Il 30 giugno, la delegazione del Movimento 5 stelle al Parlamento europeo ha scritto una nota in cui dice che «nel 2017 siamo stati gli unici a difendere gli interessi dell’Italia votando contro» la riforma del regolamento di Dublino.
Secondo il M5s, quest’ultima «non modificava il principio della responsabilità del Paese di primo ingresso, inseriva filtri che appesantivano la procedura e lasciava al Paese di prima accoglienza la gestione dei migranti economici».
Ma è davvero così? Abbiamo verificato e diverse cose non tornano.
Di che cosa stiamo parlando
Il regolamento di Dublino stabilisce (art. 13) qual è lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri dell’Unione europea.
Semplificando: se un migrante arriva illegalmente in Europa attraverso i confini di uno Stato membro, salvo casi particolari sarà quest’ultimo il responsabile della gestione della sua richiesta di protezione internazionale.
Questo è il punto più dibattuto del regolamento, perché pone i sistemi di asilo dei Paesi al confine (come Italia, Grecia e Spagna) sotto una pressione maggiore rispetto agli altri, creando una diversa ripartizione delle responsabilità – e dei costi, economici e sociali – all’interno dell’Ue.
In seguito alla crisi europea dei migranti del 2015 è stato avviato un complicato e lungo tentativo di modificare questo regolamento che, come vedremo in seguito, ad oggi non ha portato risultati definitivi.
I tentativi di riforma di Dublino
Il meccanismo temporaneo
Il 15 settembre 2015, il Consiglio dell’Unione europea aveva approvato un meccanismo obbligatorio di redistribuzione dei richiedenti asilo, ma temporaneo, ossia valido per i migranti arrivati dal 2015 al 2017.
A votare contro, senza impedire l’adozione della nuova norma, erano stati Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania. A settembre 2017 le prime due hanno perso i ricorsi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea contro la decisione del Consiglio, mentre a dicembre 2017 Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca sono state deferite dalla Commissione europea alla Corte di Giustizia Ue per non aver rispettato mai le norme entrate in vigore a settembre 2015.
Nei suoi due anni di vita, il meccanismo temporaneo ha ricollocato quasi 35 mila richiedenti asilo, di cui quasi 13 mila dall’Italia.
Il meccanismo permanente
A maggio 2016, la Commissione europea ha poi avanzato una proposta di modifica del regolamento di Dublino, con l’obiettivo di introdurre «un sistema di distribuzione delle domande di asilo tra gli Stati membri più equo, più efficiente e più sostenibile» che, a differenza del precedente, avesse natura permanente.
Questa proposta è poi passata al Parlamento europeo, dove è stata presa in esame dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe).
Dopo mesi di lavori parlamentari, il 19 ottobre 2017 la Commissione Libe ha approvato (43 sì contro 16 no) il documento di riforma definitivo, per il quale erano servite 22 riunioni di negoziato. Quest’ultime, in parole semplici, sono incontri informali dove i relatori della commissione negoziano la stesura del testo da presentare al Parlamento, in cerca del miglior compromesso possibile tra le diverse istanze.
Come abbiamo spiegato in un nostro precedente fact-checking, le posizioni di M5s e Lega – che a giugno 2018 avrebbero preso la guida dell’Italia – erano state diverse. L’eurodeputata del M5s Laura Ferrara aveva partecipato alle riunioni di negoziato, mentre l’allora eurodeputato e attuale ministro Lorenzo Fontana le aveva disertate tutte. In sede di approvazione in commissione, entrambi gli eurodeputati avevano comunque partecipato, votando contro.
Il 16 novembre 2017, il Parlamento europeo si è poi espresso a larga maggioranza in favore della riforma – con 390 sì, 175 no e 44 astenuti – dando mandato al Consiglio dell’Ue di trovare una posizione definitiva sul tema tra gli Stati membri.
Tra gli altri, all’epoca si erano schierati a favore del testo il Partito democratico e Forza Italia, mentre il M5s aveva votato contro. Fontana, invece, aveva deciso di astenersi.
Prima di vedere che fine ha fatto questo percorso di riforma, vediamo se effettivamente, come dice il M5s, il principio del Paese di “primo ingresso” non sarebbe cambiato e se i migranti economici sarebbero rimasti tutti di responsabilità italiana.
Come sarebbe cambiato il criterio di “primo ingresso”
Nella proposta di riforma della Commissione europea – avanzata a maggio 2016 – Il principio fondamentale alla base del sistema Dublino restava lo stesso: «I richiedenti asilo devono presentare domanda d’asilo nel primo Paese d’ingresso, salvo che non abbiano famiglia in un altro paese».
La Commissione aveva però un proposto una sorta di “meccanismo di equità” (meccanismo correttivo di assegnazione) con cui stabilire in modo automatico quando uno Stato stava esaminando un numero sproporzionato di richieste d’asilo, in base alla ricchezza e alle dimensioni del Paese in questione.
La proposta approvata dal Parlamento europeo, invece, tra le diverse novità suggerite prevedeva di fatto l’eliminazione del criterio del “primo ingresso”, sostituendolo con un meccanismo permanente e obbligatorio sulla base del quale ripartire le domande dei richiedenti asilo tra tutti i Paesi Ue.
Semplificando: per ogni Stato membro, in base al Pil e alla popolazione, veniva stabilita una quota massima di domande d’asilo da esaminare; chi si fosse sottratto a questo sistema, sarebbe andato incontro a restrizioni e tagli all’accesso dei fondi e dei finanziamenti europei.
Non è vero quindi che «il principio della responsabilità del Paese di “primo ingresso”» non sarebbe stato modificato dalla riforma, anche se ci sarebbero state delle eccezioni. Vediamo quali.
