I fatti dietro la promessa: il Pd e l’estensione dell’obbligo scolastico

Il segretario Enrico Letta vorrebbe rendere obbligatoria l’istruzione dai 3 fino ai 18 anni: ecco quali sono le regole nel resto dell’Ue e le obiezioni principali
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Nel suo programma elettorale, in vista del voto del 25 settembre, il Partito democratico ha proposto di allungare l’obbligo scolastico in Italia, estendolo dalla scuola dell’infanzia, frequentabile a partire dai 3 anni, fino ai 18 anni. Oggi l’obbligo scolastico è in vigore dai 6 ai 16 anni di età, con un’istruzione impartita per almeno dieci anni. L’obiettivo del Pd è di estendere questa frequenza di cinque anni.

Secondo il segretario del Pd, Enrico Letta, la scuola dell’infanzia dovrebbe essere «universale, gratuita e quindi obbligatoria» per aiutare sia le famiglie sia i bambini. 

Negli ultimi giorni, la proposta del Pd è stata criticata da più parti, per diversi motivi. «L’idea dell’asilo obbligatorio è in stile sovietico e fuori dalla realtà», ha dichiarato per esempio il 24 agosto la ministra per il Sud Mara Carfagna (Azione).

Numeri e leggi alla mano, come funziona l’obbligo scolastico nei Paesi europei? E quali possono essere i benefici o le controindicazioni di un’estensione dell’obbligo? Abbiamo analizzato i fatti dietro alla promessa del Pd. 

Come funziona ora in Italia

Come anticipato, oggi in Italia l’istruzione è obbligatoria per almeno dieci anni e riguarda la fascia d’età tra i 6 e i 16 anni. In ogni caso, fino ai 18 anni rimane in vigore l’obbligo formativo, ossia il diritto e il dovere dei giovani di frequentare attività formative fino al compimento della maggiore età. Queste possono consistere nel completamento del tradizionale percorso di studi superiori, oppure in percorsi di formazione professionale a competenza regionale o provinciale, nell’apprendistato o nei corsi di istruzione per adulti. 

Prima dei 6 anni, invece, i servizi educativi disponibili si articolano nel cosiddetto “sistema integrato 0-6”, il cui obiettivo è fornire a bambini e bambine la possibilità di «sviluppare le proprie potenzialità di relazione, autonomia, creatività e apprendimento per superare disuguaglianze, barriere territoriali, economiche, etniche e culturali». Il “sistema integrato 0-6” è composto dall’asilo nido, dedicato ai bambini tra i tre mesi e i 3 anni, e dalla scuola dell’infanzia, che copre la fascia tra i tre e i cinque anni.

La frequenza dell’asilo nido è a pagamento e le rette variano da comune a comune, mentre le scuole dell’infanzia possono essere statali, e quindi gratuite, o paritarie, che possono avere gestione pubblica o privata. 

Né l’asilo nido né la scuola dell’infanzia sono obbligatori in Italia ma, anche a causa delle differenze nei costi e nell’accessibilità dei servizi, ci sono grosse differenze tra i tassi di frequenza. Secondo i dati Istat più aggiornati, alla fine del 2019 più del 90 per cento dei bambini frequentava la scuola dell’infanzia, mentre solo il 26,3 per cento andava al nido. 

Nel 2002, il Consiglio europeo ha adottato una serie di obiettivi comuni in merito ai tassi di frequenza dell’asilo nido e della scuola dell’infanzia, secondo cui entro il 2010 il 90 per cento dei bambini avrebbero dovuto frequentare la scuola dell’infanzia, e il 33 per cento l’asilo nido. Al momento l’Italia è quindi in linea con il primo obiettivo, ma non con il secondo. 

Per quanto riguarda invece l’altro estremo dell’obbligo scolastico, quello dei 16 anni, secondo Istat la maggior parte degli studenti completa il ciclo di studi fino almeno a raggiungere il diploma, seppur con percentuali inferiori rispetto alla media europea. Nel 2020 circa il 63 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni aveva raggiunto almeno il diploma, contro una media europea del 79 per cento.

Sempre nel 2020, il 13 per cento dei giovani tra i 18 e i 24 anni aveva invece abbandonato precocemente il sistema di istruzione e formazione. In particolare, il fenomeno della “dispersione scolastica” – che si riferisce a un insieme di situazioni per le quali gli studenti interrompono definitivamente il percorso di studi prima dell’ottenimento del diploma, smettono di presentarsi in classe o vengono bocciati – è spesso legato al livello d’istruzione dei genitori e alla loro qualifica professionale. «Nelle famiglie italiane con elevato livello di istruzione l’incidenza di giovani che hanno abbandonato gli studi precocemente è dieci volte inferiore rispetto a quella registrata nelle famiglie italiane con bassi livelli di istruzione», afferma l’Istat. 

L’obbligo scolastico nell’Ue

I dati più aggiornati sulla situazione relativa all’obbligo scolastico nei 27 Paesi dell’Unione europea sono forniti da uno studio dell’Agenzia esecutiva europea per l’educazione e la cultura e sono relativi all’anno scolastico 2021-2022. Oltre all’Italia, anche in altri cinque Paesi dell’Ue l’obbligo scolastico va dai 6 ai 16 anni: Danimarca, Irlanda, Spagna, Lituania e Svezia. In altri cinque Paesi l’obbligo comincia invece a 5 anni e prosegue fino ai 16. L’inizio più tardivo, a 7 anni, è in vigore in Estonia e Croazia, mentre in sette Paesi l’obbligo termina ai 15 anni. 

