Dieci strade sbagliate: il fact-checking del libro di Renzi

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Il 15 febbraio 2019 è uscito in libreria Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani, il nuovo libro dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi.

La Premessa dice che «questo libro non serve a rivendicare il passato né a rimpiangere il presente che avremmo potuto vivere» (p. 17). L’obiettivo dell’attuale senatore del Partito democratico è al contrario quello di «prospettare un futuro possibile».

A dispetto del sottotitolo del libro, però, la maggior parte delle oltre 200 pagine raccolgono quelli che, secondo Renzi, sono stati i risultati del Pd nella precedente legislatura. Contrapposti agli attuali insuccessi di Lega e Movimento 5 stelle, simbolo dell’ascesa del populismo in Europa e nel mondo.

«Il populista rifiuta la realtà dei dati e dei numeri e costruisce una contronarrazione basata sulla nostalgia di qualcosa che in realtà non è mai esistito» (p. 65), scrive l’ex segretario del Pd.

Ma quante delle cose che rivendica Renzi non corrispondono davvero alla realtà dei fatti? Dai dati sull’occupazione a quelli sulle tasse, abbiamo raccolto alcuni numeri scorretti e imprecisi riportati dall’ex sindaco di Firenze.

«Un milione di posti di lavoro»

Secondo Renzi, uno dei maggiori successi del suo esecutivo riguarda la riforma del mondo del lavoro: «Credo si possa serenamente affermare che il Jobs Act ha creato oltre un milione di posti di lavoro» (p. 47).

In realtà, non proprio. Il “Jobs Act” fa riferimento a una serie di misure – di cui alcune strutturali e altre temporanee – approvate dal 2014 in poi per far crescere l’occupazione e la liberalizzazione del mercato.

Calcolare con precisione le conseguenze di questo insieme di misure non è semplice: stiamo parlando infatti di diversi provvedimenti – come il “decreto Poletti”, diventato effettivo a marzo 2014 – con effetti diversi lungo i mesi e gli anni successivi.

Secondo i dati Istat, comunque, dal primo trimestre del 2014 (data di insediamento del governo Renzi) al primo trimestre 2018 (data delle successive elezioni politiche), il numero complessivo degli occupati in Italia è cresciuto da circa 22 milioni a 22,9 milioni [1]: un aumento di circa 900 mila unità, simile al «milione di posti di lavoro» citato da Renzi. Questa statistica – così riportata – ha però almeno tre limiti.
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Innanzitutto, l’ex presidente del Consiglio confonde la categoria degli occupati con quella dei posti di lavoro. Secondo la definizione dell’Istat, la prima è infatti più ampia della seconda, perché fa riferimento anche a impieghi occasionali e temporanei, e non solo a lavori continuativi e stabili (quelli che comunemente si intendono con i “posti di lavoro”).

Il secondo limite riguarda il periodo che si prende in considerazione. Come abbiamo visto, i provvedimenti del Jobs Act sono stati approvati in diversi momenti del governo Renzi. L’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, per esempio, è del dicembre 2014: da quella data, fino alla fine della scorsa legislatura, l’aumento degli occupati è stato di circa 665 mila unità.

Il limite principale del confronto di Renzi riguarda però il nesso causa-effetto. Stimare gli effetti di un intervento legislativo non è per nulla facile ed è un lavoro da ricercatori: bisogna infatti valutare la differenza tra come sarebbero andate le cose in assenza di quel provvedimento e la realtà.

Non ci sono studi conclusivi sull’effetto delle misure sul lavoro del governo Renzi. Alcuni di essi, parziali e limitati, hanno trovato effetti ridotti.

Insomma, anche se durante i governi Renzi e Gentiloni c’è stato un aumento degli occupati, non si può dire che siano “posti di lavoro” a tutti gli effetti, e il collegamento tra l’aumento e le misure legislative è molto più dubbio di quanto fa intendere l’ex presidente del Consiglio con il suo serenamente.

I dati (molto) esagerati sull’occupazione in Europa

Secondo l’ex presidente del Consiglio, le sue riforme sul lavoro hanno avuto un impatto significativo anche sulla crescita dell’occupazione europea: «Il mondo del lavoro è cresciuto fra il 2014 e il 2018 in Europa: siamo infatti passati da 160 a 164 milioni di occupati secondo i calcoli di Eurostat» (p. 64).

