Nelle ultime ore sembra sempre più inevitabile la crisi di governo all’interno della maggioranza che supporta il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Secondo diverse fonti, la rottura tra Italia viva di Matteo Renzi e il resto dell’esecutivo sarebbe imminente, ma c’è ancora molta incertezza sulle prossime mosse.

Al di là delle novità dell’ultimo secondo, facciamo un ripasso di come possono cadere i governi nel nostro Paese. In estrema sintesi, le opzioni sono due: da un lato, la crisi può essere “extra-parlamentare”, quindi non determinata da un voto in Parlamento e formalizzata con le dimissioni spontanee del presidente del Consiglio; dall’altro lato, la crisi può essere “parlamentarizzata”. In questo secondo caso, un governo cade se, voti di deputati e senatori alla mano, non ha più la fiducia di una delle due camere.

Vediamo che cosa è successo con gli ultimi esecutivi.

La crisi fuori dal Parlamento

Partiamo dal primo scenario, quello in cui le crisi sono tipo “extra-parlamentare”. Come abbiamo spiegato in passato, questa tipologia è stata di gran lunga la più diffusa nella storia repubblicana italiana.

Dal Conte I al Berlusconi IV

Il modus operandi è il seguente: a causa di questioni insanabili all’interno della maggioranza, il presidente del Consiglio di turno decide di rassegnare le proprie dimissioni al presidente della Repubblica. Questo, per esempio, è quello che è successo il 20 agosto 2019, quando Giuseppe Conte – dopo un dibattito in Parlamento, ma senza un voto – rassegnò le proprie dimissioni a Sergio Mattarella, che pochi giorni dopo ridiede l’incarico a Conte di formare un nuovo governo.

Destino analogo è stato quello di suoi predecessori. A dicembre 2016, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi si dimise dopo aver perso il referendum costituzionale. A febbraio 2014 Enrico Letta lasciò invece Palazzo Chigi perché la direzione nazionale del Partito democratico aveva approvato una mozione – proposta dall’allora segretario Renzi – in cui si chiedevano le sue dimissioni e la formazione di un nuovo governo.

A inizio dicembre 2012 Mario Monti si dimise perché il Popolo della libertà di Silvio Berlusconi aveva tolto l’appoggio al suo governo, pur non votando contro l’esecutivo in Parlamento. Il Pdl alla Camera si astenne infatti su alcuni nuovi provvedimenti voluti dal governo, mentre al Senato – dove all’epoca l’astensione contava come voto contrario, mentre dal 2018 non più – non partecipò agli scrutini, proprio per evitare una crisi parlamentare.

Prima di Monti, a novembre 2011, Silvio Berlusconi si era dimesso perché la Camera aveva sì approvato il Rendiconto generale del Bilancio dello Stato, ma con otto voti in meno rispetto alla maggioranza di 316. Il provvedimento passò solo perché le opposizioni si astennero invece di votare contro: privato dunque della maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio rassegnò le dimissioni.

Le crisi durante la Prima Repubblica

«Nella Prima Repubblica le crisi nascevano regolarmente all’interno del sistema partitico, del resto caratterizzato da partiti forti e suddivisi in correnti. Così diversi governi democristiani furono affossati dalle competizioni interne, con dorotei, dossettiani, andreottiani, morotei, pontieri e via dicendo che si contendevano consensi e ruoli», abbiamo spiegato in un nostro fact-checking pubblicato da Agi a dicembre 2016. «Ma i cambi di governo nascevano regolarmente all’interno delle stanze di partito, non in Aula». In ogni caso, durante la Prima Repubblica, non accadde mai che un governo sia stato formalmente sfiduciato in Parlamento.

In alcuni casi, i governi andarono in Parlamento sapendo già di non avere una maggioranza e furono bocciati. Ma non si può dire però che avessero perso la fiducia, non avendola mai ottenuta.

La crisi in Parlamento

L’altra pista da percorrere in una crisi di governo, e portare alla caduta di un esecutivo, è quella parlamentare. Come abbiamo spiegato già in passato, per formalizzare a tutti gli effetti una crisi – esclusa l’ipotesi delle dimissioni spontanee del presidente del Consiglio – serve che l’esecutivo subisca un voto di sfiducia, o ne perda uno di fiducia. In altre parole, deve essere evidente, voti alla mano, che il governo non ha più la maggioranza nelle Aule.

Nella storia repubblicana italiana, solo un presidente del Consiglio ha lasciato Palazzo Chigi dopo aver perso la fiducia con un voto del Parlamento: Romano Prodi, in due legislature diverse e a dieci anni di distanza (1998 e 2008). In entrambi i casi, Prodi è caduto per aver perso voti di fiducia su singole risoluzioni.

Nessun governo è invece caduto per una vera e propria mozione di sfiducia, opzione che nelle ultime ore la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha proposto contro il governo Conte II.

Lo “sgambetto” di Rifondazione comunista

Tra fine settembre e inizio ottobre 1998, il primo governo Prodi era al lavoro per esaminare le misure da inserire nella manovra finanziaria per l’anno successivo, quando si creò una rottura all’interno di Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti. Una parte era favorevole a far continuare il governo Prodi, un’altra no. Il 9 ottobre – con 312 sì contro 313 no – il presidente del Consiglio perse un voto di fiducia alla Camera su una risoluzione che aveva presentato per verificare se avesse ancora la maggioranza dei consensi in Aula. Subito dopo, rassegnò le dimissioni.

Il Prodi-bis e Mastella

Quasi dieci anni dopo lo “sgambetto” di Rifondazione comunista, il 23 gennaio 2008 il secondo governo Prodi cadde di nuovo dopo aver perso un voto di fiducia al Senato, per soli cinque voti. Da giorni, all’interno della maggioranza, si stava consumando una crisi per una vicenda giudiziaria legata all’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella (Udeur). A Palazzo Madama Prodi perse la maggioranza a causa del voto contrario, oltre che di Mastella, di Franco Turigliatto (eletto con Rifondazione comunista), Lamberto Dini (eletto con la Margherita), Tommaso Barbato (Udeur) e Domenico Fisichella (ex Alleanza nazionale, poi eletto con la Margherita).

In conclusione

Non è ancora chiaro quale sarà il destino del governo Conte II, anche se la crisi all’interno dell’esecutivo sembra ormai inevitabile. Le strade per far cadere il governo sono, riassumendo, due.

Da un lato, la crisi può essere “extra-parlamentare” e portare alle dimissioni di Conte senza un voto del Parlamento. Con diverse sfumature a seconda dei presidenti del Consiglio passati, questa è la modalità di gran lunga più diffusa all’interno della storia repubblicana italiana.

Dall’altro lato, la crisi può essere “parlamentarizzata”, per usare il gergo tecnico del settore, e in questo caso il governo non deve perdere un voto di fiducia o essere sconfitto subendo un voto di sfiducia. Nella storia della Repubblica italiana, solo Romano Prodi si è dovuto dimettere, per due volte, dopo aver perso un voto di fiducia. Nessun governo è invece mai caduto a causa di un voto di sfiducia.