Soltanto in due Paesi, la Francia e l’Ungheria, la scuola dell’infanzia è obbligatoria. In Ungheria l’obbligo continua poi fino ai 16 anni, mentre in Francia fino ai 18, con un sistema simile a quello proposto dal Pd. In particolare, la decisione di rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia è stata decisa dal presidente Emmanuel Macron nel 2018, ed è entrata in vigore nel 2019. 

L’asilo nido, dai tre mesi ai 3 anni, non è obbligatorio in nessun Paese europeo. 

I benefici dei servizi educativi prima delle elementari

Diversi studi hanno mostrato che un inizio precoce delle attività educative può portare benefici allo sviluppo dei bambini, sotto diversi punti di vista. Il progetto Starting Strong dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), del 2017, ha per esempio mostrato che nella maggior parte dei Paesi membri dell’organizzazione, i ragazzi di 15 anni che avevano avuto accesso a servizi educativi prima della scuola elementare hanno poi raggiunto risultati migliori rispetto agli altri. 

Inoltre, secondo lo studio – che è basato su dati del 2015 raccolti dall’indagine Pisa, ossia una serie di test standardizzati condotti in diversi Paesi del mondo per valutare le competenze degli studenti quindicenni – i bambini svantaggiati possono trarre maggiori benefici dalla frequentazione dell’asilo nido o della scuola della scuola dell’infanzia, e quindi gli sforzi per incrementare la frequenza andrebbero rivolti verso queste fasce della popolazione. 

Non solo: per quanto riguarda gli asili nido, lo studio ha evidenziato che avere un sistema educativo accessibile su cui fare affidamento aiuterebbe anche le famiglie, e in particolare le donne, a raggiungere un miglior equilibrio tra impegni familiari e lavorativi. In molti casi, i Paesi in cui il tasso di occupazione femminile è più elevato coincidono con quelli in cui le maggiori percentuali di bambini frequentano le scuole già prima dei tre anni. 
Figura 1. Partecipazione delle donne al mercato del lavoro e tasso di iscrizione dei bambini con meno di tre anni ai servizi educativi, 2014 – Fonte: Ocse
Figura 1. Partecipazione delle donne al mercato del lavoro e tasso di iscrizione dei bambini con meno di tre anni ai servizi educativi, 2014 – Fonte: Ocse
Uno studio del Network europeo di esperti sull’economia dell’educazione (Eenee) del 2018 ha poi sottolineato che la frequenza di servizi educativi nella fascia 0-6 anni può portare benefici in diversi ambiti, sul breve e lungo termine: dai livelli di istruzione al mercato del lavoro, passando per la giustizia, il contrasto alla povertà, le diseguaglianze, la coesione e l’inclusione sociale. Lo studio però specifica che tematiche tanto ampie raramente sono legate a fattori univoci, e quindi è spesso difficile identificare le cause specifiche dei miglioramenti osservati.

Le ragioni dei critici

La proposta è stata immediatamente criticata da diversi avversari politici del Pd. Una delle principali obiezioni avanzate riguarda il potere decisionale delle famiglie, che dovrebbero essere libere di scegliere se iscrivere o meno i propri figli alla scuola dell’infanzia, e dei ragazzi, che al raggiungimento dei 16 anni dovrebbero poter scegliere se continuare a studiare oppure iniziare a lavorare. 

Dal centrodestra, per esempio, durante un comizio a Ostia, nel Lazio, il leader della Lega Matteo Salvini ha definito la proposta del Pd come frutto di una «mentalità statalista, centralista e burocratica», chiedendosi: «Perché se un ragazzo a 16 anni vuole andare a lavorare, lo Stato deve impedirglielo?». 

Altre forze politiche, come Azione e Italia viva, condividono solo in parte l’idea del Pd, e nel loro programma congiunto propongono di estendere l’obbligo dai 16 a i 18 anni (senza citare la scuola dell’infanzia). 

In ogni caso, l’estensione dell’obbligo scolastico comporterebbe ulteriori costi per lo Stato, che dovrebbe garantire la disponibilità di posti per tutti i bambini nelle scuole dell’infanzia e per tutti i ragazzi nelle scuole superiori, assumendo quindi nuovi educatori e insegnanti ed eventualmente costruendo nuove strutture. 

In particolare, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, secondo i dati Istat, nel 2019 risiedevano in Italia circa 1,5 milioni di bambini con un’età compresa tra i 3 e i 5 anni. Di questi, circa 1,3 milioni (il 90,5 per cento) frequentavano la scuola dell’infanzia e quindi, con un calcolo spannometrico, se fosse introdotto l’obbligo le scuole dell’infanzia dovrebbero prepararsi ad accogliere circa 200 mila bambini in più. Inoltre, come confermato anche da Letta, la scuola dell’infanzia obbligatoria dovrebbe essere «gratuita», e quindi lo Stato dovrebbe farsi carico anche dei costi oggi sostenuti dalle famiglie per le strutture paritarie. 

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