Il 5 maggio l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Simone Valente (M5s) ha commentato su Facebook il dibattito sulla ripresa del calcio professionistico in Italia durante l’emergenza coronavirus.
Secondo Valente, il calcio in Italia «vale il 7 per cento del Pil italiano, dando lavoro a oltre 120 mila persone», un virgolettato ripreso anche dalla Gazzetta dello Sport nel titolo di un articolo del 5 maggio.
Ma questi numeri sono corretti o no? Abbiamo verificato.
Quanto vale il calcio in Italia
Esistono diverse stime in circolazione sul contributo economico del calcio professionistico in Italia. I calcoli più citati – e più autorevoli – sono quelli della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), di cui fanno parte, tra gli altri, le leghe che organizzano i campionati di calcio professionistici (Lega Serie A, Lega Serie B e Lega Pro) e dilettantistici (Lega Nazionale Dilettanti).
A luglio 2019 la Figc ha infatti pubblicato il “Report Calcio 2019”, realizzato con l’Agenzia di ricerche e legislazione (Arel), che si occupa di ricerche in ambito economico e istituzionale, e con la società di consulenza PricewaterhouseCoopers (PwC).
Curiosità: il segretario generale di Arel è l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, che ha scritto la prefazione allo studio della Figc.
Il rapporto, spiega la federazione, «è la fotografia più aggiornata sullo stato del calcio italiano» e contiene un’analisi economico-finanziaria del calcio professionistico nel nostro Paese.
Secondo il “Report Calcio 2019”, nel 2017-2018 – periodo di riferimento del rapporto – il valore della produzione dei tre campionati professionistici italiani (Serie A, Serie B e Lega Pro) ha superato per la prima volta i 3,5 miliardi di euro – di cui 3 miliardi fanno capo al campionato della massima serie –, in crescita del 6 per cento rispetto all’anno precedente.
Come spiega la Figc nel suo rapporto, l’incidenza del valore della produzione sul Pil nazionale legata al calcio professionistico è dello «0,19 per cento del 2017», in aumento dallo 0,17 per cento del 2013. Questa crescita è stata sostenuta «da un incremento delle componenti dei ricavi da stadio (+22,4 per cento) e dei ricavi da sponsor e attività commerciali (+9,5 per cento)».
Secondo la Figc, insomma, il calcio professionistico in Italia vale rispetto al Pil circa 35 volte in meno la percentuale indicata da Valente.
Per dare una pietra di paragone, una percentuale del 7 per cento equivarrebbe a un contributo sul Pil di oltre 125 miliardi di euro, simile al peso del turismo (non contando l’indotto) nel nostro Paese. O una ventina di miliardi in meno del Pil prodotto in un’intera regione come l’Emilia-Romagna (circa 157 miliardi di euro nel 2017).
«Possiamo dire che il calcio in Italia valga al massimo intorno ai 5 miliardi di euro, ma anche meno, come fatturato diretto», ha spiegato a Pagella Politica Marco Bellinazzo, giornalista del Sole 24 Ore esperto di calcio ed economia. «Se consideriamo che con gli eventi sportivi si produce anche un indotto, per esempio, con i trasporti e la ristorazione, possiamo arrivare a un massimo di 15 miliardi di euro, meno comunque dell’1 per cento del Pil».
Secondo le stime riportate da Bellinazzo, la sola Serie A ha stimato una perdita di 300 milioni di euro, in caso di mancata ripresa del campionato, a causa dei mancati ricavi degli stadi, delle sponsorizzazioni e in parte dei diritti tv.
Impatto socio-economico e contributivo
Il “Report Calcio 2019” contiene anche altre stime sull’impatto socio-economico del calcio italiano nel nostro Paese e su quello a livello contributivo. Questi calcoli sono ottenuti con voci diverse rispetto ai numeri visti in precedenza.
In primo luogo, in collaborazione con l’Uefa (che rappresenta le federazioni calcistiche d’Europa), la Figc ha elaborato un particolare algoritmo, chiamato Social return on investment model, per valutare l’impatto socio-economico del calcio italiano, che nel 2017-2018 è risultato pari a circa 3 miliardi di euro.
«I settori coinvolti – ha spiegato la Figc – sono quello economico (742,1 milioni di contributo diretto all’economia nazionale), sociale (1.051,4 milioni di risparmio economico generato dai benefici prodotti dall’attività calcistica) e sanitario (1.215,5 milioni in termini di risparmio della spesa sanitaria), insieme a quello delle performance sportive».
In rapporto al Pil, secondo questo algoritmo il contributo aggiuntivo del calcio all’economia nazionale sarebbe dunque di circa lo 0,04 per cento.
Nei circa 742 milioni di euro sono compresi, per esempio, circa 606 milioni di euro di consumi dei calciatori e oltre 135 milioni di investimenti infrastrutturali.
In secondo luogo, la Figc ha calcolato che nel 2016 la contribuzione fiscale e previdenziale aggregata del calcio professionistico italiano ha toccato circa 1,2 miliardi di euro (equivalente allo 0,06 per cento del Pil), che comprendono le ritenute Irpef, l’Iva, i contributi Inps, le scommesse sportive, l’Irap e l’Ires.
In nessun caso comunque si dice che il calcio professionistico è «un’industria che vale il 7 per cento del Pil italiano».
