Negli ultimi anni alcuni Paesi nel mondo – tra cui il Canada e alcuni Stati americani – hanno legalizzato, con forme diverse, la cannabis per uso ricreativo. C’è poi chi si appresta a farlo, come il Messico, dove manca solo un voto in Parlamento per approvare una legge in questa direzione.
In Italia, come abbiamo spiegato in passato, si è spesso dibattuto negli ultimi anni sulla vendita della cosiddetta “cannabis light”, con parecchia disinformazione sul tema (no, quel tipo di cannabis non è droga).
Di recente, il deputato di +Europa Riccardo Magi ha citato l’esempio del Messico, elencando su Facebook quelli che, secondo lui, sarebbero i benefici per l’Italia derivanti dalla legalizzazione della cannabis. «Legalizzare creerebbe fino a 350 mila nuovi posti di lavoro», ha scritto Magi l’11 marzo.
Questo dato non è nuovo, anzi: da tempo viene spesso citato dai promotori della legalizzazione della cannabis. Si veda per esempio la campagna di raccolta firme Meglio legale e alcune dichiarazioni di altri politici, come quelle di Alessandro Di Battista, ex Movimento 5 stelle. Il dato è comparso anche in una lettera inviata a giugno 2020 da oltre 100 parlamentari all’allora presidente Giuseppe Conte, per promuovere la legalizzazione della cannabis.
Quanto è attendibile questa cifra? Abbiamo verificato e la stima dei «350 mila» posti di lavoro sembra essere frutto di un errore di calcolo. In breve: c’è uno zero in più. Altri numeri mostrano poi che un aumento degli occupati così elevato sembra essere implausibile.
Naturalmente la verifica dei numeri sui benefici per l’occupazione non entra nel merito della bontà o meno della legalizzazione, che ha molti altri argomenti e su cui è legittimo avere le proprie opinioni.
Ma torniamo ai numeri e procediamo con ordine.
Qual è la fonte del dato
La stima dei «350 mila» nuovi posti di lavoro creati grazie alla legalizzazione proviene da Marco Rossi, ricercatore di economia politica all’Università Sapienza di Roma.
In una pubblicazione del 2018, Rossi scrive che i 350 mila occupati sarebbero così suddivisi: 55-75 mila sarebbero impiegati nella produzione della cannabis, mentre quasi 300 mila addetti sarebbero operativi in 60 mila coffee-shop, se si seguisse il modello adottato nei Paesi Bassi. Dietro queste statistiche ci sono una serie di assunzioni, ma anche, secondo quanto abbiamo potuto verificare, un errore di calcolo.
Quanti posti di lavoro nei coffee-shop
Partiamo dal dato sulla distribuzione e commercializzazione della cannabis.
I conti fatti da Rossi sono contenuti in una ricerca, pubblicata nel 2013 dalla Rivista di politica economica, edita da Confindustria. Il testo di questo studio non è consultabile online, ma l’autore ne ha inviato una copia a Pagella Politica, permettendo così di analizzare la stima più nel dettaglio.
Nel 2010 nei Paesi Bassi c’erano circa 700 coffee-shop (cifra che sembra essere calata negli anni successivi), con circa 3.400 mila dipendenti: quasi 5 dipendenti a coffee-shop. Secondo le stime di Rossi, nei Paesi Bassi c’erano inoltre circa 900 mila consumatori di cannabis, dunque «in media un coffee-shop ogni 125 consumatori» (qui sta l’errore, ci arriviamo tra poco).
Per calare questi dati nella realtà italiana entrano in gioco due assunzioni. La prima: che nel 2008 la legalizzazione in Italia avrebbe portato il numero di consumatori a circa 7,8 milioni. La seconda: che con l’apertura di coffee-shop nel nostro Paese il rapporto tra dipendenti dei coffee-shop e consumatori sarebbe stato simile a quello nei Paesi Bassi. Sulla base dei dati visti prima e di queste due assunzioni, la ricerca conclude che si avrebbero circa 300 mila occupati, ossia 5 addetti per 60 mila coffee-shop.
In questo calcolo c’è però un errore. Nel 2010 nei Paesi Bassi c’erano oltre 1.250 consumatori per ogni coffee-shop, non «125». Sembra che nel conto si sia perso uno zero. Dunque le stime per l’Italia andrebbero ridotte a circa 30 mila possibili nuovi posti di lavoro creati in 6 mila coffee-shop.
