Il 5 giugno, ospite all’evento Il giorno de La Verità, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha difeso il suo annuncio, con cui aveva detto che l’8 e 9 giugno andrà al seggio, ma non ritirerà le schede per i referendum su cittadinanza e lavoro, di fatto astenendosi dal voto. Tra le ragioni a sostegno della sua decisione, Meloni ha dichiarato che i partiti che promuovono i referendum avrebbero potuto cambiare le leggi oggetto dei quesiti quando erano al governo. In questo modo, secondo la presidente del Consiglio, si sarebbe evitato «di chiedere di spendere altri 400 milioni per interrogare gli italiani su qualcosa che il Parlamento poteva fare tranquillamente».

Al di là delle legittime posizioni politiche sui quesiti dell’8 e 9 giugno, abbiamo controllato e la spesa dei referendum citata da Meloni è esagerata.

Nella relazione tecnica che accompagna il decreto “Elezioni”, con cui il governo ha introdotto varie misure per lo svolgimento dei referendum e delle elezioni comunali, è stimato un costo per i soli referendum di circa 88 milioni di euro. Il costo di una sezione elettorale è di poco più di mille euro, considerando i compensi per il presidente, il segretario e i tre scrutatori. Le circa 61.500 sezioni presenti in Italia danno così un costo di 63,4 milioni di euro, a cui si aggiungono i costi dei seggi speciali, allestiti per esempio negli ospedali (meno di 300 mila euro). Vanno poi aggiunti circa 24 milioni di euro per l’invio delle cartoline di avviso di voto agli oltre 5 milioni di italiani all’estero che possono votare ai referendum. Sommando queste voci di spesa, si ottengono gli 88 milioni circa citati in precedenza.

Perché allora Meloni parla di «400 milioni» di costi per le casse dello Stato? Questa cifra non è nuova: era già circolata nel 2022, in occasione dei referendum sulla giustizia, tant’è che all’epoca avevamo scritto un fact-checking sul tema. Quella cifra ha origine da una stima fatta nel 2009 dal sito lavoce.info, in occasione dei referendum abrogativi sulla legge elettorale che si era tenuto quell’anno.

Da un lato, gli autori di quella stima avevano quantificato in circa 200 milioni di euro i costi diretti per organizzare un referendum non accorpato ad altre consultazioni e distribuito su due giornate di voto. Avevano stimato un costo di circa 75 milioni di euro per la gestione dei seggi, a cui si aggiungevano altri 86 milioni – stimati però in modo approssimativo – per le spese legate all’impiego delle forze dell’ordine e di altro personale pubblico. 

Dall’altro lato, a questi costi diretti si sommavano altri 200 milioni di euro di costi definiti “indiretti”, su cui però le valutazioni diventavano più incerte. Secondo gli autori, lo svolgimento di un referendum in due giorni distinti avrebbe comportato, per esempio, una perdita di tempo libero per gli elettori quantificata in 127 milioni di euro. A questi, si aggiungevano 37 milioni di valore stimato per le giornate lavorative perse dai componenti dei seggi, e altri 37 milioni per le spese che alcune famiglie avrebbero dovuto sostenere per servizi come le baby sitter nel lunedì di voto. In sintesi, si trattava di costi indiretti che includevano voci molto diverse tra loro, calcolate sulla base di ipotesi generiche, e quindi con un margine di incertezza piuttosto ampio.

Insomma, i «400 milioni» citati da Meloni si basano su stime datate e in parte speculative, e non riflettono i costi effettivi sostenuti dallo Stato per i referendum dell’8 e 9 giugno.