Viola Carofalo, portavoce del movimento di sinistra Potere al popolo, ha citato diversi dati che a suo parere descrivono bene il problema delle carceri italiane. In particolare, Carofalo ha spiegato che «la nostra idea è che il carcere debba avere come scopo il reinserimento sociale, oggi il carcere non serve a quello, ma serve come discarica sociale per i poveretti, e basta farsi un giro in carcere per capirlo».
A supporto della propria tesi, la portavoce di Potere al popolo sottolinea che in Italia «registriamo tassi di recidività del 68 per cento» e inoltre «il 90 per cento degli addetti carcerari sono addetti penitenziari, mentre nel resto d’Europa le proporzioni sono molto diverse e c’è spazio per mediatori culturali, assistenti sociali, psicologi, formatori».
In ultimo, ricorda che «oggi solo il 3 o 4 per cento delle persone che sono in carcere seguono un percorso di formazione» e «il restante 96-97 per cento si ritroverà in condizioni peggiori di quelle di partenza, perché oltre alle sue difficoltà di partenza si somma il fatto di essere stato escluso dalla società civile per tanto tempo».
Vediamo se i dati riportati da Carofalo sono corretti.
La recidiva
La “recidiva” avviene quando una persona già condannata in passato e poi uscita dal carcere commette un nuovo reato. Carofalo sostiene che il tasso di recidiva in Italia sia pari al 68 per cento, ossia 68 persone già condannate in passato su cento, una volta scarcerate, tornano a commettere un reato. Un ovvio problema di questa statistica consiste nel fatto che, per poter essere registrato, il recidivo deve anche essere nuovamente scoperto, processato e giudicato colpevole.
In realtà, sulla recidiva in Italia ci sono molti pochi numeri, e nessuno recente. Nel 2012 era stato annunciato dal Ministero della Giustizia l’avvio di una ricerca per avere dati ufficiali e aggiornati sul fenomeno, ma a oggi non se ne è più avuta notizia.
Un dato che viene citato spesso è appunto quello del 68 per cento. Si ritrova ad esempio nel più recente rapporto annuale sulla situazione nelle carceri italiane dell’associazione Antigone, una delle più importanti e stimate nel settore, ed è stato citato anche dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino nel 2012, nonché definito nel 2015, in un editoriale su Avvenire, come “i dati ufficiali sulla recidiva”.
Quel dato in realtà è riportato in uno studio del 2007 pubblicato sulla Rassegna penitenziaria e criminologica e firmato da Fabrizio Leonardi, allora direttore dell’Osservatorio delle misure alternative del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) all’interno del Ministero della Giustizia.
Leonardi, a sua volta, citava una statistica raccolta dal DAP e riferita agli scarcerati nel 1998: quell’anno erano stati scarcerati 5.772 condannati, e di questi 3.951, appunto il 68,45%, erano successivamente tornati in carcere. Nello stesso studio, si effettuava una stima della recidiva tra coloro avessero scontato una pena alternativa al carcere: utilizzando dati sulle scarcerazioni del 1998, si rilevava una percentuale di recidiva del 19 per cento.
Fonte: F. Leonardi, Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, «Rassegna penitenziaria e criminologica», 2007, II, p. 23.
Carofalo ha quindi ragione, in base ai dati disponibili, quando sostiene che in Italia “registriamo tassi di recidività del 68 per cento”. Ma bisogna sottolineare che sono dati molto datati e riferiti a un solo anno. Mancano indagini più recenti.*
Gli addetti al carcere
La seconda affermazione da verificare è che “il 90 per cento degli addetti carcerari sono addetti penitenziari, mentre nel resto d’Europa le proporzioni sono molto diverse e c’è spazio per mediatori culturali, assistenti sociali, psicologi, formatori”.
In questo caso ci si può riferire al rapporto di Antigone, in particolare per quanto riguarda il capitolo su chi lavora in carcere. Secondo l’associazione l’89,63 per cento di chi opera in carcere appartiene alle forze di polizia penitenziaria, mentre per esempio gli educatori sono “solo il 2,17 per cento”.
Il rapporto rimanda ai dati forniti a livello europeo dal Council of Europe, nelle sue Annual Penal Statistics. Il CoE ha pubblicato il suo report più recente nel marzo 2017, con dati riferiti al 2015. È diviso in due parti, la prima sulla popolazione carceraria e la seconda sui condannati che scontano pene alternative al carcere.
Nel capitolo dedicato al personale che lavora nelle carceri (“staff working inside penal institutions”) si legge che in Italia nel 2015 lavoravano 39.207 addetti cacerari, il 90,1 per cento dei quali è “custodial staff”. La media degli Stati che compongono il Consiglio d’Europa – 47 Paesi, da non confondersi con l’UE – è invece del 68,6 per cento, quindi sensibilmente più bassa, come effettivamente sostiene Carofalo.
L’Italia è inoltre il terzo Paese europeo con maggior numero di guardie penitenziarie in rapporto al totale di chi lavora in carcere, dopo Cipro (96,9 per cento) e il Lichtenstein (93,8 per cento). Il Paese con meno addetti penitenziari rispetto al personale è la Slovacchia (18,7 per cento).
