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Negli ultimi giorni, una delle notizie più discusse nel dibattito pubblico italiano riguarda la “moneta francese” – il franco Cfa – che starebbe impoverendo alcuni Paesi africani, favorendo in ultima analisi l’immigrazione verso l’Europa.
Il 20 gennaio, nel suo tour elettorale per le elezioni regionali di febbraio in Abruzzo, Luigi Di Maio (M5s) ha infatti accusato la Francia di non aver mai smesso di «colonizzare l’Africa». Secondo il vicepresidente del Consiglio, questo Paese «stampa una propria moneta, il franco delle colonie, e con quella moneta si finanzia il debito pubblico francese».
Lo stesso giorno, intervistato a Che tempo che fa su Rai 1, l’ex deputato del Movimento 5 stelle Alessandro Di Battista ha detto una cosa simile, ribadendo che «la Francia attraverso questo controllo geopolitico […] gestisce la sovranità di questi Paesi impedendo la loro legittima indipendenza, sovranità monetaria, fiscale, valutaria, la possibilità di fare politiche espansive». In assenza di cambiamenti a questa situazione, ha spiegato Di Battista, «la gente continuerà a scappare dall’Africa».
Durante la stessa serata, ospite a Non è l’Arena su La7, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha invece mostrato la foto di un bambino che mina oro in Burkina Faso. Secondo l’ex ministra, in quello Stato africano la Francia «stampa moneta coloniale», pretendendo in cambio che nelle casse del Tesoro francese «finisca il 50 per cento di tutto quello che il Burkina Faso esporta».
Ma che cos’è questa “moneta francese” di cui si sta parlando? È vero che con questo sistema la Francia si paga il debito pubblico e impoverisce i Paesi africani, da cui partirebbero i migranti diretti in Europa? Abbiamo verificato con 10 domande e risposte.
Che cos’è il franco Cfa?
Come spiega la Banca di Francia (la banca centrale del Paese), a oggi nel mondo esistono tre aree – oltre alla Francia – dove vengono utilizzate valute legate alla moneta francese, oggi l’euro e in precedenza il franco francese, valuta ufficiale del Paese fino al 1999.
Le prima delle tre aree è quella delle isole Comore (uno Stato costituito da isole tra Madagascar e Mozambico), mentre le altre due raggruppano 14 Paesi dell’Africa sub-sahariana. Otto Paesi (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) fanno parte dell’Unione economica e monetaria ovest-africana (Uemoa), mentre i restanti sei (Camerun, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Guinea-Equatoriale e Ciad) costituiscono la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac). Ognuna di queste due comunità ha la propria banca centrale: la Banca centrale dell’Africa occidentale (Uemoa) e la Banca degli Stati dell’Africa centrale (Cemac).
Tutti questi 14 Paesi africani usano come valuta il franco Cfa, sigla che dal 1962 significa Communauté Financière Africaine (Comunità finanziaria africana), il risultato di un accordo stretto tra la Francia e i Paesi francofoni di questa area dell’Africa. Un tempo, la sigla Cfa stava effettivamente per Colonies françaises d’Afrique (Colonie francesi d’Africa), espressione che ricorda l’etichetta di «moneta coloniale» usata da Di Maio. Fatta eccezione per Guinea-Bissau (ex colonia portoghese) e Guinea Equatoriale (ex colonia spagnola), stiamo infatti parlando di tutte ex colonie francesi.
Che cosa vuol dire che è un sistema a cambio fisso?
Il franco Cfa è una valuta che ha un tasso di cambio fisso con l’euro. Questo significa che il valore del franco Cfa è “legato” a quello dell’euro, e quindi il suo valore non cambia di giorno in giorno come avviene per le valute a cambio flessibile. Dal 1° gennaio 1999, un euro vale 655,957 franchi Cfa, per entrambe le due Comunità finanziarie interessate.
Nel mondo esistono numerosi altri sistemi di cambi fissi simili a questo. «Prima dell’euro, dal 1979 al 1999, abbiamo avuto i cambi fissi in Europa, quello che si chiamava il Sistema monetario europeo (Sme) che poi piano piano è diventato il sistema della moneta unica», spiega a Pagella Politica Franco Bruni, professore ordinario di Teoria e politica monetaria internazionale all’Università Bocconi e vicepresidente dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
«Ancora adesso ci sono Paesi con questi sistemi. Per esempio la Danimarca ha una moneta che ha un cambio fisso rispetto all’euro, come la Bulgaria e la Bosnia. Molti Paesi hanno invece un cambio fisso con il dollaro, come Singapore e Hong Kong».
