a giugno 2016, a seguito di pressioni diplomatiche, per poi essere reinserita da ottobre 2017 a giugno 2020.

La scarsa affidabilità dell’Arabia Saudita

Nel suo articolo del 18 marzo, pubblicato da Il Fatto Quotidiano, Orsini ha scritto che «il Jiat ha il compito di preparare un report per ogni singolo caso, inclusi i fatti, le circostanze che circondano ogni incidente, lo sfondo, la sequenza degli eventi, le lezioni apprese, le raccomandazioni e le azioni future da intraprendere per evitare nuove vittime civili». In realtà questo organismo sembra essere tutt’altro che affidabile. 

Come denunciato da numerose organizzazioni non governative internazionali, l’Arabia Saudita non sembra aver mai dato prova di voler condurre indagini credibili sui propri crimini di guerra. Secondo Amnesty International, per esempio, nel 2017 l’Arabia Saudita non aveva preso misure adeguate per proteggere i bambini. Nella testimonianza presentata davanti all’Alta corte inglese, l’organizzazione Campaign against arms trade, che si batte per l’abolizione del commercio di armi nel mondo, ha poi sostenuto che «le procedure investigative saudite sono troppo lente e troppo limitate» e «non costituiscono uno strumento efficace per prevenire future violazioni». A settembre 2019 il giurista Yoannis Kalpouzos, della Yale University,  aveva spiegato che il Jiat è di fatto uno strumento con cui l’Arabia Saudita fornisce una giustificazione legale alla propria condotta bellica. 

Nel 2018, il Jiat ha pubblicato indagini su circa 80 attacchi aerei contro obiettivi civili in Yemen, a fronte di migliaia di simili operazioni condotte dalla coalizione saudita nello stesso periodo. Di questi 80 episodi analizzati, il Jiat ha individuato errori in undici attacchi aerei e violazioni delle regole di ingaggio in un solo caso. 

Tutti gli altri episodi sono stati invece derubricati a «danni collaterali» nell’ambito di legittime operazioni militari. In soli due casi sono state raccomandate ulteriori indagini o azioni disciplinari. Sembra dunque difficile sostenere che il Jiat abbia contribuito a modificare la condotta dei piloti sauditi, come invece sostenuto da Orsini, secondo cui «grazie al Jiat, i piloti sauditi sono stati costretti a lanciare i loro missili in modo meno scriteriato, provocando un crollo nel numero dei bambini uccisi sotto le bombe».

I bambini morti sono davvero calati?

Nel difendere la sua proposta, il professore della Luiss ha più volte ribadito che il periodo da prendere in considerazione per valutare il calo dei bambini morti in Yemen è quello tra il 2016 e il 2020. Secondo Orsini, chi utilizza i dati del 2021 – che mostrano una crescita dei bambini uccisi – usa un’argomentazione «non metodologicamente corretta», perché in quell’anno «un nuovo fattore, la crescita delle capacità offensive degli Houthi, è intervenuto all’improvviso alterando un equilibrio benefico per i civili». «È ovvio – ha scritto il 18 marzo Orsini su Il Fatto Quotidiano – che l’impennata dei bombardamenti da ambo le parti causi una crescita delle vittime civili». Che cosa non torna in queste affermazioni?

Lo Yemen data project (Ydp) è considerato il database indipendente più completo e autorevole per tenere traccia degli attacchi aerei in Yemen, con un’accuratezza superiore ai dati raccolti dalle Nazioni Unite. Secondo le rilevazioni di Ydp, il numero dei bambini uccisi dalla coalizione saudita, dopo aver toccato un picco durante i primi mesi dell’intervento, è tornato a crescere tra il 2016 e il 2017, rimanendo stabile – e ampiamente superiore ai livelli del 2016 – nel 2018, per poi diminuire drasticamente solo a partire dal 2019. I dati di Ydp, come anche quelli pubblicati sui report annuali delle Nazioni Unite, non mostrano un calo nel numero delle vittime tra i bambini nei due anni successivi alla creazione del Jiat.
Non è possibile inoltre sostenere con certezza che il calo nel numero di vittime tra i bambini registrato tra il 2018 e il 2019 sia dovuto all’inclusione dell’Arabia Saudita nella lista nera dell’Onu o alla capacità del Jiat di disciplinare i piloti. 

