Aggiornamento 10 novembre, ore 9:30 – Nella serata del 9 novembre, il Ministero della Salute ha pubblicato la sintesi del monitoraggio relativo alla settimana 26 ottobre-1 novembre. Il Ministero ha anche reso pubblici i dati sui 21 indicatori delle varie regioni, ma ancora una volta in un formato che non permette una facile rielaborazione da parte di esperti e osservatori indipendenti.
L’8 novembre, ospite a Mezz’ora in più su Rai3, il ministro della Salute Roberto Speranza ha difeso (min. -1:00:45) la scelta del governo di dividere le regioni italiane in base a tre livelli di criticità dell’epidemia di coronavirus (area rossa, gialla e arancione).
In particolare, Speranza ha respinto – a torto, come vedremo – le accuse di scarsa trasparenza sui dati dell’epidemia e sugli indicatori utilizzati dall’esecutivo per introdurre misure più restrittive. Alla domanda della conduttrice Lucia Annunziata, che chiedeva: «Perché non date i dati? Quali dati vi vengono richiesti che non state fornendo?», il ministro ha risposto: «I nostri dati sono pubblici».
Le cose però non stanno così: soltanto una parte dei dati sul monitoraggio dell’epidemia è pubblicamente consultabile, tra l’altro in ritardo e in un formato poco agevole per essere rielaborato da osservatori indipendenti.
Da mesi la scarsa trasparenza sui dati dell’epidemia è uno degli elementi più dibattuti dai giornalisti, scienziati ed esperti che vogliono vederci più chiaro sulle decisioni di chi governa il Paese. In generale la richiesta alle autorità è quella di rendere liberamente accessibili e davvero pubblici tutti i numeri in loro possesso.
– Leggi anche: Davvero il governo usa dati vecchi per chiudere le regioni?
Le tre aree e il sistema di monitoraggio
Come abbiamo spiegato di recente, il governo ha deciso di istituire tre aree di criticità nel Paese sulla base di due documenti.
Il primo è il report “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale”, che è stato pubblicato il 12 ottobre. Il secondo è un decreto del Ministero della Salute di fine aprile scorso, che ha individuato 21 indicatori per monitorare l’andamento dell’epidemia nel Paese, e il suo eventuale peggioramento.
Secondo il Dpcm del 3 novembre, una regione è considerata “area rossa” – ossia quella con le restrizioni maggiori – se si registrano contemporaneamente due condizioni.
Il primo fattore è quello di trovarsi in uno “scenario di tipo 4”, che in base al rapporto “Prevenzione e risposta Covid-19” si verifica quando il valore dell’indice Rt (qui una spiegazione dettagliata) è più alto di 1,5. Questo è segno che il contagio non è controllato e ci sono criticità nella tenuta del sistema sanitario nel breve periodo.
Oltre a uno “scenario di tipo 4”, per finire in area rossa una regione deve anche essere considerata a rischio “alto” o “molto alto” sulla base dei 21 indicatori di monitoraggio, analizzati settimanalmente da maggio scorso dalle autorità italiane. Questi indicatori sono divisi in tre ambiti (qui la lista completa) e vanno dai dati suoi nuovi focolai a quelli sui posti letto disponibili, passando per la capacità regionale di tracciamento dei casi confermati.
Sulla base di questi indicatori, che hanno una serie di valori di allerta, viene poi calcolato un valore di rischio per ogni regione. Con l’arrivo della seconda ondata, questi numeri – utilizzati ormai da diversi mesi – sono saliti al centro della scena.
Come hanno sottolineato in molti però – tra cui Il Sole 24 Ore, Domani e Wired– c’è ancora poca chiarezza su quali siano i calcoli effettivi alla base di queste valutazioni, che vengono fatti da una cabina di regia del Ministero della Salute (che al suo interno ha anche rappresentanti delle regioni).
Ma ancor prima dell’opacità del procedimento di valutazione, uno dei problemi principali di questo sistema riguarda i dati con cui viene “alimentato”, su cui c’è davvero poca trasparenza, al contrario di quanto rivendicato da Speranza.
La scarsa trasparenza sui dati
Innanzitutto, va sottolineato che da maggio il Ministero della Salute elabora un monitoraggio settimanale con i numeri degli indicatori visti in precedenza, che però non è pubblicamente consultabile (non va infatti confuso con i bollettini giornalieri della Protezione civile o con i report del Sistema di sorveglianza integrata dell’Istituto superiore di sanità).
Come abbiamo scritto già a inizio settembre – quando già c’erano i primi segnali di un arrivo della seconda ondata – questo rapporto è riservato e a uso interno, anche se in alcune occasioni il sito di settore Quotidiano sanità è riuscito a entrarne in possesso, rendendolo liberamente consultabile online.
Dunque non è possibile sapere con precisione quale sia stato l’andamento degli indicatori tra l’estate e l’inizio dell’autunno, informazione che permetterebbe di contestualizzare meglio quanto sta accadendo di recente nelle ultime settimane.
Negli ultimi mesi il Ministero della Salute ha pubblicato ogni venerdì sul suo sito soltanto i punti principali del monitoraggio, con le statistiche più rilevanti del rapporto, ma senza quelle relative a tutti i singoli 21 indicatori, divise per regioni. Di norma sono stati presentati i dati regionali sull’indice Rt (per esempio qui i dati relativi al 18-25 ottobre) e alcuni dati sui casi diagnosticati.
Le ultime statistiche chiave pubblicate dal Ministero della Salute sono uscite il 30 ottobre e sono relative alla settimana tra il 18 e il 25 ottobre. Questi sono solo una parte dei numeri con cui il governo ha deciso di intervenire e istituire le tre diverse aree di criticità attraverso il Dpcm del 3 novembre. A quella data quindi non erano pubblici tutti i valori regionali dei 21 indicatori.