La questione dei filtri e dei migranti economici
Secondo il M5s, la proposta di riforma approvata dal Parlamento Ue «inseriva filtri che appesantivano la procedura e lasciava al Paese di prima accoglienza la gestione dei migranti economici».
Come abbiamo spiegato in un nostro precedente fact-checking, questa obiezione non è del tutto vera, anche se poggia su un elemento di ambiguità e incertezza contenuto nella proposta del Parlamento.
Semplificando: dopo che un richiedente asilo veniva registrato e identificato dal Paese di primo ingresso, sarebbe scattato il meccanismo di ricollocamento prima dell’esame della domanda, fatta eccezione per chi non aveva praticamente alcuna possibilità di vedere accolta la propria richiesta di protezione.
È sbagliato però equiparare questo tipo di richiedenti asilo con i cosiddetti “migranti economici”, ossia quelli che non hanno diritto alla protezione internazionale dal momento che hanno lasciato il proprio Paese di origine per cause non legate a guerre o persecuzioni.
All’epoca dell’approvazione della riforma, il Parlamento aveva proposto di istituire «un filtro attentamente calibrato» per separare prima dell’esame vero e proprio della domanda i richiedenti con pochissime possibilità di ricevere protezione da tutti gli altri (compresi quelli in seguito ritenuti “economici”), lasciando al Consiglio dell’Ue il compito di stabilire i dettagli del meccanismo.
Non solo. Secondo la proposta del Parlamento, i Paesi di primo ingresso come l’Italia avrebbero ricevuto un «supporto addizionale dalla Ue» per gestire questo tipo di operazioni.
Con la riforma, sarebbe comunque effettivamente stato introdotto un altro tipo di filtro, legato in questo caso alla sicurezza e non alle possibilità del richiedente di ricevere protezione.
Come aveva sottolineato Ferrara il 17 novembre 2017, «le persone potenzialmente pericolose per la sicurezza pubblica» sarebbero restate nel Paese di primo ingresso.
Questo è vero, come stabilito dal testo della riforma: «Qualora dalla verifica di sicurezza risulti che il richiedente può, per gravi motivi, essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione in cui è presentata la domanda è lo Stato membro competente ed esamina la domanda di protezione internazionale con procedura accelerata».
Ricapitolando: la riforma proposta dal Parlamento Ue avrebbe di fatto modificato il principio di responsabilità del Paese di primo ingresso, creando un meccanismo di ricollocamento automatico e obbligatorio dei richiedenti asilo e dell’esame delle loro domande.
Da questo sistema, non sarebbero stati esclusi i migranti economici come sostiene il M5s, ma solo quelli con poche possibilità di ricevere protezione dopo una prima sommaria analisi della domanda, attraverso un filtro il cui funzionamento non era ancora stato stabilito. Stessa sorte sarebbe toccata anche ai soggetti potenzialmente pericolosi.
Un vicolo cieco
In ogni caso, come anticipato, il testo approvato dal Parlamento Ue è finito in un vicolo cieco.
Come abbiamo spiegato in un nostro precedente fact-checking, il Parlamento Ue non aveva legiferato sul regolamento di Dublino, ma aveva dato mandato negoziale al Consiglio dell’Ue (l’istituzione dove sono rappresentati i singoli Stati membri) di trovare una decisione finale sul tema.
Dal punto di partenza votato dal Parlamento, l’allora presidenza del Consiglio in capo alla Bulgaria aveva cercato di trovare un compromesso tra il testo approvato e le istanze di Stati membri contrari al sistema di ricollocamento obbligatorio, come Ungheria e Polonia.
Il documento bozza di compromesso, però, aveva visto l’opposizione di Paesi come Italia, Spagna e Grecia, perché ritenuto troppo sfavorevole per gli Stati di primo ingresso.
Così, a giugno 2018 il processo di riforma in mano al Consiglio è però fallito, per ora definitivamente. All’epoca, il neo-ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva dichiarato che questo risultato era stata «una vittoria» per il nostro Paese e anche il presidente Conte aveva sostenuto che «da questo Consiglio esce una Europa più responsabile e solidale, l’Italia non è più sola».
In conclusione
Secondo il M5s, la riforma del regolamento di Dublino approvata dal Parlamento Ue a novembre 2017 – ma finita in un nulla di fatto – «non modificava il principio della responsabilità del Paese di primo ingresso, inseriva filtri che appesantivano la procedura e lasciava al Paese di prima accoglienza la gestione dei migranti economici».
In questa dichiarazione, ci sono almeno due errori.
La riforma proponeva di fatto di eliminare il criterio del “primo ingresso”, introducendo un meccanismo obbligatorio e permanente di ricollocamento delle domande dei richiedenti asilo tra tutti i Paesi Ue.
In secondo luogo, non è vero che i migranti economici sarebbero rimasti tutti in Italia, ma solo quelli che a una prima analisi della domanda – e non dopo il vero e proprio esame – sarebbero risultati avere pochissime possibilità di accoglimento o essere pericolosi per la sicurezza pubblica.
Infine, è impreciso da parte del M5s dire che «nel 2017 siamo stati gli unici a difendere gli interessi dell’Italia votando contro» la riforma di Dublino.
Nonostante le ripetute assenze durante i negoziati per la stesura del testo, anche la Lega si era opposta alla riforma, votando contro in commissione e astenendosi in Parlamento. Come abbiamo spiegato in un nostro precedente fact-checking, questo era stato il risultato di una decisione politica e di strategia parlamentare della Lega e del suo gruppo politico.
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