Questa percentuale non viene neppure citata dal presidente della Figc Gabriele Gravina, che in un lungo intervento di aprile 2020 sulla rivista Lavoro Diritti Europa ha ribadito i calcoli più aggiornati della sua federazione.
Allora da dove prende Valente il «7 per cento» di cui parla su Facebook? È un dato plausibile?
Altre stime sull’impatto economico del calcio e dello sport
Online ci sono alcuni articoli (qui e qui) dove si legge che in Italia «il calcio contribuisce per una percentuale pari al 7 per cento alla crescita del Pil» o che «i guadagni portati dal calcio italiano rappresentano il 7 per cento del Pil nazionale».
Gli articoli che parlano di questa percentuale citano come fonte il rapporto “Il conto economico del calcio italiano”, realizzato nel 2016 sempre dalla Figc, in collaborazione con la società di consulenza Deloitte.
In nessun passaggio del rapporto però – relativo al periodo 2014-2015 – si riporta il dato citato da Valente, che sembra poco plausibile se si prendono in considerazione alcune stime sui numeri generali dello sport in Italia.
Secondo le stime del Comitato olimpico nazionale italiano (Coni), per esempio, nel 2012 tutto lo sport – non solo il calcio professionistico – aveva contribuito al Pil italiano per circa 25,5 miliardi di euro, pari all’1,6 per cento del Pil del 2011.
La voce più ampia riguardava la spesa delle famiglie (oltre 22 miliardi di euro), seguita da quelle della Pubblica amministrazione (1,1 miliardi), dagli investimenti (2,1 miliardi), dalle esportazioni (1,8 miliardi) e dalle importazioni (1,6 miliardi).
Si possono guardare poi altre stime di nuovo dedicate solo al calcio professionistico, ma anche qui non c’è riferimento al «7 per cento».
Nel 2016 la società di consulenza Openeconomics ad esempio ha analizzato i dati del rapporto “Il conto economico del calcio italiano” con un modello economico diverso, arrivando alla conclusione che il contributo alla crescita del Pil del calcio professionistico in Italia «è superiore allo 0,7 per cento», mentre «il valore aggiunto generato per l’economia italiana è superiore ai 21,8 miliardi di euro» (circa l’1,2 per cento del Pil).
In ogni caso numeri più bassi di quelli indicati da Valente.
Quanti posti di lavoro crea il calcio?
L’ex sottosegretario ha anche scritto su Facebook che il calcio professionistico in Italia dà lavoro a «oltre 120 mila persone».
Qui l’ex sottosegretario del Movimento 5 stelle è andato più vicino ai numeri indicati dal rapporto della Figc Report Calcio 2019, dove si legge che secondo le stime della federazione sull’impatto socio-economico del calcio nel nostro Paese, i posti di lavoro direttamente collegati alla pratica calcistica sono quasi 100 mila.
Oltre 80 mila sono i posti di lavoro diretti nel settore calcistico, mentre 18 mila sono i posti di lavoro generati nel settore edilizio, per esempio per la realizzazione o manutenzione di stadi e impianti sportivi.
In questo ambito i numeri cambiano poi a seconda di che cosa si prenda in considerazione per “posti di lavoro” e dai calcoli.
Secondo le stime di Openeconomics, i numeri sarebbero più alti: «l’occupazione diretta, indiretta e indotta generata» dal calcio ogni anno in Italia sarebbe infatti «pari a 139 mila unità di lavoro qualificato e a 113 mila unità di lavoro non qualificato».
Cifre molto alte, se confrontate con quelle rilevate da Eurostat per tutto il settore sportivo.
Secondo i dati europei più aggiornati, infatti, nel 2018 in Italia erano occupati in tutti gli ambiti sportivi (non solo considerando gli atleti professionisti, ma anche chi lavora nelle palestre o nella parte organizzativa) meno di 117 mila persone, un numero vicino a quello a cui fa riferimento Valente, che però parla nello specifico solo del calcio professionistico.
Ricapitolando: nonostante le diverse stime pubblicate negli ultimi anni, al contrario del contributo del Pil, per l’occupazione Valente indica un numero più plausibile.
Il verdetto
Secondo Simone Valente (M5s), il calcio professionistico è un’industria che «vale il 7 per cento del Pil italiano, dando lavoro a oltre 120 mila persone».
Abbiamo verificato e Valente esagera per quanto riguarda il contributo del calcio alla produzione di ricchezza del nostro Paese, mentre indica un dato più plausibile per i posti di lavoro.
Secondo i calcoli più recenti della Figc, infatti, nel 2017 il calcio professionistico in Italia ha avuto un peso sul Pil di circa lo 0,2 per cento. Esistono poi altre stime sul peso del calcio sul Pil (sul suo impatto socio-economico o fiscale-contributivo), ma in nessun caso si parla di un «7 per cento» come fa Valente.
Sempre secondo la Figc, al calcio professionistico in Italia sarebbero direttamente legati circa 100 mila posti di lavoro, mentre secondo altre stime questo numero – considerando l’indotto – potrebbe arrivare a circa 140 mila o addirittura circa 250 mila contando anche le unità di lavoro non qualificato.
In ogni caso, vista l’esagerazione sul Pil, Valente si merita un “Pinocchio andante”.
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7 dicembre 2024
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