La questione delle tasse sui beni della Chiesa è tornata di attualità grazie a un disegno di legge depositato in Senato dal Movimento 5 stelle e a una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue di fine 2018.
Da tempo la Chiesa è accusata di non aver pagato «5 miliardi di euro» di Ici tra il 2006 e il 2011 e ora, in sostanza, il M5s ha proposto una possibile soluzione per recuperare questi soldi.
Come vedremo, quando si parla di tasse e Chiesa circola spesso questa cifra di «5 miliardi», che secondo le nostre verifiche è però di provenienza sconosciuta, e quindi con ogni probabilità inaffidabile.
Che cosa prevede dunque il disegno di legge del M5s? E quali sono state le tappe – normative e giudiziarie – di questa vicenda? Abbiamo fatto un po’ d’ordine su questa vicenda.
La proposta del M5s
Il testo del disegno di legge, depositato il 23 ottobre 2019 da Elio Lannutti (M5s) e altri senatori del M5s, non è ancora stato pubblicato sul sito del Senato, ma è stato condiviso il 25 ottobre scorso su Facebook da uno dei firmatari, il senatore Gianluigi Paragone.
Il ddl – intitolato “Disposizioni per il pagamento dell’Imu da parte della Chiesa cattolica” – si sviluppa in cinque articoli. I primi quattro prevedono il pagamento dell’Imu da parte delle strutture commerciali, ristoranti, hotel e strutture sanitarie appartenenti alla Chiesa cattolica o ad associazioni e congregazioni collegate, nonché l’obbligo di convalida dei bilanci da parte di un certificatore esterno, se il giro d’affari di queste associazioni e congregazioni è superiore ai 100 mila euro all’anno.
L’ultimo articolo del disegno di legge riguarda invece il recupero da parte dei Comuni dell’Imu non pagata tra il 2006 e il 2011.
La modalità proposta nel disegno di legge è quella dell’autocertificazione: «Le associazioni (o società) legate alla religione cattolica e le congregazioni religiose che fanno capo alla religione cattolica sono tenute ad autocertificare i propri bilanci relativi a quegli anni e ad autocertificare l’indirizzo d’uso degli immobili di loro proprietà e di quelli utilizzati per le proprie attività».
Successivamente, sulla base dell’autocertificazione fornita, i Comuni riscuoteranno l’Imu arretrata.
Come vedremo meglio più avanti, questo ddl prende le mosse dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue di fine 2018 a cui si è accennato.
Ma prima ricostruiamo le tappe normative della vicenda.
Che cosa dice la legge
L’Imposta comunale sugli immobili (Ici) è stata istituita dal decreto legislativo n. 504 del 1992, per poi essere sostituita nel 2011 dal governo Berlusconi IV (d.lgs. 14 marzo 2011 n. 23, art. 7) con l’introduzione dell’Imposta municipale unica (Imu).
In realtà, l’Imu sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2014, ma il governo Monti anticipò la data al 2012
L’art. 7 del decreto del 1992 stabiliva che erano esentati dal pagamento dell’Ici i «fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alle relative pertinenze» e i fabbricati impiegati dagli enti ecclesiastici (ma anche da tutti gli enti non commerciali sia pubblici che privati) in attività a vocazione sociale e filantropica quando essi fossero «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive», nonché destinati ai fini di religione o di culto.
Nel corso degli anni, questa formulazione della legge è stata oggetto di diverse controversie giudiziarie, perché i comuni applicavano diverse interpretazioni.
Sulla questione intervenne, da ultimo, la Corte di Cassazione che con la sentenza n. 4645 del 2004 stabilì che «il beneficio dell’esenzione dall’imposta non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali».
La Cassazione nel 2004 diede insomma un’interpretazione restrittiva della norma, secondo cui si poteva beneficiare dell’esenzione solo se le attività svolte nell’immobile in questione avvenivano del tutto gratuitamente e senza alcun corrispettivo o contributo pubblico.
Sulla situazione creata dalla sentenza intervenne poi nel 2005 il terzo governo Berlusconi, che stabilì che l’esenzione fosse applicabile alle attività che non avessero «esclusivamente natura commerciale» (art. 7, comma 2-bis del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, poi modificato dall’art. 39 del d.l. 4 luglio 2006 n. 223).
In base a questa norma, dunque, una qualsiasi attività commerciale, gestita da religiosi anche con la precisa volontà di realizzare un profitto, per il solo fatto di essere collegata a una finalità di religione o di culto, avrebbe avuto diritto all’esenzione dall’imposta.
Anche questa nuova norma generò un vasto contenzioso davanti ai tribunali, italiani e come vedremo europei, fino all’intervento del governo Monti.