Al di là del calcolo, un confronto con i numeri di altre attività commerciali sembra confermare che la stima di 60 mila coffee-shop sia poco realistica. Secondo stime di settore, infatti, in Italia ci sono circa 150 mila bar e circa 50 mila tabaccherie, che hanno una clientela potenziale più ampia di quella dei coffee-shop. Inoltre, le ricadute sull’occupazione sarebbero ben più ridotte se, per esempio, anche questi esercizi commerciali potessero vendere la cannabis. Eventualità sottolineata dallo stesso Rossi, nel caso in cui la cannabis fosse venduta in modo simile alle sigarette nelle tabaccherie.
Ricordiamo poi che molto dipende da qual è la stima sui consumatori di cannabis e la loro abitudinarietà. Secondo Rossi – che cita stime delle Nazioni unite – nel 2008 oltre il 14 per cento della popolazione italiana tra i 15 e i 64 anni (all’epoca circa 5,8 milioni) aveva consumato almeno una volta cannabis in quell’anno. Si ipotizza che con la legalizzazione questa cifra sarebbe cresciuta di un terzo, come abbiamo visto prima, sulla base dell’esperienza olandese – raggiungendo i 7,8 milioni.
Anche in questo caso ci sono ampi margini di incertezza. In base alle stime più recenti, provenienti dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda), nel nostro Paese circa il 10 per cento della popolazione tra i 15 e i 64 anni, ossia oltre 4 milioni di persone, dice di aver fatto consumo di cannabis almeno una volta all’anno (dato in linea con le stime Onu del 2020). Dunque sembra esserci stato un calo, e in ogni caso non stiamo parlando di consumo abituale, ma di almeno una volta all’anno.
Quanti occupati nella produzione
Veniamo adesso ai «55-75 mila» posti di lavoro che si creerebbero nel settore della produzione della cannabis. Come spiega Rossi, questi dati si basano in primo luogo su una doppia premessa: che la legalizzazione faccia scomparire l’autocoltivazione e che faccia emergere tutti gli scambi tra i consumatori di cannabis.
Come punto di partenza, viene citato uno studio del 2010, con alcune stime – molto varie e con ampi margini di incertezza – sui costi della produzione della cannabis legalizzata in California, il cui clima e morfologia sono «assai» simili, secondo Rossi, a quelle dell’Italia.
In California, «nell’ipotesi di elevata meccanizzazione del processo produttivo», oltre dieci anni fa si stimava servissero circa 100 ore per produrre un chilogrammo di cannabis. Se si prende per valida la stima di circa 1.500 tonnellate di cannabis consumate in Italia nel 2008 grazie alla legalizzazione, si ottengono circa 150 milioni di ore lavoro. Assumendo che un occupato del settore lavori 2.000 ore l’anno, scrive Rossi, si ottengono i 75 mila impiegati nella produzione della cannabis (i 55 mila sono calcolati su uno scenario di aumento dei consumi più limitato).
Per avere un ordine di grandezza sulla plausibilità di questa cifra, in base ai dati Istat più aggiornati, 75 mila occupati equivarrebbero a circa l’8 per cento dei quasi 950 mila occupati in Italia nel settore “agricoltura, silvicoltura e pesca”.
Sottolineiamo poi che dalla stima dei «350 mila» nuovi posti di lavoro, i favorevoli alla legalizzazione della cannabis calcolano altri benefici, per le tasse versate alle casse dello Stato dagli impiegati. Ma qui i numeri, come abbiamo visto, prendono piede da un calcolo sbagliato e dunque vanno presi con molta cautela.
In conclusione
Da tempo diversi politici ripetono che la legalizzazione della cannabis creerebbe circa 350 mila posti di lavoro: quasi 300 mila nella distribuzione nei coffee-shop e oltre 50 mila nella produzione. Dietro a questa cifra però ci sono una serie di assunzioni – dunque con un certo grado di incertezza – ma soprattutto un errore di calcolo che influisce molto sul risultato. Il dato corretto sui posti nella distribuzione sarebbe di oltre 30 mila posti di lavoro, con uno zero in meno dunque.
Questo non significa che la legalizzazione della cannabis non possa avere tra i suoi benefici la creazione di posti di lavoro, come mostrano esempi in giro per il mondo, e il conseguente aumento degli introiti per le casse dello Stato.
Il dato sui 350 mila occupati in Italia, però, non sta in piedi.
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