Le ragioni sono invece da ricercarsi nella complessiva diminuzione degli attacchi aerei sauditi, legata a dinamiche interne alla guerra in Yemen, alla maggiore esposizione mediatica del conflitto e alle conseguenze dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi avvenuto il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul. È proprio nelle settimane che hanno seguito questo episodio, per esempio, che gli Stati Uniti hanno decretato la sospensione del rifornimento di aerei sauditi. Inoltre, a dicembre 2018 l’accordo di Stoccolma ha decretato un cessate il fuoco nella provincia yemenita di Hodeidah, a cui ha fatto seguito un drastico calo del numero di attacchi aerei.

Come ha sottolineato anche il direttore di Domani Stefano Feltri, non è poi chiaro perché, per Orsini, l’intensità del conflitto spieghi solo l’incremento nel numero delle vittime civili a partire dal 2021, e non le dinamiche nel precedente arco temporale da lui preso in considerazione. Va inoltre osservato che nel 2021 lo stesso Jiat era ancora operativo. Perché dunque per Orsini questo organismo era stato efficace tra il 2016 e il 2020 e non nel 2021?

La supposta efficacia del Jiat è ulteriormente smentita da alcuni incidenti occorsi dopo la sua creazione. Come si spiega altrimenti che l’attacco aereo ad avere causato il maggior numero di vittime tra i bambini – oltre 50 nell’attacco contro uno scuolabus nell’agosto 2018 – sia avvenuto a due anni dall’istituzione del Jiat senza che a questo siano seguite misure efficaci? O che quello ad aver causato il maggior numero di vittime civili – su una prigione della città di Dhamar nel settembre 2019 – sia stato giustificato come attacco contro un legittimo obiettivo militare?

La rimozione dell’Arabia Saudita dalla lista Onu

La tesi di Orsini è che l’avvenuta rimozione nel 2020 dell’Arabia Saudita dalla lista nera dell’Onu risponderebbe a criteri tecnici, ossia alle migliorate capacità dei piloti sauditi a evitare obiettivi sensibili e al minor numero di vittime tra i bambini. Anche questa affermazione è opinabile, visto che i piloti sauditi hanno continuato a colpire obiettivi civili anche dopo l’istituzione del Jiat e che le ragioni dell’inclusione o dell’esclusione sembrano più dettate da dinamiche politiche e non tecniche. 

Insieme all’Arabia Saudita, nel 2020 è stato per esempio rimosso dalla lista dell’Onu anche il Myanmar, le cui forze armate sono accusate di genocidio e di utilizzare i bambini-soldato. Altri Paesi, come Stati Uniti, Russia e Israele, non sono stati inseriti, nonostante diversi report dell’Onu abbiano documentato crimini contro i bambini in Afghanistan, in Siria e nei territori palestinesi.

In conclusione

Il ragionamento di Orsini si fonda su una scarsa conoscenza dei fatti inerenti al conflitto in Yemen e su nessi logici poco solidi. Al contrario di ciò che sostiene il professore, non c’è una correlazione tra l’inserimento nella lista nera, la creazione dell’organismo di indagine saudita e la diminuzione del numero di bambini vittime di attacchi aerei in Yemen.

Non c’è insomma alcuna prova che la lista nera delle Nazioni Unite – che non ha alcuna valenza di sanzioni – abbia avuto effetti diretti, né che il Jiat abbia contribuito in alcun modo nel mitigare le conseguenze degli attacchi aerei per i civili.

 

Andrea Carboni è ricercatore presso la School of Global Studies della University of Sussex e consulente di Mercy Corps per lo Yemen.

Luca Nevola ha svolto ricerca etnografica in Yemen e lavora come analista per diversi istituti di ricerca.

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