Il 14 luglio il deputato di Forza Italia Giorgio Mulè ha dichiarato all’Adnkronos che l’eventuale revoca delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia (Aspi), società controllata dalla famiglia Benetton tramite Atlantia, «significherebbe una perdita secca di 20 miliardi».
L’affermazione – anteriore all’accordo poi trovato tra governo e Atlantia, da noi analizzato, che dovrebbe scongiurare l’ipotesi della revoca – non è del tutto priva di fondamento ma omette di tenere in considerazione un’importante novità legislativa introdotta di recente dal governo Conte II.
Andiamo a vedere i dettagli.
Come nasce (e come muore?) l’idea della revoca
Dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova del 14 agosto 2018, il M5s si è intestato la battaglia per revocare le concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia, società che gestiva il tratto autostradale dove è avvenuta la tragedia.
Questa ipotesi sembra essersi allontanata dopo che, nella notte tra il 14 e il 15 luglio, il governo ha trovato un accordo con Atlantia che prevede – in sintesi – il subentro dello Stato nel controllo di Aspi. Ma prima che si concretizzasse questo risultato il tema della revoca è stato ampiamente dibattuto e, come vedremo, è stato anche oggetto di un discusso intervento legislativo.
I 20 miliardi di euro, o più
Come abbiamo scritto in una nostra precedente analisi, la stima di 20 miliardi di costo per la revoca delle concessioni ad Aspi nasce dagli articoli 9 e 9bis della Convenzione tra Stato e Aspi, scaricabile dal sito del Ministero dei Trasporti (Mit).
Questi articoli prevedono, in sintesi, che in caso di revoca – anche se questa dipendesse dal grave inadempimento del concessionario, come si ipotizza possa essere per il crollo del Ponte Morandi – lo Stato sarebbe comunque tenuto a pagare ad Aspi i ricavi “prevedibili” fino alla scadenza del contratto (prevista per il 2038, prorogabile a certe condizioni fino al 2042), al netto delle varie spese e di alcune correzioni. In caso di grave inadempimento accertato dai giudici, però, Aspi dovrebbe pagare una penale allo Stato pari al 10 per cento dell’indennizzo ricevuto.
Secondo una stima riportata dal Sole 24 Ore pochi giorni dopo il crollo del Ponte Morandi – ottenuta moltiplicando il ricavo di gestione annuo di Aspi per gli anni di vita residua della concessione – in caso di revoca lo Stato italiano dovrebbe pagare ad Aspi tra i 15 e i 20 miliardi di euro, eventualmente diminuiti di 1,5-2 miliardi di penale se fosse provato un grave inadempimento del concessionario.
Una stima ancora maggiore, di 23 miliardi di euro, è stata poi avanzata da Aspi a fine dicembre 2019, secondo quanto riportano fonti di stampa. La società aveva allora inviato una lettera al governo per lamentarsi di una modifica normativa del regime della revoca: modifica introdotta con il decreto “Milleproroghe” del 2019 e ritenuta incostituzionale e contraria al diritto europeo.
In ogni caso la cifra di 20 miliardi riportata da Mulè possiamo dire sia sostanzialmente corretta. Ma, come anticipato, il deputato di Forza Italia sbaglia nel dipingere questo scenario come l’unico possibile.
La novità del “Milleproroghe” del 2019
Il cosiddetto decreto “Milleproroghe” (decreto-legge n.162 del 30 dicembre 2019) dello scorso anno, approvato dalla maggioranza Pd-M5s, contiene una norma (l’articolo 35) che va a modificare la disciplina della revoca di una concessione.
In base a questa, «qualora l’estinzione della concessione derivi da inadempimento del concessionario» non si applicano gli articoli della Convenzione tra Stato e concessionario (nel caso di Aspi gli artt. 9 e 9 bis visti prima, che prevedono il rimborso dei mancati ricavi prevedibili fino a scadenza della concessione) ma una norma del 2016 (art. 176 co.4 lett. a) del d.lgs. 50/2016) che dispone venga rimborsato solo «il valore delle opere realizzate [dal concessionario n.d.r.] più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti». Secondo le stime, riportate ad esempio a fine dicembre 2019 dal Sole 24 Ore, il risarcimento in questo modo calerebbe a 7 miliardi di euro. Un terzo di quanto riportato da Mulè.
Ci sono tuttavia dei dubbi che la norma contenuta nel decreto “Milleproroghe” sia legittima, visto che va a modificare le “regole del gioco” a partita cominciata.
L’Avvocatura dello Stato, in un parere del 19 febbraio 2020, ha messo infatti in guardia il governo dalla possibilità che la magistratura dica che l’art. 35 del “Milleproroghe” è illegittimo. In quel caso il dovuto ad Aspi in caso di revoca tornerebbe ad essere l’«integrale risarcimento», di più di 20 miliardi di euro.
In ogni caso l’accordo raggiunto il 15 luglio tra governo e Atlantia dovrebbe sia scongiurare il rischio della revoca, sia evitare strascichi giudiziari: Atlantia ha infatti accettato di rinunciare ai «ricorsi per contestare la legittimità dell’art. 35 del decreto-legge “Milleproroghe”».
Il verdetto
Il deputato di Forza Italia Giorgio Mulè ha sostenuto il 14 luglio che l’eventuale revoca delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia «significherebbe una perdita secca di 20 miliardi».
L’affermazione – fatta prima dell’accordo tra Stato e Atlantia, che allontana l’ipotesi di una revoca – è imprecisa: in base alla norma contenuta nel decreto “Milleproroghe”, che modifica la disciplina della revoca e dell’eventuale risarcimento e che è ad oggi in vigore, il risarcimento dovuto sarebbe secondo le stime di circa 7 miliardi di euro.
Un risarcimento di più di 20 miliardi di euro era invece dovuto in base alle norme contenute nella Convenzione tra Stato e Aspi, che sono state appunto sostituite dal “Milleproroghe” con altre più sfavorevoli per il concessionario.
C’è la possibilità, secondo l’Avvocatura dello Stato, che la magistratura ritenga la norma del “Milleproroghe” illegittima, nel qual caso il risarcimento dovuto dallo Stato in caso di revoca tornerebbe a superare – secondo le stime di fonti di stampa e di Aspi stessa – i 20 miliardi di euro. Ma si tratta di una possibilità, non di una certezza. Per Mulè nel complesso un “Nì”.
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7 dicembre 2024
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