Quando Meloni voleva abolire l’autonomia differenziata

Nel 2014 la leader di Fratelli d’Italia ha proposto di eliminare l’articolo 116 della Costituzione, che permette alle regioni di chiedere maggiore libertà nella gestione di alcune materie
ANSA
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«L’autonomia differenziata è un provvedimento che unisce l’Italia, che combatte le disparità, che rende la nazione più forte e più giusta su tutto il territorio nazionale». Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha difeso l’approvazione definitiva in Parlamento del disegno di legge che ha stabilito i principi e le procedure da seguire per assegnare maggiore autonomia alle regioni che ne faranno richiesta. Dieci anni fa, però, la stessa Meloni sembrava pensarla diversamente: a gennaio 2014, quando era deputata, la leader di Fratelli d’Italia ha presentato un progetto di legge che proponeva di abrogare l’articolo 116 della Costituzione. Questo articolo, modificato nel 2001 con una riforma costituzionale, stabilisce quali sono le regioni a statuto speciale e il principio dell’autonomia differenziata, in base a cui le regioni possono chiedere maggiore libertà nella gestione di 23 materie, dall’istruzione alla sanità. Ma perché Meloni voleva cancellare l’articolo 116 della Costituzione?

La creazione di 36 nuove regioni

Questa proposta era contenuta in una riforma più corposa, presentata alla Camera insieme all’attuale ministro per i Rapporti con il Parlamento Edmondo Ciriani. Nel 2014 Meloni aveva proposto alcune modifiche al Titolo V della Costituzione, quello che regola i rapporti tra Stato e regioni. Innanzitutto la leader di Fratelli d’Italia voleva che fossero soppresse tutte le province e che i confini delle attuali 20 regioni italiane fossero modificati per creare «36 nuove regioni». Tra queste ce n’erano alcune con nomi originali, come la regione “Del Tanaro”, composta da una parte del Piemonte, e la regione dell’“Etruria”, composta da alcuni territori della Toscana e del Lazio. La proposta di Meloni ricalcava un progetto presentato nel 2013 dalla Società Geografica Italiana, un’organizzazione che ha l’obiettivo di promuovere la cultura e le conoscenze geografiche.
Immagine 1. Il nuovo assetto del territorio italiano proposto dalla Società Geografica Italiana e ripreso nella proposta di riforma costituzionale di Meloni nel 2014
Immagine 1. Il nuovo assetto del territorio italiano proposto dalla Società Geografica Italiana e ripreso nella proposta di riforma costituzionale di Meloni nel 2014
A marzo 2015, oltre un anno dopo la presentazione della riforma costituzionale alla Camera, la Società Geografica Italiana e Fratelli d’Italia hanno organizzato un seminario a Roma per difendere la proposta di riassetto del territorio italiano. «L’attuale riforma costituzionale ignora l’urgente bisogno di ridisegnare l’architettura dello Stato anche nel settore delle istituzioni territoriali», aveva dichiarato in quell’occasione l’allora capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Fabio Rampelli in riferimento alla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi. «‎La nostra proposta si fonda sulla cancellazione delle regioni e sulla categorica esclusione di un loro accorpamento perché le grandi dimensioni moltiplicano la spesa pubblica e aumentano la distanza con il territorio, i cittadini e i bisogni reali».

Nella proposta di riforma costituzionale di Meloni, l’articolo 117 della Costituzione, che regola le competenze di Stato e regioni su varie materie, non sarebbe stato modificato, se non con l’eliminazione dei riferimenti alle province. Come detto, invece, l’articolo 116 della Costituzione veniva abrogato.