Il merito? Soprattutto delle misure del governo Renzi: «Abbiamo infatti visto crescere da 22 a 23 milioni il numero degli italiani al lavoro e questo ha permesso di aumentare di oltre 1,2 milioni di unità i nostri connazionali occupati: quasi il 30 per cento delle nuove assunzioni europee sono figlie del Jobs Act».

Gli stessi dati Eurostat (Ufficio statistico dell’Unione europeo) smentiscono però questa dichiarazione. I numeri “europei” di Renzi sono completamente sbagliati.

A inizio 2014, gli occupati nell’Unione Europea (tra i 15 e i 74 anni) erano 215,4 milioni, mentre nel terzo quadrimestre del 2018 (ultima rilevazione disponibile) erano saliti a 232 milioni. Un aumento di 16,5 milioni di occupati (+7,6 per cento), quattro volte di più di quanto indicato da Renzi.

Il conto dell’ex presidente del Consiglio non torna anche se si restringe l’analisi ai Paesi che usano l’euro. Nei 19 Stati dell’Eurozona, a inizio 2014 gli occupati erano circa 140 milioni, aumentati di 11 milioni entro il terzo trimestre del 2018 (151 milioni di occupati).

Nello stesso periodo, secondo i dati Eurostat gli occupati in Italia sono aumentati di circa 1,1 milioni di unità: da 22,3 milioni a 23,4 milioni. Sul piano europeo questo contributo non ha un peso del 30 per cento, come suggerito da Renzi, ma molto più basso: dell’8 per cento, se si considerano gli Stati membri Ue, e del 12,5 per cento, se si considera solo l’Eurozona.
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I dati esagerati sulla disoccupazione, in Italia

Secondo Renzi, il “decreto Dignità” «ha fatto crescere la disoccupazione» (p. 47); ed «è la prima volta nella storia repubblicana che un provvedimento di legge avanzato dal ministro del Lavoro ha come immediata conseguenza la contrazione del numero degli occupati» (p. 147).

I numeri ufficiali mostrano però che l’attuale senatore del Pd pone la questione in modo un po’ troppo facile.

Secondo i dati Istat, tra agosto 2018 (approvazione del “decreto Dignità”) e dicembre 2018 (ultima rilevazione disponibile), il numero totale dei disoccupati (tra i 15 e i 64 anni) è cresciuto da 2,595 milioni a 2,667 milioni. Discorso analogo vale per il tasso di disoccupazione, passato in quattro mesi dal 10,3 per cento al 10,5 per cento.

Sembrerebbe dunque che con il “decreto Dignità” la disoccupazione in Italia sia peggiorata, ma come abbiamo visto è difficile ricondurre la spiegazione di grandi fenomeni macroeconomici a un unico provvedimento.

Ma davvero negli ultimi mesi si è anche ridotto il numero degli occupati, un record storico negativo, secondo Renzi, per il governo Conte? In realtà, tra agosto 2018 e dicembre 2018, il numero degli occupati (tra i 15 e i 64 anni di età) è rimasto pressapoco uguale, da 22,639 milioni a 22,651 milioni, così come il tasso di occupazione, passato dal 58,7 per cento al 58,8 per cento.

Un calo si è registrato, in realtà, nel mese subito successivo all’approvazione del decreto Dignità. A settembre 2018, il tasso di occupazione era del 58,6 per cento, e gli occupati erano in calo di qualche decina di migliaia di unità, a 22,593 milioni.

Ironia della sorte, la stessa cosa era successa durante il governo Renzi, con il “decreto Poletti”.

Come abbiamo visto sopra, a marzo 2014 era diventato effettivo il decreto dell’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Nel mese successivo a quella data, il numero complessivo degli occupati (15-64 anni) era sceso da 22,236 milioni a 22,172 milioni, per poi risalire dopo quattro mesi a 22,332 milioni.

Questo esempio mostra che è riduttivo confrontare dati su occupazione e disoccupazione, presi in periodi arbitrari, per dare meriti o giudizi negativi a specifici provvedimenti.

Lo scorso autunno, per esempio, si è registrato un aumento nelle trasformazioni di contratti a termine e apprendistati in contratti a tempo indeterminato. Tutto merito del nuovo governo e del “decreto Dignità”? La domanda, come abbiamo visto, richiede una risposta più complessa di quelle prospettate, oltre che da Renzi, anche dall’attuale esecutivo. Che a gennaio 2019 ha celebrato un «boom dei contratti a tempo indeterminato», smentito però dai fatti.

