Il 10 novembre la deputata del Pd Chiara Gribaudo ha criticato su Facebook la Regione Piemonte, guidata da Alberto Cirio (Forza Italia), per un atteggiamento definito «bipolare». Secondo Gribaudo, infatti, non si capisce la scelta di chiedere da un lato l’aiuto dei medici delle Ong ma di vietare allo stesso tempo «ai cittadini extraeuropei» di partecipare ai concorsi di emergenza per gli ospedali.

Al di là del giudizio sulla scelta della Regione Piemonte, abbiamo verificato e Gribaudo ha sostanzialmente ragione sul divieto anche se commette alcune imprecisioni. Andiamo a vedere i dettagli.

Medici Ong sì, medici extracomunitari no

Innanzitutto è vero che la Regione Piemonte abbia chiesto pubblicamente l’aiuto di medici e infermieri delle Ong. Come riferisce La Stampa, il presidente della commissione regionale Sanità Alessandro Stecco (Lega) ha lanciato un appello a tutte le Ong l’8 novembre: «Dirottate personale sanitario dai vostri ospedali all’estero verso il Piemonte. I posti letto e soprattutto il personale si stanno esaurendo. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti».

È poi vero che ad esempio nel bando per il reclutamento di operatori socio-sanitari «a tempo determinato nell’ambito dell’emergenza Covid-19» della Regione Piemonte – e in altri bandi analoghi (qui, qui e qui, ad esempio) – vengano posti dei limiti di accesso in base alla cittadinanza. In particolare si chiede che i partecipanti al bando abbiano la «cittadinanza italiana o cittadinanza di uno degli stati membri dell’Unione Europea», o siano familiari di un cittadino dell’Unione europea e abbiano il diritto di soggiorno o, ancora, siano cittadini extracomunitari titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo, o aventi lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria.

Gribaudo commette quindi una leggera imprecisione quando parla di «cittadini extraeuropei» e non di extracomunitari (un cittadino svizzero, ucraino o inglese ad esempio è extracomunitario ma non extraeuropeo) e soprattutto trascura l’ipotesi degli extracomunitari familiari di cittadini dell’Ue, o titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, o rifugiati o aventi la protezione sussidiaria.

Questa ipotesi dei cittadini extracomunitari familiari, o aventi il permesso di soggiorno di lungo periodo, o lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria però, come segnala Asgi in un recente appello dedicato a questo tema, c’è solo per infermieri e altro personale sanitario come tecnici e operatori. Per i medici – per cui non risultano bandi relativi alla Regione Piemonte, ma possiamo guardare a quanto fatto ad esempio da Sicilia e Calabria – questa ipotesi generalmente non è contemplata: il requisito è la cittadinanza italiana o comunitaria.

Secondo una denuncia di Asgi di qualche anno fa, questa distinzione è poi illegittima: in base al Testo unico sul pubblico impiego (art. 38), di cui parleremo tra poco, è possibile riservare determinati incarichi nella pubblica amministrazione ai cittadini italiani – a determinate condizioni, come vedremo – ma non è lecito discriminare tra stranieri comunitari e non comunitari (familiari o soggetti in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, o rifugiati, o aventi la protezione sussidiaria).

Perché gli extracomunitari no?

La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea è uno dei principi fondamentali del mercato unico. È stabilito dall’articolo 45 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) e riguarda i cittadini dell’Unione europea. Il comma 4 dell’articolo 45 stabilisce che questo principio non si applichi però alle pubbliche amministrazioni. Qui infatti si ritiene che lo Stato possa legittimamente imporre il requisito della cittadinanza.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, tuttavia, con la sentenza del 17 dicembre 1980 Commissione delle Comunità europee vs Belgio ha dato una definizione – poi ribadita in numerose pronunce successive – del concetto di pubblica amministrazione piuttosto restrittiva. In base a questa si richiede che i posti interessati dal requisito della cittadinanza dello Stato implichino la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri e riguardino attività che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche.

Per fare un esempio, è possibile stabilire per i ruoli di questore o di prefetto il requisito della cittadinanza italiana, non sembra lecito farlo per un posto da infermiere o di conducente di un mezzo pubblico.

Questo orientamento della Corte di Giustizia dell’Ue è stato recepito nell’ordinamento italiano dall’articolo 38 del Testo unico sul pubblico impiego, che stabilisce il principio generale di libero accesso da parte dei lavoratori Ue ai posti nella pubblica amministrazione italiana, salvo un elenco tassativo di posti e funzioni per cui è obbligatoria la cittadinanza italiana. Ma, come detto, quello della libera circolazione è un diritto garantito solo ai lavoratori cittadini di Stati dell’Unione europea.

Per i cittadini extracomunitari è comunque possibile lavorare nella pubblica amministrazione italiana. Come spiega un approfondimento della Regione Emilia-Romagna, non ci sono dubbi in particolare sui contratti a tempo determinato, mentre su quelli a tempo indeterminato esistono due orientamenti diversi, anche se quello che apre ai lavoratori extracomunitari risulta prevalente in giurisprudenza – e in particolare nel settore sanitario. Ma la legge impone comunque una serie di procedure e requisiti per il riconoscimento dei titoli di studio e professionali.

La novità del “Cura Italia”

Il decreto “Cura Italia” (d.l. n.18 del 17 marzo 2020) all’articolo 13 aveva però stabilito che «per la durata dell’emergenza epidemiologica da Covid-19(…) è consentito l’esercizio temporaneo di qualifiche professionali sanitarie ai professionisti che intendono esercitare sul territorio nazionale una professione sanitaria conseguita all’estero». In questo caso agli interessati è sufficiente presentare un’istanza corredata dal certificato di iscrizione all’albo del Paese di provenienza e la regione può procedere all’assunzione temporanea.

Un’opportunità questa che non è stata raccolta dalla Regione Piemonte. E non solo.

Non solo il Piemonte

Come denunciato il 9 novembre dall’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) nell’appello di cui abbiamo già detto, «inspiegabilmente, le amministrazioni di Ospedali e Azienda sanitarie stanno completamente ignorando» la facoltà data dal decreto “Cura Italia”.

Non solo nella Regione Piemonte ma anche «in Lombardia, in Lazio, in Basilicata, nel Molise, in Sicilia, in Calabria».

E sì che, sempre come riporta Asgi, che cita come fonte l’Amsi (Associazione medici stranieri in Italia), «in Italia sono presenti circa 77.500 persone aventi cittadinanza straniera con qualifiche sanitarie: tra cui 22 mila medici, 38 mila infermieri, e poi fisioterapisti, farmacisti, odontoiatri e altri professionisti della sanità. Ma tra questi numeri piuttosto consistenti, solo il 10 per cento riesce ad accedere a posti di lavoro nell’ambito della Sanità pubblica».

Il verdetto

Il 10 novembre la deputata del Pd Chiara Gribaudo ha dichiarato che la Regione Piemonte, mentre da un lato chiede ai medici delle Ong impegnati all’estero di tornare in patria per aiutare a contrastare l’emergenza Covid-19, dall’altro impedisce di partecipare ai concorsi ai medici extraeuropei.

L’affermazione è sostanzialmente corretta, al netto di alcune precisazioni. Come abbiamo verificato, la Regione Piemonte – e non solo lei – chiede nei suoi bandi il requisito della cittadinanza di un Paese dell’Ue (dunque parlare di extraeuropei è impreciso: si tratta di extracomunitari) o di essere un familiare regolarmente residente di un cittadino Ue, o di essere titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo, o dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

Per Gribaudo quindi un “C’eri quasi”.