Giovedì 23 giugno gli elettori britannici saranno chiamati a decidere sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea con un referendum. È una questione che monopolizza da settimane il dibattito politico britannico e che trova spazio anche sui media nostrani, viste le conseguenze politiche imprevedibili che la consultazione avrà sul futuro dell’Europa.
Il testo del quesito referendario è: “Il Regno Unito deve rimanere un membro dell’Unione Europea o lasciare l’Unione Europea?” (Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?), a cui si può rispondere “Rimanere un membro dell’Unione Europea” (Remain a member of the European Union) o “Lasciare l’Unione Europea” (Leave the European Union).
Gli schieramenti sono quindi divisi tra i sostenitori del “Leave” e quelli del “Remain”. Abbiamo raccolto dieci numeri per orientarsi nella questione e nel dibattito britannico, aiutandoci con il lavoro fatto in questi mesi dai nostri colleghi fact-checkers britannici di Full Fact.
4.300 sterline
È il costo che avrebbe l’uscita dall’UE per le famiglie britanniche, uno dei numeri più citati dal fronte del “Remain”. La stima di 4.300 sterline deriva da un rapporto del Tesoro britannico dell’aprile 2016. Nello scenario “centrale”, il Tesoro prevede che, a 15 anni di distanza dall’uscita, il costo sarebbe appunto di 4.300 sterline per famiglia. Full Fact ha analizzato il rapporto e ha sottolineato i punti problematici nella stima: le sue premesse sono che il Regno Unito negozierebbe un accordo bilaterale con l’UE simile a quello del Canada, che prevede maggiore libertà di movimento per le merci rispetto ai servizi – ma non è detto che questo sia il futuro dei rapporti commerciali UK-UE. Inoltre, le 4.300 sterline sono il risultato della semplice divisione della diminuzione del Pil – stimata nel 6,2 per cento nel 2030 – per il numero dei nuclei familiari britannici. Tuttavia, l’impatto su famiglie di livelli di redditi differenti sarebbe di sicuro diverso. In conclusione: molti studi sono d’accordo sul fatto che lasciare l’UE danneggerebbe l’economia britannica, ma i numeri esatti sono assai difficili da quantificare e fornire una stima così precisa rischia di essere fuorviante.
89%
Sono le imprese che sarebbero a favore della permanenza britannica, secondo i sostenitori del “Remain”. E’ però il caso di aggiungere che il sondaggio che viene citato per sostenere questa cifra non considera nessuna impresa del Regno Unito: raccoglie le opinioni dei membri di 38 Camere di commercio nazionali in Paesi che vanno da Israele all’Ucraina. L’unione delle Camere di Commercio britanniche ha effettuato un sondaggio a poche settimane dal voto da cui emerge che il 54% delle imprese aderenti è a favore della permanenza, contro un 37 per cento per l’abbandono.
184.000
È la migrazione netta di cittadini comunitari nel Regno Unito nel 2015. I cittadini UE sono stati circa la metà del saldo migratorio netto, che è stato di circa 330.000 persone, secondo l’ente statistico britannico. Uno dei temi più discussi nel dibattito referendario riguarda l’impatto dell’immigrazione sulle finanze pubbliche, sui servizi sociali e sul mercato del lavoro: si tratta di questioni molto complesse e su cui generalmente non c’è una risposta univoca anche da parte degli studiosi, come scrive Full Fact: per chi volesse approfondire, rimandiamo al loro prospetto riassuntivo.
1,30
È il cambio sterlina/euro al 22 giugno 2016, in calo da circa 1,40 sterline per euro a settembre 2015. La campagna per il referendum è tra i fattori – anche se non l’unico – che spiegano questo indebolimento.
350 milioni di sterline
È una cifra che viene citata spesso dai sostenitori del “Leave”: tanti sarebbero i soldi che, ogni settimana, il Regno Unito deve pagare per far parte dell’Europa. Anche in questo caso, si tratta di un numero fuorviante: il calcolo di Vote Leave non considera il cosiddetto rebate, cioè l’ammontare che l’UE ripaga ogni anno al Regno Unito in un meccanismo negoziato da Margaret Thatcher negli anni ’80, proprio per ridurre lo squilibrio tra contributo versato alle casse comunitarie e risorse ricevute. Nel 2015, esso ha permesso al Paese di riottenere 4,8 miliardi di sterline.