Il non-record sulla riduzione delle tasse

Un risultato storico rivendicato da Renzi riguarda l’abbassamento delle tasse: «La pressione fiscale è scesa come mai nei precedenti governi repubblicani» (p. 64), ribadendo il concetto più di una volta («Pur detenendo il mio governo il record di diminuzione della pressione fiscale nella storia fiscale…», p. 150 ).

Anche qui, Renzi sbaglia. L’indicatore della pressione fiscale misura il rapporto tra il Prodotto interno lordo (Pil) e il totale delle risorse raccolte dallo Stato e dagli enti pubblici locali (imposte dirette e indirette, e contributi sociali) per il finanziamento della spesa pubblica.

Sotto i governi Renzi e Gentiloni, in effetti, la pressione fiscale è scesa. Secondo i dati della Banca d’Italia, al 31 dicembre 2013 il rapporto tra tasse e Pil era del 43,6 per cento, sceso al 42,2 per cento al 31 dicembre 2017. Un calo di 1,4 punti percentuali in quattro anni.

In particolare, con Renzi presidente del Consiglio – tra il 2014 e il 2016 – si è registrato un passaggio della pressione fiscale dal 43,6 per cento al 42,4 per cento (che scende al 42 per cento, se si considera nel conteggio anche il “bonus degli 80 euro” introdotto nel 2014): meno 1,2 per cento in tre anni oppure, stando larghi e includendo gli 80 euro, meno 1,6 per cento.

Ma i risultati del governo Renzi sono davvero un record per la storia fiscale italiana? No, c’è chi ha fatto meglio.
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Come mostrano i dati della Banca d’Italia, tra il 1993 e il 1994 – con Berlusconi presidente del Consiglio – la pressione fiscale era scesa di 2,1 punti percentuali: dal 41,3 per cento al 39,2 per cento.

Un’altra riduzione significativa si era registrata tra il 1997 e il 1998: il rapporto tra tasse e Pil – con alla guida dell’esecutivo prima Romano Prodi, poi Massimo D’Alema – era infatti sceso dal 42,4 per cento al 41,1 per cento.

Riassumendo: è vero che dopo anni di aumenti della pressione fiscale (+4,5 per cento dal 2005 al 2013) il governo Renzi è riuscito ad abbassare le tasse, ma in misura minore rispetto a quanto fatto da due suoi predecessori, D’Alema e Berlusconi (e comunque di Berlusconi, se si tiene conto degli 80 euro).

Il non-record sulle donne al governo

Sul fronte della parità di genere, Matteo Renzi rivendica quello che secondo lui è un altro suo primato: «Sono stato criticato perché il mio governo è stato costituito con una presenza paritetica di uomini e donne. Il primo, e anche l’ultimo per adesso, dei sessantacinque esecutivi che si sono alternati dopo la fine della seconda guerra mondiale» (p. 124).

In effetti, nel governo Renzi – in carica dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2018 – su 16 ministeri, otto erano presieduti da donne. Ma solo fino al 31 ottobre 2014, quando Paolo Gentiloni ha sostituito Federica Mogherini come ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Al momento delle dimissioni di Renzi, il numero delle ministre era sceso a sei, dopo le dimissioni di Federica Guidi allo Sviluppo economico (aprile 2016) e Maria Carmela Lanzetta agli Affari regionali (gennaio 2015).

Per poco più di otto mesi, l’esecutivo Renzi ha dunque mantenuto una parità di genere tra i vertici dei ministeri, effettivamente l’unica volta successa nella storia repubblicana – come spiega il dossier Donne in politica di Openpolis.

Il primato dell’ex sindaco di Firenze viene meno se si allarga lo sguardo oltre ai ministri anche all’intera squadra di governo. Considerando le cariche dei sottosegretari, la rappresentanza femminile del governo Renzi scende al 27,9 per cento, un dato inferiore sia al governo Letta (29 per cento) che a quello Gentiloni (28,3 per cento). L’attuale governo Conte registra invece un 17,2 per cento di presenza femminile, nonostante il numero record di elette sia alla Camera (35,7 per cento) che al Senato (34,5 per cento) nella XVIII legislatura.

In generale, secondo le elaborazioni di Openpolis, dal 1976 a oggi la percentuale media di donne al governo si attesta attorno al 10 per cento. Dal 1945 in poi, non c’è stata ancora una presidente del Consiglio o una ministra dell’Economia.