Per quanto riguarda invece la percentuale di altre professioni all’interno del carcere, si può notare che la media europea è del 4,3 per cento per medici e infermieri (0,2 in Italia), del 2,2 per cento per assistenti sociali e psicologi (0,1 in Italia), del 3,5 per cento per educatori (2,2 in Italia), del 4,8 per cento per i formatori (zero per cento in Italia) e infine del 15,2 per cento per altre tipologie professionali (6,9 in Italia).
Carofalo ha quindi ragione anche quando dice che “nel resto d’Europa le proporzioni sono molto diverse e c’è spazio per mediatori culturali, assistenti sociali, psicologi, formatori”.
La formazione
L’ultima affermazione da verificare è che “oggi solo il 3 o 4 per cento delle persone che sono in carcere seguono un percorso di formazione” e “il restante 96-97 per cento si ritroverà in condizioni peggiori di quelle di partenza, perché oltre alle sue difficoltà di partenza si somma il fatto di essere stato escluso dalla società civile per tanto tempo”.
Nell’articolo 27 della Costituzione è scritto che “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Che attività di formazione e supporto socio-educativo siano fondamentali per ridurre la recidiva è peraltro ritenuto fondamentale dallo stesso governo: nella Nota integrativa alla Legge di Bilancio 2017 è precisato che “attività finalizzate alla riduzione della recidiva e realizzazione di politiche attive di reinserimento e di diffusione della cultura della legalità” siano un obiettivo strategico per quanto riguarda sia i minori in carcere sia chi stia scontando una pena esterna al carcere.
Gli ultimi dati relativi alla formazione in carcere li fornisce il Dap, e sono riferiti al secondo semestre del 2017. I detenuti che al 31 dicembre 2017 frequentavano corsi di formazione professionale erano il 3,79 per cento (2.184 persone su 57.608 presenti nelle carceri italiane), in crescita rispetto al 2,49 per cento dell’anno prima ma in netto calo rispetto a dieci anni prima (5,75 per cento nel 2007) o venti anni prima (6,98 per cento nel 1997).
Ha quindi ragione Carofalo quando sostiene che “oggi solo il 3 o 4 per cento delle persone che sono in carcere seguono un percorso di formazione”, se si riferisce alla formazione professionale.
Sarebbe però più corretto considerare “percorso di formazione” anche quello scolastico, soprattutto se si pensa che, dei detenuti presenti nelle carceri italiane (58.087 al 31 gennaio 2018), circa un terzo sono di origine straniera (19.818), e dunque potrebbero avere un livello di conoscenza dell’italiano non sufficiente, ad esempio, a sostenere corsi di formazione. Non è un caso che nell’anno 2016/2017 erano 5.719 i detenuti che frequentavano corsi di “alfabetizzazione e apprendimento dell’italiano”, secondo i dati forniti dal Dap.
Nello stesso anno scolastico, erano stati in totale 18.236 i detenuti che avevano seguito un percorso scolastico, mentre nel 2016 altri 200 detenuti avevano seguito corsi universitari. Inoltre bisogna aggiungere che il 31,95 per cento dei detenuti (pari a 18.404 persone) svolge attività lavorative.
Purtroppo non è possibile scorporare questi dati per sapere quanti detenuti effettivamente stiano seguendo percorsi di formazione lavorativa, scolastica e universitaria o stiano lavorando senza sovrapposizioni (è infatti possibile che una persona segua un corso scolastico e al contempo svolga un lavoro part-time in carcere), ma sicuramente siamo almeno nell’ordine di un terzo dei presenti nelle carceri italiane.
Non sembra dunque corretto sostenere, come fa Carofalo, che “il restante 96-97 per cento si ritroverà in condizioni peggiori di quelle di partenza, perché oltre alle sue difficoltà di partenza si somma il fatto di essere stato escluso dalla società civile per tanto tempo”.
Il verdetto
Viola Carofalo è piuttosto precisa quando sostiene le proprie argomentazioni citando dati sulle carceri italiane. Sulla recidiva, ripete un dato che viene ripreso da molti anni, in mancanza però di informazioni più aggiornate. Ha ragione quando dice che il 90 per cento degli addetti carcerari è parte del sistema di polizia penitenziaria, e che questa sia una media sensibilmente superiore a quella europea. Il punto sul quale Carofalo pare essere meno precisa e puntuale è quello relativo alla formazione di chi è in carcere. La portavoce di Potere al popolo sostiene che solo il 4 per cento dei detenuti segua percorsi di formazione, il che è vero solo limitatamente ai corsi di formazione professionale. Se però consideriamo formazione anche la frequenza di corsi scolastici, questa percentuale si alza fino a circa un terzo della popolazione carceraria. Per Carofalo, quindi, il verdetto è “c’eri quasi”.
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* Abbiamo a disposizione una statistica diversa: il numero dei detenuti che, attualmente in carcere, avevano già subito una o più carcerazioni e/o condanne definitive. Nel settembre 2012, ad esempio, circa 29 mila detenuti su 66 mila non erano mai stati incarcerati in precedenza.