È importante sapere dove viene stampato il franco Cfa?
Secondo Di Battista, il franco Cfa viene stampato vicino a Lione, in Francia, per poi essere mandato in Africa, mentre una puntata del programma tv francese #DataGuele parla di due stamperie francesi. In ogni caso, l’ex deputato del M5s confonde due aspetti tecnici: quello tra stampa ed emissione di una valuta.
«Non è importante dove vengono stampate le banconote», chiarisce a Pagella Politica Andrea Terzi, professore di economia monetaria alla Franklin University Switzerland. «Anche i Paesi africani che hanno una propria moneta – e non il Cfa – se la fanno stampare all’estero. In seguito, importano le banconote al costo di produzione e le loro banche centrali le emettono al valore facciale. Così accade anche per il franco Cfa».
Ci sono altri esempi nel mondo di Paesi che decidono di far produrre all’estero le proprie banconote, per poi emetterle tra i propri confini. «Una società inglese ha stampato per anni banconote in euro per conto della banca centrale olandese (che poi la emette) e ancora stampa una montagna di banconote per molti Paesi africani», aggiunge Terzi.
I Paesi africani devono depositare le loro riserve valutarie in un conto francese?
Veniamo alla questione del deposito di valuta in Francia. Come spiega il Ministero dell’Economia francese, i meccanismi di cooperazione finanziaria tra la Francia e i 14 Paesi che usano il franco Cfa si basano su quattro principi.
Uno lo abbiamo visto poco fa, e riguarda il tasso di cambio fisso. Un altro riguarda invece la trasferibilità gratuita per transazioni correnti e movimenti di capitale all’interno di ciascuna unione monetaria e nella zona del franco.
Un terzo principio determina invece la cosiddetta piena (o “illimitata”) convertibilità del franco Cfa in euro. La Francia infatti concede ai Paesi che usano il franco Cfa la garanzia che la loro valuta possa essere convertita in ogni momento in euro. Questo meccanismo è utile, per esempio, quando un Paese africano in difficoltà non riesce a pagare le proprie importazioni con la valuta estera richiesta. Con la piena convertibilità, le somme necessarie possono essergli date dal Tesoro francese in euro.
Questo “pilastro” della piena convertibilità è legato al sistema del cambio fisso. «La Banca centrale francese tiene da parte delle riserve in valuta estera e interviene sul mercato dei cambi quando il cambio tende a variare», spiega Bruni. «Se la moneta di un Paese tende a svalutarsi, cioè a perdere di prezzo, la Banca centrale la compra usando le riserve in valuta estera, in modo da farla salire di prezzo e tenerla al livello fisso che si vuole perseguire, per dare al mercato certezza del suo valore».
Ma a garanzia di queste operazioni e della piena convertibilità – come avviene per tutti i sistemi a cambio fisso – la Francia richiede che una parte delle riserve valutarie estere dei Paesi della zona monetaria del franco Cfa siano depositate in un conto della sua Banca centrale, gestito dal ministero del Tesoro. Questo è considerato il quarto principio che regola la cooperazione finanziaria tra la Francia e i 14 Paesi coinvolti.
Nei decenni la percentuale delle riserve in valuta estera da depositare nel Tesoro francese è cambiata diverse volte, ma dal 2005 è scesa dal 65 per cento al 50 per cento per la Banca centrale dell’Africa occidentale (dal 2007 anche per la Banca degli Stati dell’Africa centrale).
«Quando si usa una valuta nazionale il cui valore è garantito da una valuta estera, occorre avere delle riserve valutarie, che vanno tenute necessariamente – perché non c’è altra alternativa – nel Paese che emette quella valuta», spiega Terzi. «Quindi ovviamente le riserve in euro che garantiscono il franco Cfa non possono che stare in Francia. E ciò avviene anche per Stati all’interno dell’Europa. La Svizzera ha molte riserve valutarie in euro, per altri motivi. E dove le tiene? Le tiene alla Bundesbank, la Banca centrale tedesca. E dove altro potrebbe tenerle? Alla Banca d’Italia o alla Banca di Francia, ma gli svizzeri scelgono di tenerle nella Banca centrale tedesca. In questo caso, siccome l’accordo è con la Francia, i Paesi africani le tengono presso il Tesoro francese».