Le ministre degli Esteri sono state soltanto due (Emma Bonino nel governo Letta e Federica Mogherini nel governo Renzi), come quelle della Giustizia (Paola Severino nel governo Monti e Annamaria Cancellieri nel governo Letta) e dell’Interno (Rosa Russo Iervolino nel governo D’Alema e Annamaria Cancellieri nel governo Monti).

Riassumendo: Renzi dice che il suo esecutivo è stato il primo e ultimo ad avere una parità di genere. La dichiarazione è vera solo se si considerano le cariche dei ministri; con i sottosegretari, altri governi hanno fatto meglio del suo.

Il non-record del “41 per cento”

Il numero che torna con più frequenza in Un’altra strada è il 41, ossia la percentuale di voti presa dal Partito democratico alle elezioni europee del 2014 (per la precisione il 40,81 per cento) con Renzi segretario del partito e presidente del Consiglio.

L’ex sindaco di Firenze scrive che questo sarebbe un risultato eccezionale, mai avvenuto prima: «Secondo alcuni avrei distrutto la sinistra portandola dal 41 per cento al 18 per cento. Ciò che fingono di non vedere è che la sinistra tradizionale non ha mai visto il 41 per cento» (p. 230).

Il problema di questa dichiarazione è che cosa si debba intendere con “sinistra”: se si considera un partito unico (Partito democratico, prima Democratici di sinistra, Partito democratico della sinistra, e Partito comunista italiano), è vero che da solo nessun partito di sinistra ha mai raggiunto quella percentuale di voti.

Se invece si sommano le diverse forze di sinistra che in passato si sono presentate alle elezioni, il 41 per cento non diventa più un’eccezione.

Nel 1963, alla Camera il Partito comunista italiano (Pci) arrivò al 25,26 per cento, il Partito socialista italiano (Psi) il 13,84 per cento e il Partito socialista democratico italiano (Psdi) il 6,10 per cento, che sommati tra loro superano il 45 per cento.

Nel 1987, il Pci prese il 26,58 per cento dei voti alla Camera, che sommati al 14,26 per cento dello Psi e al 3 per cento dello Psdi arriva oltre al 41 per cento del Pd alle europee del 2014.

Lo scenario cambia ancora se si guarda al numero assoluto di voti invece della percentuale. Alle europee del 2014, il Pd era riuscito a raccogliere circa 11,2 milioni di voti totali, meno per esempio di quelli presi alle europee del 1987 dal Pci: oltre 11,7 milioni di voti.

Il non-record dell’aumento del Pil pro capite

Una domanda che si pone Matteo Renzi è se l’Italia di adesso stia «veramente perdendo posizioni rispetto a quella del passato» (p. 60). La risposta dell’ex presidente del Consiglio è no, e a dimostrarlo tra i vari indicatori economici sarebbe la crescita del Pil pro capite italiano avvenuto nella scorsa legislatura.

«Ove provassimo a calcolare il Pil non in assoluto ma pro capite – ossia rapportato al numero degli abitanti –, l’Italia del 2015-2017 avrebbe la stessa crescita della Germania, la migliore tra i paesi del G7» (p. 64), scrive Renzi. In realtà questa dichiarazione è imprecisa.

Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il Pil pro capite italiano è passato da 33.162 euro del 2015 a 34.178 euro due anni più tardi, una crescita del 3 per cento. Nello stesso periodo, la Germania è salita da 42.690 euro a 44.066 euro, un aumento del 3,2 per cento, superiore – seppur di poco – a quello italiano.

Tra gli altri Paesi del G7, quello a fare meglio è il Giappone, con una crescita del Pil pro capite del 2,9 per cento, seguito da Francia (+2,6 per cento), Stati Uniti (+2,2 per cento), Regno Unito (+2,2 per cento) e Canada (+2 per cento).


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Nonostante il buon risultato, il +3 per cento italiano tra il 2015 e il 2017 è sotto la media dei Paesi Ocse (+3,3 per cento) e degli Stati membri dell’Unione europea (+3,9 per cento).

Il successo nella lotta all’evasione fiscale

Un altro risultato rivendicato dall’ex presidente del Consiglio riguarda il contrasto all’evasione fiscale: «Noi siamo passati dal recupero di meno di dieci miliardi all’anno a oltre venticinque» (p. 150), scrive Renzi; e anche in questo caso esagera.

Partiamo dai dati dei precedenti esecutivi. Nel 2011, con il governo Berlusconi, il recupero dell’evasione fiscale certificato dall’Agenzia delle entrate è stato di 12,7 miliardi di euro – un punto di partenza superiore rispetto a quello citato da Renzi. Con il governo Monti, si è registrato un recupero simile, di 12,5 miliardi di euro.