44%
Sono le esportazioni di beni e servizi britannici verso gli altri Paesi dell’UE. La campagna per il “Remain” dice che “quasi metà di tutto quello che vendiamo al resto del mondo lo vendiamo all’Europa”, intendendo l’Unione Europea. Full Fact ha sottolineato che la percentuale esatta dei beni e dei servizi esportati dal Regno Unito nei Paesi dell’Unione Europea è del 44,4%, che sale al 55 per cento se si considera tutto il continente.
520
È il numero di funzionari della Commissione Europea che vengono dal Regno Unito, secondo le cifre del febbraio 2016. Il 3,8% del totale, una percentuale superata da Italia (12,5%), Francia (10,2%) e Belgio (17,8%), ma persino dalla Romania (4,3%). In rapporto alla popolazione, il Regno Unito è molto sottorappresentato, se si tiene conto che il 12,76% dei cittadini dell’Unione sono di nazionalità britannica. Uno dei motivi principali della scarsa presenza dei britannici nelle istituzioni comunitarie ha probabilmente a che fare con la lingua, come ha sottolineato un rapporto della Camera dei Comuni: solo il 6% degli studenti della scuola secondaria nel Regno Unito studia una seconda lingua, contro il 60% della media europea. Per accedere alle istituzioni europee, la conoscenza di un’altra lingua è uno dei requisiti necessari.
50
L’articolo 50 del Trattato di Lisbona è quello che regola l’eventualità che un Paese voglia lasciare l’Unione. Il trattato prevede che la Commissione Europea negozi le condizioni di uscita in un accordo con il Paese interessato e che i trattati europei smettano di avere valore per quel Paese quando l’accordo entra in vigore. Se la Commissione e il membro uscente non riescono a mettersi d’accordo, i trattati cessano di essere validi a due anni dalla notifica dell’intenzione di ritirarsi. Se questa è la lettera del Trattato di Lisbona, il governo britannico prende in considerazione “dieci anni di incertezza” mentre verranno svolti i negoziati per questa eventualità senza precedenti nella storia dell’Unione.
1975
È l’anno in cui si è tenuto il precedente referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea. Oltre quarant’anni fa, il governo laburista di Harold Wilson indisse una consultazione referendaria sulla permanenza nella Comunità Economica Europea. Fu il primo referendum nazionale britannico e gli schieramenti politici, allora come oggi, erano divisi: Margaret Thatcher era nettamente a favore della permanenza nella CEE, mentre i laburisti erano divisi. Il 5 giugno 1975, il “sì” alla permanenza vinse con un netto 67,2%. Sul sito di commenti e analisi The Conversation, Roger Mortimore, professore e dirigente della società di sondaggi Ipsos Mori, ha ripercorso quarant’anni di sondaggi sull’adesione del Regno Unito alla comunità europea.
60%
Sono le leggi britanniche che sarebbero influenzate dalla legislazione europea. Uno degli argomenti più citati dai favorevoli alla Brexit, infatti, è che una parte sostanziosa della legislazione britannica è influenzata o direttamente imposta da Bruxelles. Boris Johnson, tra gli altri, è arrivato a dire che l’UE influenza il 60% delle leggi che passano da Westminster. Full Fact ha passato in rassegna diverse stime in proposito – che vanno da meno del 10 al 70 per cento – e ha concluso che se alcune posso essere in qualche modo giustificabili (perché è molto difficile definire con certezza che cosa si intenda per “leggi”), le previsioni più alte, come quella del 60%, sono certamente esagerate.
Per concludere, vi proponiamo il segmento che il comico John Oliver – di origini britanniche – ha dedicato al tema nel suo show sulla TV statunitense Hbo, Last Week Tonight. Dura circa un quarto d’ora, è in inglese, ma ne vale la pena.