In sostanza, i Paesi del franco Cfa sono tenuti a conservare una percentuale delle proprie riserve valutarie nel Tesoro francese che gli garantisce la piena convertibilità con l’euro e una linea di credito nel caso in cui le loro riserve si azzerassero. Come spiega in una nota del 2017 la Banca di Francia, questo è lo «strumento chiave» per mantenere la stabilità di tutto il sistema.
La Francia pretende per sé la metà di tutto quello che questi Paesi africani esportano?
Alcuni politici sostengono che con questo meccanismo la Francia pretende per sé la metà dei «denari» dei Paesi africani (come dice Di Battista) o delle loro «esportazioni» (come dice invece Meloni).
«Messa così è una cosa che non ha nessun senso», afferma però Bruni. «La Francia non si prende metà di quello che viene esportato. Qui si sta parlando delle riserve ufficiali, non del valore delle esportazioni».
L’imprecisione è dovuta all’equiparazione tra questi due elementi, aiutata anche dalla pubblicazione di alcuni articoli sul tema a novembre 2018 (“Migranti, la Francia fa la cresta sui soldi africani”, Il Fatto Quotidiano; “Francia: tiene metà dei soldi donati all’Africa”, Il Giornale).
Nello stesso mese, aveva avuto molta diffusione un servizio televisivo in cui Massimo Amato, professore di istituzioni del sistema finanziario globale all’Università Bocconi, aveva spiegato il meccanismo del deposito per il franco Cfa. In realtà, lo stesso Amato – in un commento su Facebook a novembre 2018 e in un’intervista del 23 gennaio 2019 a La Repubblica – ha detto che il suo pensiero è stato «distorto» dall’intervistatore e che le sue tesi sono state «travisate».
Il 28 novembre 2018, Amato aveva già chiarito in un’intervista a Altreconomia quello che non era stato mostrato in televisione: «Se un Paese o un individuo inviano 20 euro in un Paese africano che usa come valuta il franco Cfa, il destinatario riceve integralmente la quota inviata, ovviamente convertita nella moneta locale, mentre le divise straniere entrano a far parte delle riserve. Per come è stato costruito questo meccanismo, 10 euro finiscono nelle riserve della Banca centrale degli Stati dell’Africa centrale e l’altra metà finisce su un conto corrente gestito dal Ministero del Tesoro francese».
In sostanza, però, la Francia non si “appropria” delle risorse dei Paesi africani: le riserve valutarie depositate nella Banca centrale francese restano comunque un credito delle Banche centrali degli Stati africani in questione nei confronti della Francia.
È corretto parlare di «tassa coloniale»?
Secondo i critici, questo meccanismo sarebbe una vera e propria «tassa coloniale», imposta dalla Francia ai Paesi dell’Africa sub-sahariana. Ma come ha spiegato Lés Décodeurs (la sezione di fact-checking di Le Monde), questa espressione è scorretta e si è diffusa con velocità grazie a un video molto visualizzato nel 2016.
Innanzitutto, una prima fonte di confusione è semantica, ed è nata proprio in Francia. Nel video appena citato – in lingua francese – le espressioni «dépôt » (deposito) e «impôt» (imposta) assomigliano, ma – come abbiamo visto sopra – la questione del deposito non c’entra nulla con l’esistenza di una “tassa”. Questa assonanza ha però aiutato la diffusione della confusione su questo tema.
Inoltre, non spetta alla Francia imporre sanzioni economiche ai Paesi della zona del franco che non rispettano gli impegni presi. Questo è un compito delle due organizzazioni che usano il franco Cfa. Per esempio, gli Stati dell’Uemoa hanno dei criteri di convergenza da rispettare – un po’ come gli Stati membri dell’Ue – e chi sfora certi parametri deve negoziare un programma correttivo con la Commissione dell’unione, che in ultima istanza può portare a sanzioni.