Nell’ultima legislatura, queste cifre hanno cominciato ad aumentare. Con il governo Letta, nel 2013 il recupero dell’evasione è stato di 13,1 miliardi di euro, saliti a 14,2 miliardi nel 2014 – primo anno di governo Renzi – 14,9 miliardi nel 2015 e 19 miliardi di euro nel 2016.
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In sostanza, nei quasi tre anni di governo Renzi, il recupero è cresciuto di oltre 7 miliardi di euro. Se contiamo anche il governo Gentiloni, ossia i risultati relativi del 2017, questa cifra sale a circa 9 miliardi di euro. In quell’anno infatti il recupero dell’evasione fiscale è stato di 20,1 miliardi di euro – cifra inferiore di circa 5 miliardi rispetto a quella citata dall’ex sindaco di Firenze nel libro.

I condoni li ha fatti anche Renzi

È vero dunque che negli ultimi anni si è assistito a buoni risultati in questo ambito, ma il merito – oltre alle attività di controllo – è stato anche di misure una tantum, e non strutturali, come la voluntary disclosure (procedure di collaborazione volontaria), approvata dal governo Renzi, che nel 2016 ha portato nelle casse dello Stato 4,1 miliardi di euro.

Semplificando: un cittadino poteva dichiarare volontariamente al fisco – perdendo il beneficio dell’anonimato – tutti i capitali detenuti illegalmente all’estero, pagando le tasse dovute, ma con una riduzione delle sanzioni penali e pecuniarie.

E nonostante Renzi scriva che «con i condoni vincono i furbi e perdono gli onesti» (p. 150), anche la voluntary disclosure – insieme con la rottamazione delle cartelle esattoriali, introdotta dal governo Renzi nel 2016 – può essere considerata un condono.

Secondo le definizioni nella letteratura economica internazionale, un condono fiscale è «un’offerta fatta da un governo ai contribuenti per pagare una parte del debito verso il fisco, in cambio di uno sconto e della libertà da eventuali processi legali». E in questa categoria rientrano anche i provvedimenti presi da Renzi.

Il non-record sui soldi messi nella scuola

Renzi sottolinea che nessun altro esecutivo ha speso quanto il suo per l’educazione, definendo le sue riforme in questo ambito come «il più ingente investimento di denaro sulla scuola rispetto a qualsiasi altro governo precedente» (p. 115).

Un riferimento simile – ma molto più cauto – è contenuto anche in un report del Ministero dell’Istruzione del 2015 sulla riforma La Buona Scuola, definita come «probabilmente, il più grande investimento nella scuola degli ultimi 20 anni».

Quanti soldi sono stati investiti nella scuola da Renzi? Come abbiamo spiegato in una nostra precedente analisi, non è facile dirlo. Se prendiamo in considerazione i fondi stanziati solo per la Buona Scuola, questi sono stati circa 3 miliardi di euro con la legge di Bilancio per il 2015. A questi andrebbero aggiunti anche i 4,6 miliardi di euro per l’edilizia scolastica stanziati nel 2016.

In ogni caso, è difficile calcolare con precisione quanto ogni singolo esecutivo abbia speso in passato nel settore dell’istruzione. Esistono infatti moltissime voci di spesa, fondi e forme di finanziamento che insieme vanno a determinare quanto costa allo Stato italiano l’educazione dei suoi cittadini.

Una stima complessiva più utile a cui fare riferimento è dunque il rapporto tra la spesa in educazione dello Stato italiano e il suo Pil. Com’era stato l’andamento di questo indicatore con il governo Renzi?
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Secondo i dati Eurostat, dal 2014 al 2016, la percentuale del Pil speso per l’educazione in Italia è in realtà calato, passando dal 4 per cento al 3,9 per cento, mentre la media dei 28 Stati membri era del 4,7 per cento. In termini di spesa pubblica, con Renzi a capo del governo l’Italia ha speso in educazione 65,3 miliardi di euro nel 2014, saliti dopo due anni a 65,5 miliardi di euro. Una crescita modesta, registrata in misura maggiore tra il 2012 e il 2013, quando i miliardi investiti in istruzione sono saliti da 65,3 a 65,8, ancora lontani però dai 71,8 miliardi di euro spesi dal nostro Paese nel 2008.



[1] Percorso: Lavoro e retribuzioni – Disoccupazione – Disoccupati

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