Le critiche al regionalismo

A difesa della sua proposta, la leader di Fratelli d’Italia aveva scritto nel progetto di legge che il “regionalismo differenziato”, ossia l’assegnazione di competenze diverse alle regioni, «ha generato una proliferazione di enti territoriali intermedi a “geometria variabile”, appesantendo ulteriormente l’iperterritorializzazione della maglia amministrativa, con frequenti sovrapposizioni di competenze territoriali e con moltiplicazione delle disfunzioni della pubblica amministrazione, tali da rendere difficoltosa la garanzia di standard adeguati e finanche minimi dei servizi». Dieci anni fa, secondo Meloni emergeva «con drammaticità la mancanza di un disegno sistemico su cui fondare una progettualità territoriale (e amministrativa) capace di esprimere una visione coerente per il futuro, efficacemente capace di cogliere i bisogni del corpo sociale». Da qui derivava la proposta di creare le già citate 36 nuove regioni, con l’obiettivo di farle diventare «i centri propulsori della gestione amministrativa della cosa pubblica».

La proposta di Meloni non era comunque del tutto contraria al principio delle autonomie territoriali. Secondo la leader di Fratelli d’Italia, infatti, la creazione di 36 nuove regioni e l’abolizione delle province avrebbe costruito un «assetto più razionale, dove il sistema delle autonomie si coniuga efficacemente con le ragioni della semplificazione e della deburocratizzazione», implicando «una modernizzazione complessiva del nostro assetto istituzionale decentrato». «In un caso o nell’altro bisognerà comunque considerare l’opportunità di evitare forme di neo centralismo regionale o la proliferazione di ulteriori enti o agenzie regionali che possano rivelarsi meno funzionali dell’ente provincia di cui si prevede la soppressione», aveva scritto Meloni.

In ogni caso, la leader di Fratelli d’Italia era convinta della necessità di eliminare differenze significative tra la distribuzione delle risorse tra le varie regioni. Da qui derivava la richiesta di eliminare l’articolo 116 della Costituzione. «Sotto un altro aspetto, si è voluta abolire ogni forma di specialità regionale, con la conseguente abrogazione dell’articolo 116 della Costituzione», si legge nella proposta di riforma costituzionale di Meloni. «Le regioni a statuto speciale sono sorte, infatti, in ragione di particolari contingenze storiche e socio-culturali che oggi si ritengono superate, non essendo più giustificabile una così diversa e privilegiata distribuzione delle risorse rispetto alle regioni a statuto ordinario».

A dicembre 2014, durante un evento organizzato a Roma dal suo partito, l’attuale presidente del Consiglio aveva difeso la sua proposta di riforma della Costituzione. Dal palco del Teatro Quirino di Roma, Meloni aveva ribadito di volersi intestare la «battaglia per l’abolizione delle regioni».
«Bisogna avere il coraggio di dire che il regionalismo ha fallito, che alla fine le regioni sono diventate solamente dei centri di spesa formidabili, che sono state utilizzate dalla partitocrazia per moltiplicare carrozzoni, consulenze, occasioni di malaffare lontano dai riflettori. E, perché diciamocela tutta, l’identità italiana non si fonda sulle regioni», aveva detto Meloni.«L’identità italiana poggia sui comuni e noi vorremmo fare esattamente questo: vorremmo rafforzare i comuni e contemporaneamente restituire autorevolezza allo stato centrale. Tra questi due livelli di governo, noi proponiamo un solo livello intermedio che individuiamo con la nascita di 36 distretti con funzioni amministrative e non legislative. Sono 36 aree omogenee per cultura, tradizione e tessuto sociale, che sono state individuate dalla Società Geografica Italiana. Su questo progetto, che noi abbiamo già depositato, io voglio sfidare tanto il governo nazionale, che parla di macroregioni non capendo che costruisce un sistema ancora più distante dai cittadini, quanto la Lega, che si ostina a difendere un sistema palesemente fallito».

La proposta di riforma costituzionale di Meloni del 2014 è stata poi abbinata ad altre proposte ed è confluita nella riforma costituzionale del governo Renzi, che tra le altre cose chiedeva di abolire le province, come la leader di Fratelli d’Italia. La riforma, però, è stata bocciata con un referendum a dicembre 2016: oggi le province esistono ancora, ma i loro vertici non sono più eletti direttamente dai cittadini. In questa legislatura alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia hanno presentato alla Camera e al Senato due proposte per reintrodurre l’elezione diretta, a suffragio universale, dei presidenti di provincia e dei consiglieri provinciali.

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