Alcuni hanno però fatto notare, spiega Lés Décodeurs, che sul sito del Tesoro francese sono indicati gli Stati sotto sanzioni da parte della Francia. Tra questi ci sarebbero anche la Guinea-Bissau e il Mali tra i Paesi che usano il franco Cfa, ma queste misure non hanno a che fare con la moneta in oggetto. Sono state infatti stabilite di comune accordo con l’Unione europea o il Consiglio di sicurezza permanente dell’Onu per altri motivi.
Il debito pubblico francese è pagato dai Paesi africani?
Un’altra accusa è che con questo deposito di riserve valutarie la Francia paga una parte degli interessi sul suo debito pubblico, che nel 2017 equivaleva al 98,5 per cento del Pil.
Il ragionamento è il seguente: il Tesoro francese utilizza il denaro presente su questo deposito, convertendoli in titoli sul mercato azionario; una parte del guadagno sarebbe utilizzata per pagare gli interessi sul proprio debito pubblico, mentre un’altra sarebbe restituita sotto forma di rendimento ai Paesi africani.
«Le riserve in euro che garantiscono il franco Cfa non possono che stare in Francia», spiega Terzi. «C’è un conto che il Tesoro mantiene lì a riserva, ma non può usarlo per la spesa pubblica».
In realtà, su questa questione c’è poca chiarezza. Secondo l’articolo di Lés Decodeurs, la Francia non utilizzerebbe questi fondi per altri fini, come operazioni finanziarie per pagare gli interessi sul proprio debito pubblico. Anzi, altri aggiungono che le risorse depositate nel conto della Banca centrale francese sono remunerati a un tasso superiore a quello di mercato, portando guadagni alle due Banche centrali delle comunità che usano il franco Cfa. Altri economisti – come riporta un’inchiesta del 2016 di Mediapart – sostengono però il contrario.
I dati relativi al 2016 ci dicono comunque che questo fondo – che sia infruttifero o meno – ha un valore di circa 10 miliardi di euro, pari a circa lo 0,5 per cento del debito pubblico francese (che supera invece i 2.400 miliardi di euro). Una percentuale molto bassa, dunque, che corrisponde a quella citata da Di Battista in un suo articolo sul Blog delle Stelle.
Tutto questo limita la politica monetaria dei Paesi africani?
Secondo i suoi critici, il franco Cfa – e di conseguenza la Francia – limiterebbero la «sovranità monetaria, fiscale e valutaria» dei Paesi africani coinvolti. Come spiega un articolo dell’Economist del 2018, la questione è complessa e discussa da decenni, e riguarda più in generale i vantaggi e gli svantaggi dell’utilizzare un sistema di cambio a tasso fisso.
Da un lato, c’è chi sostiene che il franco Cfa ha dato stabilità a questa area dell’Africa, evitando ai Paesi coinvolti crisi valutarie, come l’aumento incontrollato dell’inflazione – fatto avvenuto di recente per esempio in Zimbabwe, che ha una sua moneta.
Una ricerca di aprile 2018 pubblicato dal Fondo monetario internazionale (scaricabile qui) mostra (Tabella 3, pagina 23) che i Paesi dell’Africa sub-sahariana che usano il franco Cfa hanno effettivamente avuto livelli di inflazione molto più bassi rispetto a Paesi della stessa zona che non hanno il Cfa. Gli stessi dati però mostrano che gli Stati del Cemac, soprattutto per quanto riguarda la crescita del Pil, hanno dati macroeconomici non incoraggianti negli ultimi anni.
Lo stesso quadro viene presentato da un report del 2013 commissionato dal Ministero del Tesoro francese, che ha sintetizzato la propria posizione scrivendo che la Francia e il franco Cfa sono «un forte supporto all’integrazione regionale africana».
Dall’altro lato, però, ci sono pro e contro di un regime a cambio fisso su importazione ed esportazioni. Come riassume un report del 2012 della Fondazione Jean Jaures (vicina al Partito socialista francese), essere legati a una moneta molto forte come l’euro ha un vantaggio: quello di facilitare le importazioni e i consumi, e uno svantaggio, quello di scoraggiare le esportazioni e la produzione industriale e agricola. In questo modo, l’attività economica di un Paese con valuta forte è necessariamente in competizione con Paesi che hanno una politica opposta – come la Cina – che permette importazioni a buon mercato.