Quest’ultimo modificò la disciplina dell’Imu, in particolare con il d.l. 1/2012 (art. 91 bis), come convertito in legge dalla l. 27/2012, e risolse il problema. Da allora e fino ad oggi, infatti, l’esenzione è possibile solo per quegli immobili in cui viene svolta un’attività con modalità «non commerciale».
È difficile stimare l’impatto di questa modifica sul regime fiscale dei beni immobili della Chiesa, in termini di maggior gettito per lo Stato italiano, in quanto tra il 2011 e il 2012, con il passaggio da Ici a Imu, il gettito complessivo da queste tasse è passato da 9,2 miliardi di euro a 21 miliardi di euro.
Che cosa dice l’Ue
Come anticipato, la normativa italiana sulle esenzioni dall’Ici per i beni della Chiesa è stata esaminata, nel corso degli anni, anche dall’Unione europea.
La Commissione europea, dopo anni di ricorsi e indagini, stabilì nel 2012 che il regime di esenzione approvato dal governo Berlusconi nel 2005, e in vigore tra il 2006 e il 2011, costituisse un aiuto di Stato illegittimo, rispetto al diritto comunitario, ma che fosse oggettivamente impossibile per l’Italia quantificare e recuperare l’Ici non versata dalla Chiesa.
Contro questa decisione fecero ricorso alcuni privati, in particolare il gestore di un bed & breakfast e una scuola montessoriana. Dopo un passaggio davanti al Tribunale dell’Ue nel 2016, che non risolse la questione sostanziale, la questione approdò davanti alla Corte di Giustizia dell’Ue.
Questa Corte, infine, stabilì con la sentenza del 6 novembre 2018 che la Commissione avesse torto. Infatti non era stata dimostrata l’impossibilità assoluta per lo Stato italiano di recuperare l’Ici dovuto dalla Chiesa tra il 2006 e il 2011, periodo in cui è stata in vigore l’esenzione approvata dal governo Berlusconi IV e giudicata dall’Ue un illegittimo aiuto di Stato.
Ad aprile 2019, in base alla decisione della Corte di Giustizia, la Commissione europea (in particolare la Direzione generale della Concorrenza) è tornata a chiedere all’Italia di recuperare l’Ici arretrata.
Secondo quanto riferisce Il Sole 24 Ore – che ha visionato la richiesta della Commissione – al governo italiano viene chiesto di dettagliare le «modalità alternative utilizzabili per quantificare l’aiuto da recuperare». Bruxelles ne indica tre: usare le dichiarazioni sull’utilizzo degli spazi presentate dagli enti non profit con la riforma del 2012; imporre a tutti gli interessati un «obbligo di autocertificazione»; oppure prevedere un sistema di «controlli in loco tramite gli organi ispettivi». Ovviamente l’Italia può anche trovare altre strade, oltre a queste tre indicate.
Ancora secondo quanto riporta il quotidiano di Confindustria, il governo italiano in carica ad aprile 2019 (Conte I) ha continuato a opporre alle richieste della Commissione l’impossibilità di quantificare il dovuto tra il 2006 e il 2011.
Ad oggi non risulta che la situazione si sia evoluta, a parte la presentazione del ddl Lannutti che, come abbiamo visto, adotta una delle tre possibilità suggerite dalla Commissione europea per quantificare il recupero: quella dell’autocertificazione.
Stime Anci, oppure no
Attualmente non esistono quindi dati ufficiali su quanto la Chiesa debba restituire all’Italia di Ici non versata tra il 2006 e il 2011. Anzi, proprio la possibilità di quantificare il dovuto è al centro di uno scontro tra Italia e Commissione europea.
Un numero preciso potrà essere fornito solo dopo che l’Italia avrà deciso se e come procedere con la quantificazione, e dopo che questa sarà stata conclusa.
C’è tuttavia un numero che è circolato spesso a proposito di questa vicenda, quello di «5 miliardi di euro».
Lo si legge nella Relazione illustrativa allegata al ddl (sempre consultabile sulla pagina Facebook del senatore Luigi Paragone), dove si afferma che «secondo stime dell’Anci, l’Ici non versata tra il 2006 e il 2011 si aggira intorno ai cinque miliardi di euro (circa 800 milioni l’anno)», e lo si ritrova anche su fonti di stampa precedenti (qui e qui ad esempio). La fonte indicata è sempre l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani.
Abbiamo quindi contattato l’Anci per chiedere qualche dettaglio su come avessero proceduto per elaborare la stima, ma ci hanno risposto che «non ci sono dati storici in Anci che supportino la cifra di un mancato introito di 5 miliardi per il periodo 2006-2011».
Il numero, insomma, rimane senza una fonte e non è chiaro chi e quando abbia iniziato a farlo circolare.
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