Il 5 novembre il presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss) Silvio Brusaferro e il direttore generale della Prevenzione del Ministero della Salute Gianni Rezza hanno poi tenuto una conferenza stampa in cui hanno spiegato più nel dettaglio qual è stato il procedimento che ha guidato le scelte degli esperti e dell’esecutivo.
Lo stesso giorno il Ministero della Salute ha pubblicato sul suo sito un file Pdf in cui sono contenuti i valori dei 21 indicatori, relativi alla settimana 18-25 ottobre, per tutte le regioni italiane (non stiamo parlando del monitoraggio settimanale completo, ma solo dei dati degli indicatori).
Questa prima apertura alla trasparenza, però, ha diversi limiti. Il primo riguarda il formato dei dati: non sono scaricabili e dunque non di facile elaborazione (quella che invece deve essere una delle caratteristiche principe degli open data, ossia dati realmente “pubblici”).
Il secondo limite, di carattere generale, riguarda la loro completezza. Come sottolinea lo stesso documento del Ministero della Salute, per diverse regioni sembrano mancare dati affidabili per valutare con precisione la criticità dell’epidemia. Questo può dipendere non solo da una scarsa trasparenza delle regioni – su cui, secondo fonti stampa, sarebbero nate addirittura le prime indagini della magistratura – ma anche dall’effettiva incapacità di raccogliere i dati con precisione da parte delle autorità.
Un terzo elemento di preoccupazione, relativo al tema della trasparenza, riguarda poi gli aggiornamenti delle ultime ore. Venerdì scorso, ossia il 6 novembre (due giorni prima dell’intervento di Speranza a Mezz’ora in più) il Ministero della Salute non ha pubblicato l’aggiornamento settimanale con i dati più significativi del monitoraggio. Alle ore 14 del 9 novembre, quelli più aggiornati, dunque, restano relativi a oltre due settimane fa.
Una minore comunicazione di dati ha iniziato a coinvolgere anche altri dicasteri. Per esempio, a fine ottobre il Ministero dell’Istruzione ha annunciato che continuerà a comunicare all’Iss i – seppure molto parziali – dati sui contagi nelle scuole. Ma contestualmente non sono più stati resi pubblici sul sito del ministero, come avveniva prima.
Una richiesta per maggiore trasparenza
La scarsa trasparenza delle istituzioni e la mancanza di dati affidabili per valutare pubblicamente l’epidemia non sono una novità degli ultimi giorni. Già in passato, noi di Pagella Politica, insieme a molti altri, abbiamo evidenziato la difficoltà di analizzare gli aspetti quantitativi dell’emergenza sulla base di statistiche pubbliche e complete. Negli ultimi giorni, però, sono arrivate alcune novità.
Il 6 novembre diverse associazioni che si occupano di open data – ossia dati liberamente accessibili a tutti – e trasparenza (tra cui c’è anche Pagella Politica) hanno promosso la campagna “Dati bene comune” per chiedere al governo «dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili a ricercatori, decisori, media e cittadini».
«Il nuovo sistema di classificazione del territorio nazionale in tre aree di rischio rappresenta, in questo senso, un’opportunità, perché comporta un sofisticato sistema di monitoraggio nazionale e quindi genererà, si presume, molti dati di qualità», si legge nel messaggio dei promotori.
Lo stesso ministro Speranza, ospite a Mezz’ora in più, ha sottolineato (min. -1:00:40) che nell’ultimo Consiglio dei ministri il governo ha approvato una norma per rendere più trasparente la divulgazione dei dati sul monitoraggio. Nel comunicato stampa di Palazzo Chigi con le novità del nuovo decreto “Ristori bis”, si legge in effetti che «sono rafforzati gli obblighi di pubblicità e trasparenza in relazione al monitoraggio e all’elaborazione dei dati epidemiologici rilevanti per la classificazione delle aree del Paese» stabilite dal Dpcm del 3 novembre.
Bisognerà vedere nei prossimi giorni come si tradurrà in concreto quella che per ora rimane una dichiarazione di intenti.
Il verdetto
Ospite a Mezz’ora in più, il ministro della Salute Roberto Speranza ha dichiarato che i dati usati dal governo per dividere l’Italia in tre aree di criticità sono «pubblici», rigettando le accuse di scarsa trasparenza arrivate al suo esecutivo. In realtà le cose non stanno così.
Da mesi il Ministero della Salute elabora un monitoraggio su 21 indicatori, che oggi stanno in parte alla base della classificazione delle regioni in area rossa, gialla e arancione, ma questo rapporto non è mai stato reso pubblico dalle istituzioni. Così come i dati contenuti al suo interno.
Al momento della pubblicazione del Dpcm del 3 novembre, i numeri del monitoraggio non erano pubblicamente consultabili. Due giorni dopo, il 5 novembre il Ministero ha pubblicato un Pdf con i dati dei diversi indicatori, ma questi hanno diversi limiti. Oltre a non essere del tutto completi, per esempio, non sono in un formato utile per essere rielaborati.
In seguito, non è stato nemmeno pubblicato il riassunto con le statistiche chiave del nuovo monitoraggio settimanale, atteso per il 6 novembre: i dati più aggiornati, dunque, arrivano solo al 25 ottobre.
Il governo, con il decreto “Ristori bis”, ha promesso maggiore trasparenza, e diverse organizzazioni hanno firmato una campagna per far sì che finalmente, dopo mesi di emergenza, i dati regionali del monitoraggio dell’epidemia siano resi davvero pubblici.
In conclusione, Speranza si merita un “Pinocchio andante”.
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7 dicembre 2024
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