Questa situazione favorisce la Francia, dicono i critici. Grazie alla parità euro-franco Cfa, scrive Mediapart, la Francia «può acquistare materie prime africane (come il petrolio, il legno, l’oro, il cacao e il caffè) senza utilizzare valuta estera». In questo modo le sue aziende possono investire in questa zona, senza rischiare un deprezzamento della valuta.
Discorso simile vale anche per la trasferibilità gratuita per transazioni correnti e movimenti di capitale vista all’inizio. Secondo l’inchiesta del 2016 di Mediapart, questo aspetto favorirebbe soprattutto le multinazionali francesi che operano in Africa. Grazie alla libera circolazione del capitale nell’area, queste società hanno così un vantaggio nel rimpatriare in Europa i profitti fatti in questi Stati.
Inoltre, aggiungono i critici, l’influenza della Francia sulle due comunità con il franco Cfa è molto forte anche negli organi direttivi delle loro banche centrali. Per esempio, come si legge nello statuto della Banca centrale degli Stati dell’Africa centrale (quella del Cemac) all’articolo 29, il Consiglio di amministrazione comprende 14 membri: due per ogni Stato dell’organizzazione e due per la Francia.
I Paesi con il franco Cfa possono svalutare?
Come abbiamo visto, essendo il franco Cfa un sistema di cambio fisso, i singoli Paesi africani che lo usano non possono modificare il tasso di cambio della loro valuta a piacimento.
Secondo i critici di questo sistema, come dice lo stesso Di Battista, questo aspetto impedisce agli Stati della zona del franco di attuare politiche monetarie espansive, attraverso appunto la svalutazione. Detto per inciso: sul punto, il dibattito ricorda, con i dovuti distinguo, quello sul rapporto dell’Italia e degli Stati membri Ue con l’euro e la libertà nella politica monetaria.
Come spiega la Fondazione Jean Jaures (vicina al Partito socialista francese), le due comunità che usano il franco Cfa hanno grandi differenze da un punto di vista macroeconomico.
Quasi tutti gli Stati dell’Africa occidentale che usano il franco Cfa sono in deficit commerciale: importano più di quanto esportano. Viceversa, quasi tutti gli Stati dell’Africa centrale esportano più di quanto importano. Le due realtà hanno cicli economici diversi tra loro, ma lo stesso ancoraggio all’euro, che quando si apprezza influisce quindi sul commercio e l’occupazione dei 14 Paesi coinvolti.
Secondo alcuni, però non è vero che i Paesi in questione non possono svalutare. «Questa è un’altra bugia», spiega Bruni. «Il cambio fisso vuol dire che il cambio dall’oggi al domani tende a essere stabile, però poi si può cambiarlo questo cambio fisso, come si faceva con il Sistema monetario europeo. Alcuni di questi Paesi africani infatti hanno fatto svalutazioni addirittura del 50 per cento in passato».
In questo caso si fa riferimento a un fatto avvenuto nel gennaio del 1994 (quando il ministro del Bilancio era Nicolas Sarkozy). All’epoca, infatti, il franco Cfa fu svalutato della metà del suo valore rispetto al franco francese: 1 franco francese, che prima valeva 50 franchi Cfa, dal 1994 iniziò a valerne 100.
Ma questo, sostiene l’inchiesta di Mediapart, non ha portato alcun vantaggio ai Paesi africani, ed è stata una decisione presa dalla Francia in contrasto con la volontà di molti capi di Stato africani. Anzi, questo provvedimento avrebbe prodotto uno «shock violento», causando il raddoppio del costo delle merci importate. A trarne beneficio sarebbe stata, ancora una volta, la Francia, che vide ridurre il prezzo delle importazioni africane, mentre le sue aziende presenti nella regione aumentarono le loro esportazioni.
A conclusioni simili è giunto anche un rapporto di 38 pagine del 1995, presentato dal Centro analisi e previsioni (Cap) del Ministero degli affari esteri francesi. Il documento spiegava infatti che la ripresa delle finanze pubbliche dei Paesi africani dopo la svalutazione era «più superficiale che reale», con la continua assenza di investitori.
Quali sono le alternative?
In tutto questo, è necessario sottolineare che l’adesione al franco Cfa è volontaria: chi vuole può infatti staccarsi dal sistema, almeno secondo la lettera dei trattati. In passato, Paesi come Marocco, Algeria e Tunisia sono usciti dalla zona del franco, fornendosi di una propria valuta locale.
Il sito di fact-checking africano Africa News ha ricostruito in un’infografica la storia del franco Cfa, caratterizzata da abbandoni e rientri. Per esempio, nel 1962 il Mali decise di uscire dalla zona del franco Cfa, per poi chiedere il reintegro nel 1984.
Questi problemi sono aperti da tempo: nei decenni scorsi, diversi politici africani si sono dichiarati contrari a questo sistema monetario. Per esempio, nel 1984, Thomas Sankara, ex presidente del Burkina Faso ucciso tre anni dopo, aveva detto che «il franco Cfa, legato al sistema monetario francese, è un’arma della dominazione francese».
Ancora vent’anni più tardi, nell’aprile 2010, il presidente del Senegal Abdoulaye Wade aveva dichiarato: «A cinquant’anni dall’independenza, la gestione monetaria deve essere rivista. Se recuperemo il nostro potere monetario, potremo gestirci meglio».
Ma non mancano le voci opposte. Nell’aprile 2016, il presidente della Costa d’Avorio Alassana Outtara ha detto che «il franco Cfa è stato gestito bene dagli africani. Se guardiamo a lungo periodo, ossia gli ultimi 25-30 anni, questa moneta è stata utile alla nostra gente. Forse è il termine “franco Cfa” che infastidisce, ma a quel punto basta cambiarlo».
A novembre 2017, il presidente francese Emmanuel Macron si era detto favorevole a una proposta simile, o addirittura a una eventuale soppressione del franco Cfa sulla base della volontà dei Paesi coinvolti. Ma era stato subito criticato da alcuni economisti di aver proposto una modifica soltanto di “facciata”.
Insomma, la questione del franco Cfa è uno dei tanti temi di un dibattito politico che coinvolge le élite politiche africane e francesi ed è stato spesso usato dai più critici verso la persistente influenza di Parigi in quella parte del mondo. Viceversa, diversi capi di Stato vicini alla Francia non hanno mancato di dare una visione positiva di questo strumento di politica monetaria.
Per il futuro, riformare il sistema è teoricamente possibile. Il problema è che non sono del tutto prevedibili in anticipo le conseguenze di un’uscita dal franco Cfa di tutti e 14 gli Stati oggi coinvolti.
«I paesi africani potrebbero darsi un ordine monetario migliore, perché i cambi fissi hanno pregi e difetti. Ma potrebbero anche cadere in un caos monetario peggiore», sottolinea Terzi. «Come alternativa, si potrebbero introdurre tante monete nazionali quanti sono gli Stati, formare un’unione politica di quegli Stati – come avviene con l’euro –, oppure riformare il franco Cfa introducendo istituzioni che mitighino i vincoli tipici dei sistemi a cambio fisso».
Conclusione
Negli ultimi giorni, alcuni politici hanno accusato la Francia di limitare la sovranità monetaria di alcuni Paesi africani attraverso il franco Cfa, imponendo una «tassa coloniale» con cui si ripaga il proprio debito pubblico. In questo modo, si limiterebbe lo sviluppo economico degli Stati africani coinvolti, incentivando l’immigrazione.
Senza entrare in giudizi sulla bontà o meno del funzionamento del franco Cfa, le dichiarazioni di Di Maio, Di Battista e Meloni sono probabilmente esagerate e in parte fuorvianti, ma hanno un fondo di verità.
Il franco Cfa è basato su un sistema di cambi fissi: come tale ha dei vantaggi e degli svantaggi, e specifici meccanismi di funzionamento.
Per esempio, non è vero che in Francia finisce il 50 per cento dei denari o di tutto quello che esportano Paesi come il Burkina Faso. Questa percentuale indica invece la quantità di riserve valutarie che i 14 Stati coinvolti dal franco Cfa depositano in Francia affinché sia garantita la piena convertibilità del Cfa con l’euro.
È però vero che l’influenza francese su questi Paesi africani è forte e un sistema di cambi fissi in atto da decenni, e con le sue origini nell’epoca coloniale, ne limita la libertà di gestione delle politiche monetarie.